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20 Agosto 2018All’inizio degli anni ’30 del Novecento don Guglielmo Biasutti, nativo di Forgaria nel Friuli, a soli ventisei anni era un sacerdote di umili origini contadine, ma di belle speranze: laureato in teologia presso l’università Pontificia Lateranense di Roma, e in filosofia presso l’Università Cattolica di Lovanio, era già professore in seminario e nell’Istituto Bertoni a Udine (nel palazzo Antonini-Cernazai, l’odierna sede centrale dell’Università), tiene conferenze ed è molto apprezzato anche come predicatore. Tutti si aspettano da lui una brillantissima carriera ecclesiastica: invece quel giovane prete ha in cuore un altro sogno, un’altra vocazione: si sente chiamato a prestare la sua opera in favore dei poveri, e specialmente dei ragazzi abbandonati o senza mezzi. E lui stesso è solo e privo di mezzi economici per la grande opera che vorrebbe creare, eppure confida strenuamente nella Provvidenza ed è certo che al momento giusto Dio non gli farà mancare il modo di realizzarla. Nel 1934 riesce a comprare una vasta proprietà al limite estremo di via Planis, zona allora interamente rurale, grazie alle offerte e in particolare alla donazione di una nobildonna, Melania Angeli, vedova Bearzi: in ricordo del suo figlioletto morto precocemente, chiamerà il suo istituto, nato ufficialmente nel 1937, Bearzi. Ed è così che gli udinesi l’hanno sempre conosciuto, come pure la chiesa che ne fa parte; nessuno, infatti, la chiama chiesa di San Giovani Bosco, anche se quello sarebbe il suo titolo. Nato come istituto per gli orfani, inizialmente 60 bambini, diverrà pian piano una grande realtà pastorale ed educativa, quale è oggi, ispirata all’ideale di San Giovanni Bosco, con scuole d’ogni ordine e grado e corsi di formazione professionale. I salesiani arrivano nel 1939 e don Biasutti passa loro la direzione dell’istituto: come tutti i grandi, non pensa alla gloria, ma gli basta sapere che la sua opera è in buone mani e che verrà portata avanti nella maniera migliore. Si preoccupa unicamente del bene dei suoi ragazzi, per i quali ha un amore simile a quello di san Giovanni Bosco. Così il Bearzi diviene una vera e propria cittadella dei ragazzi, con numerosi edifici, il convitto, aperto poi anche agli "esterni", i laboratori professionali, la scuola di arti e mestieri, e naturalmente la chiesa, a pianta rettangolare, nel tipico stile salesiano degli anni ’30, con l’alto campanile sormontato dalla croce, che pare veglia e protegga dall’alto la comunità sorta e sviluppatasi in maniera prodigiosa, e portata avanti con slancio ed entusiasmo, senza mai battute d’arresto, nonostante gi anni durissimi della Seconda guerra mondiale, diventando un elemento caratteristico e un punto di riferimento per tutta la realtà cittadina.
Don Guglielmo Biasutti, negli anni dopo la guerra e fino alla morte, nel 1985, si segnalò per la quantità e la qualità dei suoi studi di storia ecclesiastica locale, specialmente sulle origini del cristianesimo ad Aquileia, e sulla figura di alcuni friulani illustri, come la beata Elena Valentinis, don Luigi Scrosoppi e l’avvocato filantropo Giuseppe Brosadola. Prima, però, nel 1941, era stato cappellano militare in Russia, con la legione di Camicie Nere Tagliamento. Aveva chiesto lui stesso di partire volontario, per condividere la sorte degli alpini in Albania, alla fine del 1940; venne invece mandato in Russia, ritraendone una esperienza indimenticabile, che avrebbe poi rievocato nel libro Nel nostro cimitero di Mikailova:
Miei carissimi Redici, legionari del 63° e del 79° Btg. CC.NN., fanti delle Armi Accompagnamento ed autieri dell’Autocentro, scadono esattamente in questo giorni d’agosto (8,9,10) i cent’anni da quando partimmo per la Campagna di Russia, alcuni di noi da Marmirolo, altri da S. Antonio Mantovano, altri da Volta Mantovana.
Noi ci incontreremo tra breve — io spero — per ricordare questa data, da cui ebbe inizio una mirabile storia di martirio e, possiamo affermarlo senza iattanza, di gloria.
Ci raduneremo mossi da quel sentimento di fraternità che lega indissolubilmente coloro i quali hanno sofferto gomito a gomito tante prove ed affrontato insieme mille volte la morte.
Ci raduneremo soprattutto per ripetere i nomi e richiamarci alla memoria le gesta dei nostri indimenticabili Caduti e Dispersi. E speriamo che tutti sapranno riconoscere il pacifico diritto di ricordare e di pregare.
Lasciate che una volta di più il vostro cappellano vi inviti ad un colpo d’ala di coraggio, di serenità e di poesia.
Se mai qualcuno vuole pavidamente ignorare o passare sotto silenzio o, peggio, irridere il sacrificio dei nostri Caduti e Dispersi e nostro, noi siamo abbastanza grandi di spirito per non restarne turbati…
Tornato dalla Russia, l’infaticabile sacerdote ebbe anche tempo e modo, nel periodo più crudo della guerra, con la fame e sotto i bombardamenti, di creare, a Santa Maria la Longa, il cosiddetto Piccolo Cottolengo friulano, nel 1943-44, la sua terza opera assistenziale, dopo il Bearzi, del 1936, e dopo la Piccola casa Ozanam per gli ex carcerati, del 1933. Poi, come si è detto, i suoi interessi di studioso prevalsero ed egli dedicò molto tempo alla ricerca, attingendo specialmente agli archivi del seminario, e alla stesura delle sue numerose opere. La sua fu una personalità straordinariamente ricca e poliedrica: come scrive Sandro Piussi nel Dizionario Biografico dei Friulani, egli fu forse l’ultimo dei grandi uomini di fede e di cultura che onorarono la Chiesa friulana:
Fatto segno di apprezzamenti per le sue qualità geniali e carismatiche, per le doti dialettiche e intellettuali di storico, come pure per quella sua indole infuocata e senza misure, per cui patì cocenti incomprensioni, preferì, dal 1975, ritirarsi presso il suo Bearzi, a vita appartata, dedita alle ricerche archivistiche e all’analisi storica, condotta non senza geniali e provocanti intuizioni; prodigo sempre di attenzioni per quanti da lui cercavano lumi e consigli nell’ambito della ricerca. Morì a Udine il 23 febbraio 1985 e fu sepolto a Forgaria. Biasutti fu sacerdote, intellettuale e filantropo, uomo della carità, pubblicista fecondo e poliedrico, caustico e provocante, storico locale dalle ampie vedute. Uomo di fede e di cultura, in lui si armonizzavano l’anima della carità, lo spirito dell’intellettuale, l’impegno del cittadino. Con la sua scomparsa, è stato detto di lui che "La Chiesa udinese perde l’ultimo dei ‘grandi’ uomini di fede e di cultura, che la resero illustre e stimata non solo in Friuli, ma in Italia e all’esterno negli ultimi sessanta anni". Biasutti, uomo dalla limpida fede, e vibrante, ebbe a dire (1983): "(…) la cultura cristiana scintilla ed esplode quando arriva a bere alla fonte della poesia e della musica, che è il divino celato, ma insito nella natura e nell’uomo; il divino in cui viviamo e siamo, che è il Cristo stesso, pulsante come autore della vita e redentore del vivere totale. Solo questa estatica percezione — sentire — e lettura, dà alla cultura del clero e del laicato cattolico la sua autentica dimensione e ricchezza". Il monsignore Biasutti ha vissuto integralmente tale "linea Christi", come lui dichiarava.
Nel 1937 aveva preso la penna anche per difendere gli ebrei dalle imminenti persecuzioni, facendo eco a un articolo di padre Mario Barbera su La Civiltà Cattolica, con un opuscolo intitolato Cristiani ed Ebrei in Italia, che gli valse incomprensioni e amarezze. Naturalmente qualcuno ha poi cercato di strumentalizzarlo facendone un anticipatore della "svolta" post-conciliare, quando gli ebrei sono improvvisamente diventati i nostri fratelli maggiori e, addirittura, non più bisognosi di conversione, perché già salvi, grazie alla perenne validità dell’Antica Alleanza; ma il vero pensiero di don Biasutti era ben altro. Egli sosteneva che è ingiusto odiare gli ebrei in quanto appartenenti a un’altra razza, che bisogna amarli e favorirne la conversione. E anche in ciò lui, e non gli altri, era fedele al Magistero perenne della Chiesa.
Ora, si prenda questa frase di don Biasutti (dal sito: www.Bearzi.it):
Con fatale spontaneità doveva nascere, nel cuore d’un uomo e d’un prete l’idea di trovare un ambiente, di mettervi i giacigli e di raccogliere dalle tenebre — cattive consigliere e pessime coltrici — gli sperduti di tutte le vie, per vivere con loro, spartirne i crucci e cantar loro la ninna nanna della fede.
E la si confronti con quest’altra, scritta a un amico , Giorgio Pecorini, da un prete che ha dedicato, anche lui, la sua vita ai ragazzi di una povera scuola di campagna, don Lorenzo Milani (in: Don Milani! Chi era costui?, Baldini & Castoldi, 1996, pp. 386-391):
Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani più che la Chiesa e il Papa? E se un rischio corro per l’anima mia non è certo di aver poco amato, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli anche a letto!). (…) E chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire col metterglielo anche in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso?
Evidentemente, siamo di fronte a due maniere totalmente diverse, e incompatibili, di concepire la dedizione di un sacerdote nei confronti dei piccoli. E la sola maniera autenticamente cristiana è quella di don Biasutti, dimenticato prete friulano, che perfino nella sua terra e nella città ove ha fatto tante opere di bene è oggi pressoché sconosciuto, specialmente ai giovani; non quella del prete fiorentino che ora va per la maggiore, al punto che si sprecano i libri, gli articoli e le tesi di laurea su di lui, grande pedagogista (e abbiamo visto, nella squallida vicenda del Forteto, i frutti di grazia della sua pedagogia!), e il signore argentino in persona che siede in Vaticano si reca in "pellegrinaggio" a Barbiana per rendere omaggio alla sua memoria, additandolo a tutto il clero come fulgido esempio di vero prete cattolico. Ma così va il mondo e n on ce ne meravigliamo più di tanto, sebbene un po’ più di decenza non guasterebbe, da pare della cultura cattolica progressista e neomodernista. E già che ci siamo, rileggiamo la frase rivolta ai suoi ex commilitoni della legione Tagliamento, del 1961, a vent’anni dalla partenza di quei soldati per la Russia: Se mai qualcuno vuole pavidamente ignorare o passare sotto silenzio o, peggio, irridere il sacrificio dei nostri Caduti e Dispersi e nostro, noi siamo abbastanza grandi di spirito per non restarne turbati; e, di nuovo, confrontiamola con quel che scrisse don Milani ai cappellani militari i quali, nel 1965, avevano preso posizione contro l’obiezione di coscienza (da: L’obbedienza non è più una virtù):
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben più alti di lei. Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa. Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Articolo 11 «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…».
Articolo 52 «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino».
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.
Dopo di che don Milani passava in rassegna tutte le guerre sostenute dall’Italia dal 1861 al 1945 per dimostrare che erano state tutte di aggressione. Non gli è mai venuto in mente che un cappellano militare va con i soldati per assisterli spiritualmente e non per amore del militarismo. Ma che altro aspettarsi da un prete che di se stesso afferma: almeno nella scelta dei mezzi, sono migliore di voi?