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Omaggio alle chiese natie: San Valentino

Il borgo di Pracchiuso (Borc de Praclûs) è tuttora uno dei più caratteristici e dei meglio conservato fra gli antichi borghi della nostra città: vi si respira sin dall’inizio, cioè sin dalla breve salita oltre il Largo delle Grazie, e poi procedendo lungo l’alta muraglia di una caserma, al di sopra della quale svettano le cime di un autentico boschetto di platani e abeti, una atmosfera tutta particolare, tranquilla, "provinciale", ma, nello stesso tempo, viva e operosa. Si intuisce, dalla tipologia delle costruzioni oggi esistenti, che il borgo, in passato, era sede di numerosi conventi, monasteri e confraternite religiose, fra le quali quella di San Valentino, fondata nel lontano 1513. La presenza, decisamente sgraziata, di alcuni condomini moderni è tuttavia sporadica e non riesce a turbare l’armonia dell’insieme, la si tollera come il fastidio delle zanzare in una bella sera d’estate, quando non sono troppo numerose. Le case tradizionali di due o tre piani, talvolta dipinte a colori vivaci, con le imposte di legno, le vetrine di negozietti, di trattorie — come lo storico ristorante Al trombone -, tutto l’insieme delle facciate delle case di tipo popolare, ma ben tenute, gli conferisce una certa animazione che ricorda la vita d’altri tempi, quando le famiglie erano ben più numerose, ogni singolo appartamento, con i suoi vasi di fiori alle finestre, era abitato e ben curato, e ogni spazio era sfruttato e valorizzato; il piccolo commercio prosperava e il baricentro economico della popolazione cittadina non si era spostato verso i supermercati della periferia, che ancora non esistevano o che stavano appena incominciando a fare la loro comparsa. Giunti all’altezza dell’incrocio con via Tomadini, la strada si allarga e quasi raddoppia (e purtroppo il comune ne ha profittato per creare nuove aree di parcheggio) e il passo del viandante rallenta, c’è più calma per ammirare le vecchie abitazioni e i particolari delle facciate, i capitelli votivi, per esempio la piccola edicola dedicata a San Vincenzo de’ Paoli, proprio sull’angolo di via Tomadini; indi la via, giunti un poco oltre la metà della sua lunghezza, s’incurva e si restringe di nuovo, e se il viandante va di fretta o è distratto – molto distratto, in verità — quasi non si accorge della piccola, elegantissima chiesa incorporata in quello che era l’ospedale militare, in aderenza agli edifici vicini, il portone sempre chiuso, ed il cui campanile a fatica s’intravede, ma solo più avanti, alzarsi di poco sopra la selva dei tetti. Il timpano triangolare spezzato, sopra il portone sormontato da un busto; le due lesene in pietra grigia che spiccano gradevolmente sulla bianca superficie della facciata, conferendole animazione; i due alti finestroni protetti da fitte grate in ferro battuto e infine, sotto la trabeazione sporgente del tetto, la dedica a san Valentino martire, sormontata da un balcone che ripete, ingrandito, il motivo del timpano spezzato, con due eleganti volute laterali, danno all’insieme un aspetto pacato e armonioso, pur senza eccessive pretese. Le guide turistiche, infatti, non invitano a una sosta prolungata: liquidano questo edificio sacro in poche righe un po’ sprezzanti, nelle quali s’informa il curioso che l’interno non contiene alcuna opera pregevole. Ad ogni modo, restaurata e ristrutturata nel 2005-06, dopo alcuni anni di relativo degrado dei locali interni, oggi questa chiesa di borgata, costruita nel 1524 sul sito di un precedente edificio del 1300, ha ritrovato il primitivo splendore e torna a godersi come sempre, fin dal lontano 1689, il suo giorno di gloria e di meritata popolarità, ovviamente il 14 febbraio, festa degli innamorati, quando tutto il borgo si anima per la ricorrenza, la processione dei fedeli si snoda lungo la via e, nella chiesa, viene finalmente celebrata la Messa, mentre i fidanzati si scambiano le tradizionali chiavette contro la peste e l’epilessia.

Oggi si cerca di far rivivere le antiche tradizioni e di rianimare i vecchi borghi, i quali rischiano l’abbandono e il degrado, mano a mano che i loro abitanti si spostano verso i nuovi quartieri residenziali, in abitazioni più ampie e più comode, e le botteghe rionali chiudono una dopo l’altra per il rarefarsi dei clienti, il peso insostenibile delle tasse e la concorrenza spietata dei grandi centri commerciali. Ma non è facile e, soprattutto, si rischia di fare solamente del folklore, di rinverdire riti e cerimonie per un giorno all’anno, mentre la città, nel suo complesso, continua a muoversi in tutt’altra direzione, che poi è quella della modernità, e l’amore delle tradizioni si riduce a un omaggio sentimentale, da cartolina, invece di nascere da una condivisione di fondo dei valori e degli stili di vita che in quei riti e in quelle tradizioni trovavano la loro naturale e spontanea espressione. Questo è un problema reale e ci pone di fronte a un bivio, perché quasi nessuno, o forse nessuno, è disposto a rinunciare alle seduzioni del consumismo; e, di fatto, anche quelli che professano, a parole, rispetto, ammirazione e nostalgia per molti aspetti della società di due o tre generazioni fa, non si sognano nemmeno di ripensare o di mettere in discussione i fondamenti della civiltà moderna, e soprattutto le comodità – materiali, beninteso, e sempre alquanto relative – di cui essa è portatrice. Spostandoci dal versante della società civile a quello della Chiesa cattolica, poi, si osserva che i fedeli si trovano davanti allo stesso bivio e allo stesso dilemma, ed è un’alternativa secca, non suscettibile di mediazioni o compromessi, almeno, beninteso, per le perone serie, coerenti e rispettose di se stesse: o si fa il salto nella cultura moderna più avanzata, e si introiettano i suoi capisaldi ideologici, dal femminismo al migrazionismo, dal radicalismo all’omosessualismo; oppure ci si decide per Gesù Cristo in maniera radicale, si prova ad essere dei cattolici che prendono sul serio il Vangelo, e si assume un sistema di valori, e quindi uno stile di vita, conforme ad esso e, di contro, incompatibile con lo stile "moderno". Fino al principio degli anni ’60 del Novecento, la Chiesa ha provato a tenere la barra del timone nella seconda direzione, in continuità con quasi due millenni di storia; poi, con il Concilio Vaticano II, e più ancora con quanti lo hanno voluto proseguire, attuare, portare a compimento in questi cinquant’anni da che si è concluso, il clero ha bruscamente mutato rotta e puntato tutto sulla carta della modernizzazione. Operazione inaudita, ingiustificabile sul piano dottrinale e morale, e ipocritamente spacciata per semplice aggiornamento pastorale e liturgico: come se cambiare la pastorale e la liturgia non equivalesse di per sé ad attuare una rivoluzione nella sostanza stessa della vita cristiana. Questa, tuttavia, è una cosa che possono capire fino in fondo solo poche persone, soprattutto quelle che, avendo un’età dai sessant’anni in su, hanno la possibilità di fare un confronto tangibile e concreto fra la vecchia Messa tridentina e il Novus Ordo Missae, scaturito dalla riforma liturgica voluta ed attuata sotto la regia dell’arcivescovo massone Annibale Bugnini.

Il minimo che si possa dire dell’operazione di "riforma" voluta dal clero (massonico) a partire dal Concilio è che si è trattato di una strategia decisa da pochi e calata dall’alto, anche se si è dispiegata una notevolissima abilità nel persuadere i fedeli che nulla, in sostanza, sarebbe cambiato, ottenendo così l’appoggio e il sostegno di quel popolo cattolico che,di fatto era divenuto vittima di un inaudito tradimento, di uno snaturamento della prospettiva cristiana e uno stravolgimento del Vangelo quali mai si erano visti in passato, se non da parte di qualche frangia eretica, peraltro prontamente individuata e riconosciuta come tale, e perciò denunciata alla comunità dei fedeli come portatrice di idee e di valori assolutamente incompatibili con il Deposito della fede. Qui è accaduto il contrario: l’eresia è andata al potere, entrando tranquillamente dalla porta principale, senza forzare serrature e senza servirsi di finestre o d’ingressi secondari, col risultato che, se qualcuno si accorge di quanto è accaduto, o si autocensura, preferendo pensare di essere lui a sbagliarsi, e soffre in silenzio, oppure lancia l’allarme, ma non viene creduto e anzi viene preso per pazzo o additato come nemico della Chiesa e come agente provocatore al servizio di forze oscure. Quanto più una menzogna è grossa, diceva qualcuno che non è necessario citare per nome, tanto più è facile che la gente ci creda: perché gli esseri umani sono fatti così, possono stare in guardia e insospettirsi davanti alle piccole bugie, ma di fronte a quelle veramente colossali, purché siano ben orchestrate e portate avanti con impassibile faccia tosta, non arrivano neppure a sospettare che ci sia del marcio, non avvertono la puzza di bruciato, mandano giù tutto e dicono anche grazie a quelli stessi che li stanno deliberatamente ingannando e strumentalizzando. Nel caso di cui stiamo parlando, ossia la modernizzazione della Chiesa dopo il Concilio, vi è un elemento generale che favorisce, di per se stesso, la sporca manovra del clero massone, in combutta con il B’nai B’rith e altre forze, quelle sì, realmente oscure, satanismo compreso (il quale, non scordiamolo mai, in Vaticano è praticato, eccome, con tanto di sacrifici umani): la spinta generale, sempre più forte, dei meccanismi, materiali e psicologici, della civiltà moderna, i quali si trovano in perfetta sintonia cn un clero progressista e neomodernista, mentre hanno tutto da temere da un clero che si tenga saldo sulla base della Tradizione; e questo, in termini pratici, significa chela stampa, la televisione, la cultura dominante, intellettuali politicamente corretti e la grande maggioranza dei docenti universitari, più le case editrici e le maggiori istituzioni culturali pubbliche e private, sono pronte e ben disposte a fornire tutto il loro appoggio al clero progressista, mentre combattono con l’arma del silenzio i teologi, come monsignor Antonio Livi o padre Giovanni Cavalcoli, e naturalmente i vescovi e i sacerdoti che non si adeguano al nuovo corso ma che cercano di tener fermo alla Chiesa di sempre e al Magistero perenne. E poiché la società odierna è la civiltà dell’immagine e dei mezzi di comunicazione di massa, chi riesce ad assicurarsi il controllo di questi ultimi ha in pugno la situazione, mentre chi è tagliato fuori, è come se non esistesse. Da cinquant’anni, pertanto i cattolici leggono libri e giornali, ascoltano interviste televisive, assistono a Messe con le relative omelie, che rispecchiano il punto di vista dei modernizzatori, mentre non sanno nulla dei cosiddetti tradizionalisti o conservatori, che pii sono semplicemente i cattolici in quanto tali (perché sia chiaro che i modernisti non sono cattolici ma semplicemente eretici, come stabilito dall’enciclica Pascendi di san Pio X, centoundici anni fa.

Arrivati a questo punto delle nostre (malinconiche) riflessioni, la domanda è sempre la stessa: che fare? Come si può reagire; come si può cercar d’invertire la tendenza; come si far capire a così tante persone che sono state circuite e ingannate, che la loro buona fede è stata tradita, che i pastori non stanno pascolando le pecorelle del gregge di Gesù Cristo, ma le stanno volutamente disperdendo in tutte le direzioni, giacché il loro obiettivo finale, ovviamente non dichiarato, è la distruzione pura e semplice della Chiesa cattolica? È chiaro che non abbiamo ricette pronte o formule preconfezionate di alcun tipo, tanto più che ci troviamo in presenza di una situazione del tutto inedita, che non ha riscontro nelle vicende passate. I nostri avi non si erano mai trovati alle prese con un problema così grande e, nello stesso tempo, così spinoso dal punto di vista morale: perché si tratta, né più né meno, di prendere atto che gli uomini attualmente alla guida della Chiesa non sono cattolici, quindi non sono legittimi e non vanno seguiti, né ascoltati; che tradurre in pratica le loro indicazioni equivale a scivolare nell’eresia e nell’apostasia, e che, viceversa, opporsi ad esse equivale a restare nella vera fede ed essere i veri difensori della vera Chiesa. Tutto questo, oltre ad essere doloroso, è immensamente difficile: in pratica, si tratta di ribellarsi all’autorità in nome della vera autorità di Cristo; di opporsi alla menzogna in nome della Verità; di rischiare, per amore e fedeltà alla vera Chiesa, di essere scacciati, o come minimo emarginati, dalla falsa chiesa dei falsi pastori. Il diavolo, che sa sempre infiltrarsi nelle zone grigie, là dove non è chiara la distinzione fra la verità e l’errore, fra il bene e il male, non si lascia sfuggire l’occasione per sussurrare all’orecchio dei fedeli, già per loro conto tribolati e amareggiati dai comportamenti del neoclero, che forse, dopotutto, si stanno sbagliando; che stanno peccando d’indisciplina e di superbia; che sono loro ad allontanarsi dalla retta via e stanno attentando all’unità della Chiesa. E a poco giova ai fedeli ripetersi, come diceva monsignor Lefebvre, che non hanno nulla da rimproverarsi, poiché si limitano a voler conservare ciò che hanno ricevuto dalla Chiesa delle generazioni precedenti e dal Magistero di sempre. Tutto infatti, anche le certezze dottrinali, sta diventando precario, friabile, aleatorio. Se una cosa del Magistero non piace, si cambia: lo si è appena visto con l’intervento improvviso, attuato d’autorità, del signor Bergoglio sul punto del Catechismo riguardante la pena di morte. Ora, senza entrare, in questa sede nella sostanza del discorso, ciò che richiederebbe molto spazio, ci limitiamo a osservare che il Catechismo è l’ossatura della dottrina e la base del Magistero; e che il Magistero, per definizione, non può smentire se stesso. Questo, anzi, è il criterio fondamentale per capire se una proposizione è ortodossa o se è eretica: la fedeltà alla dottrina e la concordanza con il Magistero. Ebbene, cambiando il punto 2267 del Catechismo e dandone comunicazione sugli Acta Apstolicae Sedis, la gazzetta ufficiale vaticana, il signor Bergoglio si è assunto la responsabilità di modificare la dottrina e di correggere il Magistero, due cose entrambe impossibili. Si potrebbero fare cento altri esempi del genere, perché questo è lo stile del neoclero e, per rendersene conto, basterebbe rompere lo stato d’ipnosi in cui tanti fedeli sono caduti, e guardare le cose in maniera oggettiva. Ricordando sempre la massima di san Pietro, citata negli Atti: Si deve piacere a Dio piuttosto che agli uomini

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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