
Negando la comunione dei Santi, Lutero prepara il totalitarismo economico-finanziario
13 Agosto 2018
Il ’68 italiano è stato un ’68 cattolico
13 Agosto 2018La via San Rocco è una di quelle vie strane, che paiono nate da un capriccio urbanistico di chi sa chi e chi sa quando, anche se i suoi abitanti, probabilmente, si offenderebbero moltissimo a udire una simile idea; sta di fatto che non sembra esserci una ragione precisa perché esista e perché sia fatta in quella maniera. È spropositatamente lunga, piuttosto stretta e quasi tutta rettilinea, come una freccia che corre attraverso una zona popolata di case basse, villette e piccoli condomini, tutti ben distanziati fra di loro, e fiancheggiata da alberi e giardini, con pochissime botteghe e locali pubblici. Insomma, un luogo tranquillo e di tutto riposo, con uno scarso volume di traffico automobilistico, cosa che rende assai piacevole camminare lungo i marciapiedi deserti, all’ombra degli alberi e delle siepi, sfiorando i vecchi muretti di pietra. Ma perché esiste? È una parallela di viale Venezia: la s’imbocca dopo aver lasciato il piazzale XXVI Luglio prendendo la prima a sinistra, e fin dall’inizio ha un’aria dimessa, la si nota appena, quasi bisogna farci attenzione per non lasciarla scappare via e proseguire lungo il largo viale trafficato, verso la frazione di Santa Caterina. Poi, una volta entrati, e dopo una brusca svolta accanto a dei condomini moderni, alti e massicci, tutto cambia, e la via assume quell’andamento tranquillo, per non dire pigro, che la caratterizza sino alla fine, due o tre chilometri più avanti, quando termina nei pressi degli svincoli autostradali, quasi all’altezza di Santa Caterina. La si può anche prendere, se si viene da Campoformido e si va verso il centro, girando a destra, dopo una gelateria, dopo aver imboccato una via secondaria, via Ternova: poco più avanti si trova la via san Rocco che è arrivata fin qua, come un lunghissimo serpente. Nel tratto iniziale, venendo dal centro, a un cero punto si vede una chiesa non grande, bianca e dall’aria antica, appollaiata sulla sinistra: San Roco. Naturalmente qui un tempo era quasi campagna; poi sono sorte, un poco alla volta, tutte queste abitazioni, per cui la popolazione è cresciuta e il vecchio edificio sacro è divenuto insufficiente a contenere tutti i parrocchiani; e così hanno costruito, pochi metri più in là, la chiesa nuova, il classico orrore post-conciliare, uno sgorbio senza forma e soprattutto senza ombra di spiritualità, un coso grande e brutto che potrebbe esser benissimo una palestra, o un centro congressi, o chi sa cosa, ma che non fa venire affatto in mente una chiesa. Non occupiamoci di lui e fermiamoci a considerare la vecchia parrocchiale che, invece, presenta un certo interesse, se non altro per la sua vetustà: non capita a tutti gli angoli d’imbattesi in una chiesa antica di cinque secoli — che vuol dire mezzo millennio: si era in pieno Rinascimento, allora! -, figuriamoci in un viale interno di periferia, dove uno non se l’aspetta proprio.
La chiesa è stata costruita nel 1510, quindi ha perfino più di cinquecento anni. Ad aula rettangolare, è orientata nel senso tradizionale, l’abside a Est e la facciata ad Ovest, e sorge un poco rialzata rispetto al piano stradale, sicché a tutta prima appare un po’ più grande di quel che realmente è. La facciata è piuttosto semplice, a capanna, con un portale sormontato da un architrave in pietra e una lunetta ogivale affrescata, due finestre laterali di forma rettangolare, cornice dentellata in cotto lungo il sottogronda; il grazioso e ben proporzionato campanile è addossato all’angolo posteriore sinistro. L’interno, con lo spazio scandito in due metà con volta a crociera, è ancor più tradizionale, col presbiterio leggermente rialzato e separato dal corpo centrale da una balaustra con il cancelletto, le finestre ogivali, il soffitto con le costolonature molto pronunciate e dipinte, e con il pavimento di piastrelle in cotto. Tutto l’insieme trasmette un senso di raccoglimento, di pace e di preghiera, con la mistica luce delicatamente diffusa che smaterializza gli oggetti e conferisce all’ambiente un gradevole senso di silenzio e isolamento, dove l’anima può trovare le condizioni adatte per parlare con Dio. Qual vento malefico ha suggerito al parroco e al consiglio pastorale di costruire, quasi addossato, un edifico moderno in così stridente contrasto e così totalmente sprovvisto del senso della trascendenza, e che, pur avendo tutto lo spazio necessario a disposizione, non rispetta, quasi a farlo apposta, l’orientamento tradizionale, ma volge il portone trasversalmente rispetto alla vecchia chiesa? Evidentemente, il vento funesto del cosiddetto rinnovamento conciliare. È come se quell’architetto avesse voluto rimarcare le differenze; come se avesse voluto dire: so bene che avrei dovuto progettare il nuovo edificio parallelo all’antico, ma invece ho voluto fare altrimenti, per distinguerlo e per sottolineare il cambiamento: questa non è più la vecchia Chiesa cattolica, pietrificata e tradizionalista, dovete mettervelo bene in testa, è la nuova Chiesa, quella del Concilio, dell’apertura, del dialogo con il mondo moderno, e dell’ecumenismo!
Ecco, in questo spirito, in questa mentalità ci sono tutta la superbia, l’arbitrio e l’arroganza dei novatores. Come tutti i progressisti, quei signori si sono sentiti talmente investiti del ruolo di riformatori — tutti, magari inconsciamente, dei piccoli Lutero, o Melantone, o Calvino — da voler decidere per l’intera chiesa, anche per gli altri; anche per quelli che non avevano capito ovviamente per quelli, horribile dictu, che avevano capito ma non erano d’accordo. Ma chi se ne importa? Loro, i progressisti, non avevano alcuna intenzione di dialogare o di convincere: il dialogo va bene con i non cattolici e con i non cristiani; la persuasione va bene con gli atei militanti, i radicali, i massoni: e se non sono stati loro a persuaderli, in compenso si sono lasciati persuadere, basta vedere con quanta ostentata simpatia il signor Bergoglio s’intrattiene con Eugenio Scalfari, con quanta ammirazione parla della signora Bonino, e con quale commossa ammirazione monsignor Paglia tesse l’elogio di Marco Pannella, manca soltanto che proponga di avviare il processo per la sua beatificazione. Altrettanta stima e simpatia per don Lorenzo Milani, il prete ribelle al suo vescovo, che si compiaceva di offendere i cappellani militari in ciò che avevano di più caro dopo la fedeltà alla Chiesa, cioè la fedeltà alla Patria, che avevano servito in guerra; quel don Milani che scrisse, coi suoi ragazzi di Barbiana, la Lettera a una professoressa, uno dei libri di culto della contestazione studentesca del ’68 e dintorni. Ma cosa c’entrano Scalfari, Bonino, Pannella e don Milani con la verità soprannaturale, di cui la Chiesa cattolica è depositaria e custode per mandato di Gesù Cristo? Ai posteri l’ardua sentenza; noi, pur facendo le debite distinzioni fra un Pannella e un don Milani, non possiamo non notare quel che avevano in comune, e che superava, forse, quel che li divideva: lo spirito di sedizione, di rivolta, di disobbedienza e di risentimento; la superbia intellettuale, il credersi migliori degli altri, la convinzione di avere, essi soli, la verità in tasca. Ed ecco le orribili chiese moderne, come appunto questa di san Rocco a Udine; eco la liturgia farlocca, la musica sacra che non è per niente sacra, i canti di chiesa che paiono chitarrate rock o pop, i fedeli che si accostano all’altare in bermuda e pianelle, o con il ventre scoperto perché, si sa, d’estate fa un gran caldo, e poi che male c’è?; ecco la Comunione in mano, che si mette in bocca come fosse una caramella o un biscotto; ecco i divorziati risposati, che tutti, in parrocchia, conoscono come tali, accostarsi anch’essi all’altare, prendere in mano il Corpo del Signore, ficcarselo in bocca: siamo nell’epoca dei diritti e della democrazia, e poi chi siamo noi per giudicare? Anche la Comunione è un diritto, e se qualcuno per caso ne dubita, c’è subito una bimbetta pronta a insorgere, con le lacrime agli occhi: Ma che male ha fatto il mio papà, che male ha fatto la mia mamma, che non possono fare la Comunione anche loro insieme a me? Impossibile resistere a quelle lacrime e a quella logica così stringente: se l’intenzione è buona, come si fa a dire di no, a negare il Sacramento a quelle persone? Lo dice anche Amoris laetitia: se non ce la fai a rispettare la legge del Signore, ebbene pazienza, il Signore ti capirà e ti accoglierà lo stesso, lui non è fiscale né bigotto, è di larghe vedute, lui; anzi, forse non si aspetta niente di diverso da quel che stai facendo: che te ne stai lontano da tua moglie o tuo marito, e vivi con un una nuova compagna o con un nuovo compagno. Infine, che male c’è? Purché ci sia l’amore, c’è tutto, come dice sempre quel grande e profondo pensatore di cui ora ci sfugge casualmente il nome. In definitiva, ce lo assicura il signore argentino, quello che conta è affidarsi alla coscienza personale: basta ascoltare quello che dice il cuore, e tutto è a posto. Non c ‘è bisogno che quella coscienza sia retta e ben formata, e, soprattutto, non c’è bisogno che quell’anima sia in grazia di Dio. Queste sono fisime di prima del Concilio, un po’ come la regola di non mangiare e di non bere prima di far la santa Comunione. Per essere in grazia di Dio, ci sarebbe la confessione: ma che brutta parola; meglio parlare di riconciliazione; e poi, si sa che molti preti, per guadagnare tempo, praticano la confessione collettiva, danno l’assoluzione a tutti e buonanotte suonatori, si è pronti per ricevere il Signore.
Allo stesso modo, e sempre per motivi di tempo, quasi tutti i preti hanno smesso di andare per le case a benedirle, insieme alle famiglie; ma del resto, diciamo la verità, non era una forma di clericalismo? Non è una pretesa arrogante, quella di bussare a tutte le porte, e costringere i non credenti, che certo sono la maggioranza, a schermirsi, a giustificarsi, a inventare qualche scusa per chiudere la porta ma senza essere scortesi? Moto meglio così, allora:; niente benedizione delle case. Che è questa storia delle benedizioni? Un altro retaggio del Medioevo, come il culto dei Santi e della Madonna, coma la recita del Rosario. Non per niente un sacerdote di queste parti, padre David Maria Turoldo, servita, una volta ha spezzato in pubblico la corona del Rosario: voleva far capire che è tempo di rinnovarsi, di lasciar cadere le vecchie abitudini, di non essere più dei cristiani superstiziosi, ma che bisogna diventare dei cristiani adulti, maturi e consapevoli. Certo, Turoldo era favorevole sia al divorzio, sia all’aborto, perciò si sarebbe trovato benissimo in una casa di anticlericali e di liberi pensatori. E adesso, si sa, le famiglie non sono più quelle di una volta; quasi dappertutto ci sono coppie divorziate e separate, passate a nuove convivenze; e non mancano neppure le famiglie cosiddette arcobaleno, formata da due genitori dello stesso sesso, e magari da un paio di bambini ottenuti chi sa come, certo non secondo le leggio di natura, ma chi siamo noi per giudicare? E i preti che si dichiarano apertamente di sinistra e nemici del cattolicesimo bigotto – e che ne sono tanti, tantissimi, e lo proclamano anche nel bel mezzo della Messa, al momento della predica, invece d’illustrare la Parola di Dio – potrebbero dialogare benissimo anche con quelle. Ma ci vorrebbe tempo, e il tempo è così poco; perciò, niente benedizioni.
San Rocco era un pellegrino provenzale, nato a Montpellier verso il 1350 e morto a Voghera, presso Pavia, subito dopo ferragosto del 1376 (o, secondo altri, del 1379). Taumaturgo, protettore contro la peste, i terremoti, le catastrofi naturali, raffigurato sempre con il cane al fianco e la pagnotta fra i denti, viene esaltato come un modello di solidarietà e di carità, qualche volta anche come un precursore o ispiratore del volontariato; è diventato insomma un santo popolarissimo, specialmente di questi tempi, quando la neochiesa non sa parlare d’altro che, appunto, di solidarietà, accoglienza, carità e volontariato. Un altro paio di maniche, ovviamente, è vedere se lui sarebbe stato d’accordo di come il neoclero interpreta e stravolge il significato cristiano di queste parole, e se avrebbe riconosciuto come suoi compagni ideali quei preti e quei vescovi che amano definirsi di strada, anche se poi non si lasciano scappare l’occasione di essere invitati ne salotti televisivi radica-chic e di farsi beli davanti alle telecamere, sempre però parlando, ci mancherebbe, d’inclusione, di accoglienza e integrazione, e del dovere cristiano di non escludere, di non emarginare, di non condannare mai nessuno. Chissà cosa ne penserebbe, o meglio, chissà cosa ne pensa — dato che i Santi ci seguono anche dall’aldilà — e se sarebbe d’accordo o no. Ma dobbiamo tenerci la curiosità: lungi da noi imprestare i nostri pensieri a chi non può parlar da sé, e arruolare chi non può rifiutarsi d’essere arruolato, perché fisicamente assente. Lasciamo volentieri questi metodi ai neosacerdoti come Sosa Abascal, il quale dice che nessuno sa quali furono realmente le parole di Gesù Cristo, ma che da parte sua, a buon conto, non crede che Gesù abbia mai proclamato qualcosa di simile al principio della indissolubilità del matrimonio. I neopreti e i neoteologi non si fanno scrupolo di dire quel che Gesù avrebbe detto "veramente", un po’ come ha fatto Dan Brown nel suo romanzo, perché loro sanno, loro sono pervenuti a un cristianesimo assai più maturo ed avanzato del nostro, e hanno penetrato con maggiore acume il mistero della Rivelazione. Monsignor Nunzio Galantino, per esempio, un altro campione tipico della neochiesa, sa che Dio non distrusse, ma risparmiò Sodoma, e cita questo esempio di benevolenza divina come il paradigma della Misericordia, secondo la lezione di Walter Kasper, oggi imperante. Veramente nella Bibbia non c’è scritto così; c’è scritto, al contrario, che Sodoma e le altre città dei peccatori contro natura vennero distrutte con il fuoco, perché Dio era sdegnato contro la depravazione dei loro abitanti; e c’è scritto perfino che la moglie di Lot, voltatasi indietro a guardare, venne trasformata in una statua di sale. Ma che importa! Questi sono dettagli; l’importante è il significato complessivo: Dio perdona sempre, perdona tutto, e più grosso è il peccato, e più perdona. È tutto gratis, non occorre neanche pentirsi, tanto meno confessarsi. Questo vi ricorda qualcuno? Sì, ricorda moltissimo il pecca fortiter, sed crede fortius di Martin Lutero. Che sia una semplice coincidenza? Forse. Voi ci credete, onestamente? Noi, no…