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Unità dei cristiani o tradimento del Vangelo?

L’unità dei cristiani è un valore, un obiettivo altamente desiderabile: chi potrebbe metterlo in dubbio? Chi potrebbe negare che le loro divisioni rappresentano uno scandalo agli occhi di Dio? Eppure, allo stesso tempo, come si può non vedere il tremendo percolo che si nasconde dietro quel desiderabilissimo obiettivo? Chi potrebbe essere tanto ingenuo da non capire che la posta in gioco rischia di essere niente di meno che la fedeltà al Vangelo e, quindi, la sopravvivenza di una chiesa che sia ancora quella santa, apostolica, cattolica e romana, voluta da Gesù Cristo? Qui non stiamo parlando di istituzioni o di organismi profani, ad esempio di comitati d’affari, o di gruppi finanziari, o di partiti politici; qui stiamo parlando della Verità, di quella Verità che è stata resa tangibile da Gesù Cristo e che è stata da Lui istituita per la salvezza del mondo, e santificata mediante l’effusione del Suo sangue sulla croce. Non solo: stiamo parlando di ciò che vi è al cuore della Chiesa, ossia il sacrificio eucaristico: il rinnovarsi continuo di quella effusione, e sempre per la stessa ragione, la salute eterna delle anime. Pertanto, quel che sarebbe logico e naturale se si trattasse di cercare l’unità fra dei soggetti profani, diventa illogico e innaturale, o peggio, diventa cioè eretico e apostatico, se lo si applica alla Chiesa di Cristo. La Verità è una e non può essere oggetto di negoziati, di compromessi, di transazioni d’alcun tipo; nemmeno la più piccola particella della Verità, iota unum, può essere sacrificata in nome di un fine pur lodevole in se stesso, la ricerca dell’unità dei cristiani. Perché l’unità fuori della Verità è una terribile menzogna, ed una chiesa adulterata e compromessa con le logiche opportunistiche del mondo non servirebbe più a niente a nessuno, anzi, molto peggio: diventerebbe, Dio non voglia!, strumento di confusione invece che di Verità, e via verso la dannazione invece che verso la vita eterna.

Eppure, la ricerca ad ogni costo dell’unità dei cristiani è stato uno dei punti centrali della riflessione e dell’attività dei padri conciliari durante il Vaticano II: segno che, o essi hanno minimizzato e disprezzato il pericolo di cui si è detto, oppure, cosa ancor più grave, pur essendone perfettamente coscienti, gli sono andati incontro con animo lieto, come se non di un pericolo si trattasse, ma di una meta gioiosa e altamente meritoria: il che qualificherebbe automaticamente le loro intenzioni come subdole, perfide ed eretiche. La ricerca dell’unità dei cristiani è uno dei principali motivi ispiratori di tutto il Concilio; se ne avverte la presenza in tutta l’atmosfera conciliare, in ogni singolo momento e in ogni singola commissione; ma, come è noto, essa ha dato luogo anche a un documento specifico, il decreto Unitatis Redintegratio, approvato con una maggioranza quasi totale, 2.137 voti a favore e appena 11 contrari, e promulgato da Paolo VI il 21 novembre 1964. A partire da quella data, l’ecumenismo entra far parte ufficialmente e solennemente degli obiettivi più urgenti e più specifici del Magistero e della pastorale cattolica, e alcuni movimenti laicali sono sorti con l’obiettivo preciso di portare avanti tale obiettivo, fra i quali, oggi, si distingue per zelo e determinazione la Comunità di sant’Egidio, nata nel 1968 e diffusa in una settantina di Paesi di tutti i continenti. Tuttavia, forse non è tutto oro quel che luccica. Che significa, in realtà, ecumenismo? Forse qui c’è un terribile equivoco; siamo anzi certi che la grandissima maggioranza di quegli oltre 2.000 vescovi, i quali approvarono la Unitatis Redintegratio, non si rese conto del "taglio" che alcuni di essi vollero dare, fin dall’inizio, al concetto di ecumenismo, e che, qualora se ne fosse resa conto, si sarebbe guardata bene dall’apporre la sua firma sotto quel documento. Di solito i fautori dell’ecumenismo si fanno forti del fatto che il movimento per l’unità dei cristiani sorse, nella Chiesa cattolica, fin da 1948, dunque una quindicina d’anni prima del Concilio, e che ebbe l’approvazione di papa Pio XII; stanno bene attenti, tuttavia, a non lasciar capire, anzi, cercano in ogni modo di nascondere, il piccolo dettaglio che l’ecumenismo nato dopo la Seconda guerra mondiale, e guardato con favore da Pio XII, non era affatto l’ecumenismo che oggi sta mietendo i suoi discutibili successi nella neochiesa di Bergoglio e della Comunità di Sant’Egidio, quella che trasforma l’antica e gloriosa basilica di Santa Maria in Trastevere, il giorno di Natale, in un una sala mensa per i poveri, invece di dar loro da mangiare in un qualsiasi salone parrocchiale, con la precisa volontà di dissacrare quel luogo di preghiera e di far passare l’ideologia di Marta: l’idea, cioè, che il fare sia più importante del pregare, del contemplare, dell’ascoltare la parola di Dio, capovolgendo la raccomandazione di Gesù Cristo (Luca, 10, 41-42): Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta.

La Unitatis Redintegratio merita — e lo faremo — un ragionamento e uno studio più specifico di quel che possiamo fare adesso, in questa sede. Per intanto, ci basta evidenziare una terribile ambiguità, forse voluta, che inquina quel documento e che si presta alle peggiori distorsioni, alle quali stiamo ora assistendo, con la santa Messa profanata dalla presenza di non cattolici, e addirittura di non cristiani, i quali partecipano perfino al Sacrifico eucaristico. Nel secondo capitolo, intitolato Esercizio dell’ecumenismo, si dice fra l’altro:

6. Siccome ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in una fedeltà più grande alla sua vocazione, esso è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità. La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno. Se dunque alcune cose, sia nei costumi che nella disciplina ecclesiastica ed anche nel modo di enunziare la dottrina – che bisogna distinguere con cura dal deposito vero e proprio della fede–sono state osservate meno accuratamente, a seguito delle circostanze, siano opportunamente rimesse nel giusto e debito ordine. Questo rinnovamento ha quindi una importanza ecumenica singolare. I vari modi poi attraverso i quali tale rinnovazione della vita della Chiesa già è in atto – come sono il movimento biblico e liturgico, la predicazione della parola di Dio e la catechesi, l’apostolato dei laici, le nuove forme di vita religiosa, la spiritualità del matrimonio, la dottrina e l’attività della Chiesa in campo sociale–vanno considerati come garanzie e auspici che felicemente preannunziano i futuri progressi dell’ecumenismo.

LA CONVERSIONE DEL CUORE

7. Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione. Infatti il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento dell’animo, dall’abnegazione di se stessi e dal pieno esercizio della carità. Perciò dobbiamo implorare dallo Spirito divino la grazia di una sincera abnegazione, dell’umiltà e della dolcezza nel servizio e della fraterna generosità di animo verso gli altri. « Vi scongiuro dunque – dice l’Apostolo delle genti – io, che sono incatenato nel Signore, di camminare in modo degno della vocazione a cui siete stati chiamati, con ogni umiltà e dolcezza, con longanimità, sopportandovi l’un l’altro con amore, attenti a conservare l’unità dello spirito mediante il vincolo della pace» (Ef 4,1-3). Questa esortazione riguarda soprattutto quelli che sono stati innalzati al sacro ordine per continuare la missione di Cristo, il quale « non è venuto tra di noi per essere servito, ma per servire » (Mt 20,28).

Anche delle colpe contro l’unità vale la testimonianza di san Giovanni: « Se diciamo di non aver peccato, noi facciamo di Dio un mentitore, e la sua parola non è in noi» (1 Gv 1,10). Perciò con umile preghiera chiediamo perdono a Dio e ai fratelli separati, come pure noi rimettiamo ai nostri debitori.

Si ricordino tutti i fedeli, che tanto meglio promuoveranno, anzi vivranno in pratica l’unione dei cristiani, quanto più si studieranno di condurre una vita più conforme al Vangelo. Quanto infatti più stretta sarà la loro comunione col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più intima e facile potranno rendere la fraternità reciproca.

Fin dall’inizio si fa un uso improprio del termine rinnovamento, perché la Chiesa non è chiamata a rinnovarsi in quanto istituzione, poiché essa è la custode del Deposito della fede, che non si rinnova essendo in sé perfetto e definitivo, non soggetto ad alcuna variazione. Al tempo stesso, si suggerisce che rinnovamento e riforma sono la stessa cosa e che il rinnovamento della Chiesa, cioè la sua riforma, deve essere continuo, perché continuo deve essere il rinnovamento dell’animo, e continua la conversione del cuore. Così, come nel gioco delle tre carte, il fedele resta confuso e si trova di fronte a una conclusione che non capisce bene da quali passaggi sia scaturita: cioè la Chiesa deve continuamente riformarsi, e tale processo consiste essenzialmente in una fedeltà più grande alla sua vocazione. Ora, se il concetto di continua riforma, anzi, di una serie di riforme (siccome ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente, eccetera), il che fa pensare a delle discontinuità, sembra pensato apposta per compiacere i "fratelli separati" protestanti, il concetto di far discendere l’ecumenismo dalla conversione del cuore (non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione) sembra pensato per far credere che il primo scaturisce naturalmente dalla seconda, il che non è accettabile, finché non si definisce cosa sia l’ecumenismo. Perché il punto è sempre lo stesso: se l’unità dei cristiani sia un valore "a prescindere", oppure se il valore davvero imprescindibile, per un cattolico, sia sempre e innanzitutto la Verità. Se il cattolico non può transigere sulla Verità, ne consegue che non sempre l’ecumenismo è una cosa buona. Lo è, se si tratta di ottenere il riconoscimento, da parte di tutti, della sola Verità di cui la Chiesa stessa si è fatta interprete nella storia, pur nella sua fragilità riguardo alla sua componete umana, ma forte della infallibilità della sua componente soprannaturale (lo Spirito Santo e la Comunione dei Santi); non lo è, se si tratta di scendere a componessi che mutilano e sfigurano la Verità della fede, sulla quale nessuno, nemmeno il papa, ha la benché minima facoltà di operare modifiche. Questo è il punto sensibile dell’intera questione e chi lo minimizza, o fa finta di non vederlo, non opera secondo verità, perché non pensa e non agisce da cattolico, ma da politico, interessato ad arrivare ad una intesa a qualsiasi prezzo con chi cattolico non è. Molte altre cose ci sarebbero da dire su tale aspetto, e ci riserviamo di tornare sull’argomento; per intanto, siamo paghi di aver evidenziato un concetto fondamentale: che l’ecumenismo non è un bene in se stesso, non è un valore auto-evidente; ma è un bene solo a determinate condizioni, e, in particolare, alla condizione che, per attuarlo, non si operi la benché minima modifica della dottrina cattolica.

La giusta impostazione della questione dell’unità dei cristiani si trova in una enciclica di Pio XI, promulgata il 6 gennaio 1928, concepita per difendere la verità rivelata da Gesù Cristo e per riaffermare la vera natura della Chiesa, la cui ragion d’essere consiste nella custodia fedele di tale verità, mezzo di salvezza indispensabile per le anime. Non solo: in quel documento, Pio XI non si perita di criticare duramente l’ecumenismo e di ordinare ai cattolici di non partecipare agli incontri ed alle iniziative di tipo ecumenico. È chiaro, pertanto che la Unitatis Redintegratio si pone agli antipodi della dottrina contenuta nella Mortalium animos e che ci troviamo perciò in presenza di una contraddizione del Magistero. Ma il Magistero, per definizione, non può contraddirsi. Ne consegue, per logica necessità, che uno dei due documenti esprime fedelmente il Magistero della Chiesa, l’altro no. Ciascuno è libero di trarre le proprie conclusioni; ma è certo che le conclusioni un cattolico non le trae secondo il suo privato giudizio, ma in armonia, fedeltà e obbedienza con il Magistero perenne. Ora il minimo che si possa dire è che la Mortlaium animos è fedele al Magistero di sempre, mentre la Unitatis Redintegratio introduce un forte elemento di novità, o, come amano dire i teologi delle ultime generazioni, di discontinuità. E se si vuol precisare ulteriormente perché la Mortalium animos (la quale, come enciclica, anche giuridicamente possiede un valore superiore a quello di un decreto) faccia testo in fatto di Magistero, è presto detto: perché essa ricorda che la Chiesa cattolica custodisce la Rivelazione di Cristo, la quale non è soggetta a mutamento; quindi non è cattolico e non è veritiero pensare che, pur di ricostituire l’unità dei cristiani sia lecito alterare anche solo minimamente la Rivelazione stessa. Per usare le parole di Pio XI:

Necessariamente, quindi, non solo la Chiesa di Cristo deve sussistere oggi e in ogni tempo, ma anzi deve sussistere quale fu al tempo apostolico, se non vogliamo dire — il che è assurdo — che Cristo Signore o sia venuto meno al suo intento, o abbia errato quando affermò che le porte dell’inferno non sarebbero mai prevalse contro la Chiesa..

E qui si presenta l’opportunità di chiarire e confutare una falsa opinione, da cui sembra dipenda tutta la presente questione e tragga origine la molteplice azione degli acattolici, operante, come abbiamo detto, alla riunione delle Chiese cristiane.

I fautori di questa iniziativa quasi non finiscono di citare le parole di Cristo: « Che tutti siano una cosa sola … Si farà un solo ovile e un solo pastore », nel senso però che quelle parole esprimano un desiderio e una preghiera di Gesù Cristo ancora inappagati. Essi sostengono infatti che l’unità della fede e del governo — nota distintiva della vera e unica Chiesa di Cristo — non sia quasi mai esistita prima d’ora, e neppure oggi esista; essa può essere sì desiderata e forse in futuro potrebbe anche essere raggiunta mediante la buona volontà dei fedeli, ma rimarrebbe, intanto, un puro ideale. Dicono inoltre che la Chiesa, per sé o di natura sua, è divisa in parti, ossia consta di moltissime chiese o comunità particolari, le quali, separate sinora, pur avendo comuni alcuni punti di dottrina, differiscono tuttavia in altri; a ciascuna competono gli stessi diritti; la Chiesa al più fu unica ed una dall’età apostolica sino ai primi Concili Ecumenici. Quindi soggiungono che, messe totalmente da parte le controversie e le vecchie differenze di opinioni che sino ai giorni nostri tennero divisa la famiglia cristiana, con le rimanenti dottrine si dovrebbe formare e proporre una norma comune di fede, nella cui professione tutti si possano non solo riconoscere, ma sentire fratelli; e che soltanto se unite da un patto universale, le molte chiese o comunità saranno in grado di resistere validamente con frutto ai progressi dell’incredulità.

Pio XI, fedele custode del Deposito della fede, aveva visto perfettamente l’inganno che si annida nel pensiero di certi fautori dell’ecumenismo: I fautori di questa iniziativa quasi non finiscono di citare le parole di Cristo: Che tutti siano una cosa sola … Si farà un solo ovile e un solo pastore. Come dire: non basta citare le parole di Gesù Cristo; bisogna rispettarne anche lo spirito. E che Pio XI avesse visto l’inganno e la malizia di quei neomodernisti mascherati da cattolici, lo si evince anche da quel che dice all’inizio della sua enciclica:

*Ma dove, sotto l’apparenza di bene, si cela più facilmente l’inganno, è quando si tratta di promuovere l’unità fra tutti i cristiani. Non è forse giusto — si va ripetendo — anzi non è forse conforme al dovere che quanti invocano il nome di Cristo si astengano dalle reciproche recriminazioni e si stringano una buona volta con i vincoli della vicendevole carità? E chi oserebbe dire che ama Cristo se non si adopera con tutte le forze ad eseguire il desiderio di Lui, che pregò il Padre perché i suoi discepoli « fossero una cosa sola »? [*1](https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19280106_mortalium-animos.html#_ftn1)]. E lo stesso Gesù Cristo non volle forse che i suoi discepoli si contrassegnassero e si distinguessero dagli altri per questa nota dell’amore vicendevole: « In ciò conosceranno tutti che siete miei discepoli se vi amerete l’un l’altro»?. E volesse il Cielo, soggiungono, che tutti quanti i cristiani fossero « una cosa sola »; sarebbero assai più forti nell’allontanare la peste dell’empietà, la quale, serpeggiando e diffondendosi ogni giorno più, minaccia di travolgere il Vangelo.

Questi ed altri simili argomenti esaltano ed eccitano coloro che si chiamano pancristiani, i quali, anziché restringersi in piccoli e rari gruppi, sono invece cresciuti, per così dire, a schiere compatte, riunendosi in società largamente diffuse, per lo più sotto la direzione di uomini acattolici, pur fra di loro dissenzienti in materia di fede. E intanto si promuove l’impresa con tale operosità, da conciliarsi qua e là numerose adesioni e da cattivarsi perfino l’animo di molti cattolici con l’allettante speranza di riuscire ad un’unione che sembra rispondere ai desideri di Santa Madre Chiesa, alla quale certo nulla sta maggiormente a cuore che il richiamo e il ritorno dei figli erranti al suo grembo. Ma sotto queste insinuanti blandizie di parole si nasconde un errore assai grave che varrebbe a scalzare totalmente i fondamenti della fede cattolica.

Sorge perciò la domanda: i papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI, non avevano presente la Mortalium animos e non temevano l’inganno denunciato da Pio XI? E ancora: come mai i papi del post-concilio non hanno mai più ripreso le verità contenute nella Mortalium animos, ma hanno sempre e solo fatto riferimento alla Unitatis Redintegratio? Non è questa già, di per se stessa, la dimostrazione che qualcosa nella Chiesa cattolica ha smesso di essere ciò che era sempre stato fino al 1962; che un pensiero estraneo, non cattolico, si è insediato in essa; e che ai fedeli è stato presentato come un guadagno e una ricchezza ciò che, invece, rischia di essere un terribile inganno?

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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