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4 Agosto 2018La Cappella Manin si trova accanto al palazzo Torriani e la si raggiunge percorrendo via Zanon e passando accanto alla Porta Torriani, chiamata anche Torre di Santa Maria, costruita nel 1295 e facente parte del sistema fortificato della quarta cerchia di mura medievali che sono in tutto cinque, quella che incluse nell’abitato i borghi di Poscolle e di Grazzano. La porta era dotata di un ponte levatoio e inizialmente si chiamava Porta Nuova; la sua costruzione fu voluta dal patriarca di Aquileia Raimondo della Torre. Dopo la caduta del governo patriarcale, nel 1420, molti nobili friulani lasciarono i loro scomodi e ormai quasi inutili castelli, sparsi nella campagna, e vennero a vivere in città, fenomeno che in altre parti d’Italia, per esempio in Toscana, si era verificato due o tre secoli prima: il Patriarcato del Friuli, infatti, era stato l’ultimo grande Stato feudale d’Italia e, pur promuovendo i commerci e incoraggiando a trasferirvisi, a tale scopo, parecchi mercanti e banchieri toscani e lombardi, dal punto di vista sociale la sua esistenza ritardò di alcuni secoli la tendenza generale delle classi nobiliari dell’Italia settentrionale a inurbarsi e a dar vita, mescolandosi, in parte, al popolo grasso, al nuovo ceto dei magnati. Il nobile Francesco Masieri fu uno di questi feudatari inurbati che decise di costruirsi un palazzo subito fuori della Torre di Santa Maria, sul luogo di una casa e di un podere che aveva acquistato dall’Ospedale Maggiore, e che fece abbattere per disporre di un palazzo confacente alla sua condizione. Fu così che sorse, alla fine del 1500, l’attuale Palazzo Torriani, che prese il nome dalla porta presso la quale sorgeva. I suoi discendenti non mostrarono un particolare attaccamento al palazzo, che, infatti nel 1630, venne veduto al nobile Lodovico Manin, il quale iniziò ad abbellirlo e ad ampliare la proprietà. Nel corso del ‘600 i nuovi proprietari acquistarono altri terreni, compreso quello su cui sorgeva una vecchia cappella dedicata alla Madonna, che venne abbattuta e ricostruita, nel 1733, a pianta esagonale, nelle forme che oggi possiamo ammirare, su progetto dell’architetto Domenico Rossi, e che è conosciuta da tutti gli abitanti della città semplicemente come la Cappella Manin.
Oltrepassata la Torre di Santa Maria, alla fine di via Zanon (che ricalca l’antico Borc di Sante Marie) e giunti all’altezza del largo del Pecile, si svolta sinistra e, percorsa la via dei Torriani, fiancheggiata da un tratto delle vecchie mura, si entra in una zona tranquilla, di abitazioni basse e distanziate, dall’aria signorile, fronteggiate da piccolo giardini, lasciandosi alle spalle la zona più trafficata del centro. Le strade sono piuttosto ampie, silenziose, pacifiche; ricordano vagamente l’ordine e la pulizia tipiche dei viali alberati di Gorizia; ed è lì che si offre una magnifico colpo d’occhio, col grande palazzo signorile dei Torriani, forte, maschio, dietro il quale s’intuisce un vasto giardino, e più avanti, sulla destra rispetto a chi guarda la facciata, la Cappella Manin. Quest’ultima è un vero gioiello dell’architettura barocca, senz’altro l’opera più significativa, nel suo genere, di tutto il Friuli; ma la vera meraviglia che essa rappresenta, la vera festa per gli occhi riservata al visitatore, risiede nel ciclo di opere realizzate dallo scultore veneto Giuseppe Torretti (o Torretto; nato a Pagnano d’Asolo il 29 agosto 1664 e morto a Venezia il 16 dicembre 1743), che ha legato il suo nome a tante opere, a Venezia e in vari altri luoghi, anche qui in città, e specialmente al bellissimo altare maggiore della cattedrale di Santa Maria Annunziata. Nella cappella Manin (che non deve essere confusa, ovviamente, con quella esistente nella Villa Manin di Passariano, presso Codroipo), spicca sopra l’altare, in marmo, una meravigliosa e dolcissima Madonna col Bambino; alle pareti, una serie di altorilievi con le storie della vita della Vergine: La Nascita di Maria, La Visitazione, La Presentazione di Gesù al Tempio e La presentazione di Maria Bambina al Tempio. La cappella, purtroppo, è quasi sempre chiusa, ma la porta in vetro permette di ammirare l’interno, anche se le sculture e i rilevi andrebbero ammirati da vicino, per poterli apprezzare in tutto il loro eccezionale splendore. È questo, sicuramente, uno degli edifici religiosi più cari al cuore degli udinesi: immaginare questa città senza di essa è praticamente impossibile; e ciò anche se si trova in un angolo relativamente appartato, privo di attrattive commerciali o turistiche e perfino di bar o locali pubblici, e perciò frequentato quasi solo dagli abitanti delle vie adiacenti; quindi, chi lo vuol vedere deve venirci apposta, altrimenti, pur abitando in centro, può succedere che uno non abbia mai occasione di passarci accanto, forse addirittura per degli anni. Quel che è certo è che la famiglia veneziana Manin, costruendo e tenendo in perfetto stato di conservaziobe, nell’arco di quasi tre secoli, questo autentico gioiello dell’architettura barocca, si è guadagnata la gratitudine imperitura della cittadinanza, e ha lasciato una memoria di sé tutt’altro che disprezzabile anche nei libri e nei manuali di storia dell’arte.
Bei tempi, quando le classi dirigenti univano il proprio utile con quello della popolazione: costruivano le loro cappelle gentilizie per il servizio religioso privato, con un sacerdote che officiava a livello familiare ed era spesso anche il direttore spirituale del capofamiglia, di sua moglie e dei figli; intanto, però, abbellivano il paesaggio e arricchivano il tessuto urbano, lasciando ai posteri qualcosa che, molto spesso, è divenuta di proprietà pubblica e quindi costituisce un lascito per l’intera società. Non è possibile fare nemmeno un lontano paragone con le classi dirigenti dei nostri giorni, le quali si tengono ben stretti i loro soldi, non li investono neppure in attività produttive ma, spesso, li trasferiscono nelle banche, meglio se estere, preferendo vivere di rendita finanziaria piuttosto che affrontare la competizione imprenditoriale, mettersi in gioco, rinnovarsi, concentrare tempo e risorse nella ricerca, rischiare e scommettere sul futuro, se non per la patria e i propri discendenti, almeno per se stesse. Anche qui c’è una evidentissima caduta di stile, un restringimento di orizzonti, un rimpicciolimento della mentalità: altro che progresso, quello a cui stiamo assistendo da almeno un secolo, col pieno avvento della modernità, è un regresso continuo, implacabile, avvilente, che ci sta riducendo all’ombra di ciò che eravamo, e sta rendendo irriconoscibili popoli e gruppi familiari i quali, sino ad un recente passato, si erano fatti stimare nel mondo per la loro iniziativa, il loro spirito d’intraprendenza, la loro tenacia, la loro creatività e, in qualche caso, la loro autentica genialità. Ora si vivacchia, si tira a campare, si aspetta che passi il treno vincente, credendosi furbi e risparmiando le forze, per poi saltarci sopra, magari di straforo: e magari lo si aspetta invano per tutta la vita, come nel romanzo Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. C’è un crescente appiattimento, favorito sia dalla politica, sia dal sistema giudiziario, sia dall’istruzione, ma il cui principale agente è la televisione, insieme al cinema e alla pressione quotidiana, capillare, martellante, della stampa e soprattutto dei social network. Certo non si va lontani, con una simile mentalità. È strano che le opere del passato, i gioielli come questa stupenda cappella barocca, non accendano l’animo a egregie cose, come direbbe il Foscolo; è strano che il paragone umiliante fra noi e i nostri maggiori non ci provochi un soprassalto di orgoglio, un desiderio di emulazione. Forse la nostra decadenza è davvero inarrestabile, ed è vano aspettarsi una ripresa, un ritorno di dignità, di ambizione, di fierezza; forse siamo maturi per il crollo finale, e altre stirpi, più giovani, sane e vigorose, verranno a sostituirci, ed erediteranno ciò che non noi, ma i nostri antenati hanno pazientemente costruito, senza risparmiarsi né badare a sacrifici.
E tuttavia, prima di arrenderci, abbiamo almeno il dovere d’interrogarci sulle cause della nostra involuzione, della nostra senescenza, dell’implosione della nostra società. Riuscire a comprendere le cause di un fenomeno, per esempio di una malattia, fisica o spirituale che sia, significa già trovarsi in una posizione tale da poterla contrastare, purché se ne abbia il desiderio, e soprattutto la volontà. Ora, le cause della nostra crisi attuale sono senza dubbio numerose e complesse, più di quanto si possa dire nel breve spazio di una riflessione; una fra tutte, però, a nostro avviso, emerge sulle altre e s’impone alla nostra attenzione: la perdita delle fede religiosa. Da quando la nostra società ha voltato le spalle a Dio, ha negato o disprezzato il sentimento religioso, il bisogno di trascendenza e la sana inquietudine spirituale (sana, perché spia del desiderio di un ordine superiore, di un appagamento che nessuna delle cose terrene potrà mai assicurare) qualcosa, nel nostro organismo collettivo, si è spezzato, partendo dalla famiglia a e arrivando, come cerchi nell’acqua, fino agli estremi limiti della nostra organizzazione sociale. Finché la società nel suo insieme, attraverso il bacino collettore della famiglia, è rimasta legata al sacro, alla Rivelazione cristiana, e ha improntato la propria esistenza alla dottrina morale ricevuta per mezzo del Vangelo, è riuscita ad assorbire e a metabolizzare anche le esperienze più amare e traumatiche, come le due guerre mondiali. D’altra parte, da almeno mezzo secolo, si assiste a un ulteriore, sconcertante fenomeno: proprio il clero cattolico, che era stato, bene o male, il perno di questa certezza, di questa sicurezza nei grandi valori che rendono la vita degna di essere vissuta, si è arreso, ha ceduto quasi di schianto e mostra un grado di disorientamento perfino superiore a quello della società civile; il tutto con la strana e curiosa pretesa di avere finalmente capito ciò che prima, per secoli, gli era sfuggito; di aver posto rimedio alla sua passata chiusura e di essersi posto finalmente in sintonia e in reciproca, fruttuosa relazione con quelli che non credono e coi seguaci delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni mondali, dai quali ritiene di avere moltissime cose da imparare e dai quali accetta ogni sorta di critiche o di rimproveri, anzi, aggiungendo sovente ulteriori critiche e rimproveri, che si fa da se stesso, quasi afferrato da una incontenibile spirale autolesionista. E dimostra, con questo mutato e inopinato atteggiamento, non solo di non aver più nulla da offrire alle anime assetate di assoluto, ma di essere divenuto di peso anche a se stesso, e di essersi perciò votato a non rivestire alcun ruolo nelle vicende che si preparano per i prossimi anni, e rispetto alle quali il clero cattolico sarà, probabilmente, una specie di peso morto, che si farà trascinare dalla corrente, senza una propria linea, senza una prospettiva, senza dei punti di riferimento saldi e certi, da seguire in prima persona e da additare anche agli altri.
Di questa incertezza, di questo sbandamento, di questa disponibilità ad abbracciare la causa del momento, secondo gli umori del pubblico, non più segnando la strada, ma facendosi portare a rimorchio dalla società, si potrebbero fare infiniti esempi, sempre più clamorosi e sconcertanti. Ne prendiamo due a caso, uno minimo e uno massino, trascelti dalla cronaca quotidiana. Nel foglietto distribuito ai fedeli nella chiesa della Madonna della Neve, domenica 23 aprile 2017, il Comitato per la canonizzazione del beato Marco d’Aviano ha presentato quest’ultimo come profeta disarmato della misericordia divina. Se questo vocabolario viene da chi crede nella validità, anzi, nella santità della figura e dell’opera del cappuccino friulano, figuriamoci gli altri. A parte la misericordia con la minuscola, dire che fu un profeta disarmato della misericordia divina è un concentrato di ambiguità e faslità. Non fu disarmato, perché, pur non combattendo, dedicò ogni sforzo a organizzare la difesa dell’Europa contro l’invasione turca e celebrò la Messa per i soldati subito prima della battaglia di Vienna del 1683: né, in quel momento, ci sarebbe voluto di meno per fermare l’irruzione ottomana, che avrebbe visto l’islamizzazione dell’Europa. Ma a quei signori l’idea che Marco d’Aviano fu anche un soldato di Cristo non piace, perciò lo vogliono trasformare in un profeta disarmato, adatto alla neochiesa bergogliana, che è solita invitare gli islamici alla santa Messa. E poi, di quale Dio stiamo parlando? Neanche un riferimento a Gesù Cristo: solo una misericordia divina che potrebbe essere quella dei buddisti, dei giudei, dei presbiteriani, di chiunque. Benissimo: basta con i muri, gettiamo solo poti. Però Marco D’Aviano non la pensava così, questa è una falsificazione bella e buona. Il suo Dio aveva un nome preciso, era quello insegnato dalla Chiesa cattolica (con buona pace del signor Bergoglio, il quale non crede a un Dio cattolico); e non un Dio per tutte le stagioni, ma un Dio esigente, che chiede la fedeltà e la testimonianza, se necessario fino al martirio. Il secondo esempio riguarda la recente decisione del suddetto Bergoglio di modificare formalmente il Catechismo della Chiesa cattolica, asserendo che la pena di morte è sempre e comunque contraria al Vangelo. Per duemila anni la Chiesa l’ha pensata in altro modo e ha sostenuto che in casi estremi, quando sia l’unica maniera di tutelare l’indifeso, la pena di morte può essere contemplata. Così, con un tratto di penna, egli ha "riformato" il punto 2267 del Catechismo, che ha riscritto in questi termini: La Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che la pena di morte è inammissibile, perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona. Prendiamo atto del piccolo dettaglia che un papa non può modificare la dottrina o la morale con un atto d’imperio, rovesciando il Magistero: il che fa di quel signore, automaticamente, un eretico, oltre che un tiranno, perché ha deciso tutto da solo. Bisognerà poi che dica due parole a monsignor Sorondo, il quale afferma che la Cina è il Paese che meglio incarna la dottrina sociale della Chiesa, visto che laggiù vi è il più alto numero di sentenze capitali. Infine ci rallegra tanto zelo per l’inviolabilità della persona, ma dov’era costui quando l’Irlanda varava la legge sull’aborto o quando i medici inglesi sopprimevano il piccolo Alfie Evans?