Grazie di tutto, don Gino
4 Marzo 2023Gli insegnanti, si sa, sono chiamati a svolgere una missione infinitamente delicata: quella di aprire la mente e il cuore dei giovani, loro affidati, alla bellezza degli studi e, insieme, alla profonda serietà della vita.
Per quanto riguarda gli insegnanti di filosofia e teologia, si direbbe che il compito loro assegnato rivesta un carattere di ulteriore delicatezza: perché un cattivo insegnamento della chimica o della matematica, con tutto il rispetto dovuto a queste due discipline, potrà fare, sì, danni, e anche gravi, dal punto di vista culturale e professionale, ma non già sul piano morale e spirituale, e dunque non nella sfera intima e profonda dell’anima umana.
Può accadere che un insegnante di filosofia o di teologia, specialmente se giovane, si senta portato, qualora possieda particolari doni d’intelligenza e di sapere, a non limitarsi ad una esposizione obiettiva di tali materie, né ad avviare i suoi studenti alla sana abitudine del ragionamento rigoroso e spassionato, sì da renderli autonomi, nel pensare e nell’agire, in vista della loro vita futura e delle scelte che faranno da adulti; ma che, inebriato dalla fiducia in se stesso e dalla sensazione di esser capace di modellare, quasi come cera, le menti dei giovani, si lanci in modi di fare sempre più audaci, dando al suo magistero un taglio assai personale, tale da appagare pienamente la sua vanità, mediante la palese ammirazione, e quasi la venerazione, che essi gli rivolgono; per non dire di quel che accade se si tratta di studenti dell’altro sesso. Questi ultimi, infatti, sono pronti, nel calor bianco dell’età adolescenziale, a confondere l’ammirazione intellettuale verso la figura del docente, con l’ammirazione e il trasporto sentimentale verso la persona concreta che hanno davanti quasi ogni giorno, e alle cui parole non parrebbero mai stanchi d’abbeverarsi.
Si crea, sovente, una specie di corrente elettrica, nella quale chi sta da una parte della cattedra, e chi sta dall’altra, credono di capirsi a meraviglia, di influenzarsi positivamente, di aver superato le barriere dei normali rapporti sociali e di essere divenuti quasi un tutt’uno; e questo in un clima di complicità, di sottintesi, di sorrisi, di compiacenze, i quali, forse, dispiacciono a qualche alunno, che, per una ragione o per l’altra, non partecipa all’entusiasmo generale, ma che coinvolgono, anima e corpo, tutti gli altri, fino all’illusione di aver superato la quotidianità di un normale rapporto educativo, per tuffarsi nelle limpide regioni dell’assoluto.
Se ciò accade, si tratta di una situazione potenzialmente assai pericolosa: perché l’insegnante, in quel momento, dispone di un’autorità enorme, che non gli deriva solo dalla sua posizione gerarchica, ma soprattutto dal suo personale carisma; e quella enorme autorità egli può splenderla bene oppure male, sia accompagnando i suoi alunni verso la meta dell’autonomia intellettuale, della coscienza di sé e della progressiva maturazione, sia esercitando, nei loro confronti, una vera e propria forma di plagio, per cui, abusando della loro fiducia, può trascinarli su di un cammino infido e sbagliato, di cui essi non vedono affatto i pericoli, ma che, un domani, potrebbe rivelarsi addirittura disastroso per quanti lo hanno intrapreso.
Ecco perché l’insegnante, specialmente se giovane, deve stare molto in guardia contro il pericolo dell’orgoglio; deve porsi al servizio disinteressato della crescita di quei ragazzi, e non tentare di renderli simili a sé, nel modo di pensare o di sentire; deve ricordarsi dei propri limiti, del fatto che egli stesso potrebbe, un domani, accorgersi d’aver capito male dei concetti importanti: in quel caso, egli avrebbe anche il rimorso di avere trasmesso tali errori, con leggerezza, a quanti si fidavano ciecamente di lui. Insomma, egli deve sorvegliarsi costantemente, per non confondere, agli occhi dei discenti, la sua funzione d’insegnante e la sua persona fisica di uomo (o di donna); e, inoltre, per non lasciarsi trasportare dall’istinto di formare quei ragazzi secondo i suoi desideri e i suoi schemi intellettuali, ma rispettando la loro intima libertà, e, più ancora, rispettando il fatto che essi non sono ancora capaci d’esercitare pienamente il loro senso critico.
Ma che succede se, per esempio, un giovane insegnante di filosofia, che sia anche prete, entra nelle aule di un seminario ed esercita un fascino potente su quei giovani, lanciandosi in ragionamenti eterodossi, o comunque estremamente soggettivi e discutibili, senza tener conto dell’autorità della Tradizione, anzi, inseguendo le ultime tendenze della "modernità", incurante di creare disagio e turbamento in alcuni di essi, e appagandosi dell’ammirazione che suscita nella maggioranza? E che succede se tutto questo è avvenuto non ai nostri giorni, che sono — pur sempre — giorni di critica e d’ipercritica, su tutto e su tutti, ma nei primi decenni del XIX secolo, scuotendo dalle fondamenta tutto ciò che dei giovani sapevano, o credevano di sapere, sulla dottrina cristiana?
È il caso di don Angelo Berzi (nato a Chiuduno, in provincia di Bergamo, nel 1815 ed ivi deceduto nel 1884), un sacerdote che fu insegnante, fra gli altri, del beato Luigi Maria Palazzolo, e che esercitò una discreta influenza anche su altri personaggi, destinati a svolgere un ruolo non secondario nella cultura e nella spiritualità cattoliche, fra i quali la mistica suor Maria Crocifissa Di Rosa, monsignor Gastone Luigi de Ségur e il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli. Le sue teorie filosofiche e teologiche, influenzate dal pensiero di Antonio Rosmini, ebbero un certo seguito e sopravvissero, per qualche tempo, fra alcuni dei suoi discepoli e ammiratori, nonostante venissero esplicitamente condannate, a un certo punto, dal magistero ecclesiastico.
Fino al 1850 fu insegnante di filosofia a Brescia e a Bergamo; ma la sua opera «Teoria mistica della creazione fatta in Cristo, cavata dall’antica filosofia cristiana», fu posta all’Indice nel 1855, e a nulla valse un suo viaggio a Roma, direttamente presso il papa Pio IX, per ottenere una revoca del provvedimento o almeno un chiarimento circa la propria posizione. Anzi: persistendo il Berzi nelle sue dottrine d’ispirazione gnostica, ispirate anche ad Origene e a Clemente Alessandrino, e mescolandovi autentici spropositi teologici, come l’affermazione d’una presenza costante dello Spirito Santo nelle anime, e quella di Maria Vergine nell’Eucarestia, venne licenziato dal seminario di Brescia. Tentò poi, inutilmente, di creare un proprio istituto educativo a Padova (città dove aveva insegnato presso il Collegio dell’Immacolata); fu sospeso "a divinis", per alcuni mesi, nel 1856; gli venne proibito di predicare e d’insegnare; e infine un altro suo libro, «Vox clamantis in deserto», venne condannato dal Sant’Uffizio, nel 1883.
Ce n’è quanto basta per delineare la personalità e la vicenda d’un sacerdote inquieto, ambizioso, imprudente, convinto di essere l’annunciatore di un vasto disegno di rinnovamento della Chiesa, quasi un modernista "ante litteram", che non ebbe né il coraggio di rompere con l’istituzione di cui era membro, e cui aveva giurato fedeltà e obbedienza, né quello di rassegnarsi e riconoscere i propri errori, dato che fino all’ultimo, ridotto praticamente a vita privata, seguitò a scrivere e a diffondere le sue teorie, passate alla storia con il nome di "berzismo", strano miscuglio di spiritualismo gnostico e di liberalismo cattolico. In tali teorie, accanto a idee che si sarebbero rivelate profetiche, come la necessità, per la Chiesa, di sbarazzarsi del fardello del potere temporale, altre ve n’erano assai peregrine e, quel che è peggio, personalistiche e un po’ narcisiste, come l’affermazione che solo i suoi seguaci sarebbero usciti salvi da una grande persecuzione che la Provvidenza avrebbe mandato per mettere alla prova i fedeli ed il clero.
Ha scritto monsignor Piermauro Valoti nella sua biografia di Luigi Maria Palazzolo (Bergamo, 1827-ivi, 1886), fondatore della congregazione delle Suore delle Poverelle, beatificato da papa Giovanni XXIII nel 1963, «Beato Luigi Maria Palazzolo» (Bergamo, Società Editrice San Alessandro, 1963, 2 voll.; vol. 1, pp. 15-17):
«In quegli anni insegnava filosofia nel Seminario diocesano [di Bergamo; gli anni sono quelli a cavallo del 1848, cioè quelli delle rivoluzioni liberali e democratiche e della Prima guerra d’indipendenza] il professor don Angelo Berzi. Uomo di esemplare condotta e stimato assai, e lo aveva reso notissimo il suo ingegno fervido e brillante: ma le teorie giobertiane lo avevano colpito così che il suo insegnamento non andava esente da fumoserie non sempre rassicuranti.
Il metodo mistico-ontologico non era stato ancora colpito da precise condanne, e per questo vediamo il Berzi insegnare a Bergamo e a Brescia con quel crescente successo che accompagna sempre il sorgere delle "novità". I giovani erano ammaliati dalle sottili argomentazioni del filosofo: la sua eloquenza vestiva di forme smaglianti concetti aerei e infondati; difficilmente chi appena si apriva alla severa scuola del raziocinio, riusciva ad individuare le deficienze sostanziali di un sistema basato innanzitutto sulla immaginazione e si lasciava trascinare beatamente da tutta una fantasmagoria di argomenti seducenti alla apparenza, ma affatto privi di solidità.
Si può dire che a ogni generazione è riservata l’esperienza di questo fenomeno: la novità colpisce e paralizza; imprigiona il senso della critica e ne impedisce il libro e salutare esercizio. Anche noi, in questi nostri anni, abbiamo assistito a un analogo svolgersi di cose [qui l’autore, evidentemente, allude alla stagione del Concilio vaticano II e a certe dottrine diffuse, tra la fine degli anni ’50 e il principio degli anni ’60 del Novecento, da teologi cattolici di tendenza modernizzante]. Solamente la condanna esplicita che scende dall’alto della Cattedra di verità rompe l’incanto e disperde i variopinti fantasmi di una pseudo-scienza: richiama alla realtà: costringe a rifare il cammino nel senso giusto, e fa rinsavire.
Così allora: e attorno al maestro, difeso per soprappiù dall’indiscussa verità di una vita intemerata, crescevano entusiasti ed affascinati gli scolari.
Il Palazzolo stava a vedere. Si sforzava di camminare fianco a fianco dei colleghi, ma lo spirito di sincerità assoluta da cui era dominato, gli impediva di nascondere loro, e non solo a se stesso, che non poteva seguirli. Confessava umilmente la sua ignoranza; e senza dubbio nell’intimo suo dovette dolorare al pensiero che forse per la limitatezza del suo ingegno, gli venivano precluse le intime soddisfazioni della scienza. Eppure non riusciva a convincersi di essere fino a quel punto, tardo e chiuso. Se luce c’era, ne doveva essere illuminato: si sentiva di doverlo e di poterlo essere. Ma invano. Più acuiva la sua attenzione, più rilevava la distanza che lo separava dalle dottrine del maestro e dall’entusiasmo dei condiscepoli.
Un giorno, in un impeto di schiettezza, avvicina il suo amico Rossi [ossia l’amico d’infanzia Rinaldo Rossi, con lui entrato in seminario, che sarebbe divenuto prevosto di Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, ove tuttora gli è dedicata una via]: "Dimmi, in confidenza, sei anche tu persuaso di questa filosofia?"
– Ne sono imbalsamato! — si sentì rispondere.
Le parole dell’amico erano forti. Ma il Palazzolo non si dà vinto. Confessa la sua ignoranza, ma insieme la sua convinzione che tutte quelle teorie non fossero che vacue elucubrazioni e sogni fantasiosi. "Per quanto studi — aggiunge — non capisco un bel niente."
Né le arti seducenti del maestro, né l’impetuosa adesione e l’entusiastico plauso dei discepoli, riuscirono mai a trascinare il Palazzolo nell’orbita dei suggestionati.
Il suo buon senso avrebbe avuto più tardi, in seguito all’autorevole riprovazione delle teorie berziane, piena e clamorosa conferma.»
C’è un film francese del 1989, «Noce blanche», diretto dal regista Jean-Claude Brisseau, e interpretato dal bravo Bruno Crémer e da Vanessa Paradis, che racconta l’esito disastroso di un amore sbocciato tra un brillante professore di filosofia e una sua studentessa di liceo, psicologicamente fragile e trascurata dalla famiglia: in esso si mostra come sia facile, per un insegnante, anche bene intenzionato, specialmente se circondato dalla stima e dall’ammirazione, lasciarsi prendere la mano e finire per giocare una parte negativa nella formazione dei suoi alunni. È, in fondo, l’antica e sempre attuale storia di Abelardo ed Eloisa. Ma anche se gli alunni non sono di sesso diverso dal suo, l’influenza di un insegnante imprudente – e usiamo questa parola sia sul piano intellettuale, che su quello umano – può rivelarsi gravemente dannosa. Specialmente se egli dimentica, o sottovaluta, il fatto che le "novità", ai giovani, piacciono sempre; e che il suo compito non è quello di crearsi una facile popolarità, a spese del vero e del giusto, demolendo la tradizione…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI