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1 Agosto 2018La chiesa della Beata Vergine del Carmine è una delle più notevoli e nello stesso tempo delle più elusive della città. È sede di una parrocchia molto popolosa e sorge in un borgo che, nel Trecento, all’epoca della massima espansione urbana, era periferica, vicinissima a una porta della quinta cerchia di mura, tuttora esistente e intatta, la Porta Aquileia; però, successivamente, ha finito per trovarsi in una zona quasi centrale, oltretutto relativamente vicina alla stazione ferroviaria che la collega con Venezia, con Trieste e con Tarvisio e Vienna. I feroci bombardamenti aerei alleati del 1944 l’hanno lasciata indenne per miracolo, mentre il convento e l’intero borgo sul lato dell’abside, sono stati rasi al suolo, e sulle rovine è poi stata costruita una via con delle abitazioni nuove di zecca, viale Leopardi. A tutt’oggi vi si può accedere da due lati: dal lato di viale Leopardi, che presenta un ingesso moderno, e da quello di via Aquileia, dove si torva la facciata con l’ingresso principale. Eppure, entrambi gli accessi sono così modesti che quasi sfuggono all’occhio del turista frettoloso. Quello su viale Leopardi, che passa attraverso un cortile interno, è quasi nascosto; quello su via Aquileia è così modesto, per giunta lievemente rientrante rispetto agli edifici vicini, essendo preceduto da un piccolo sagrato separato dalla strada da una cancellata di ferro, che difficilmente si crederebbe trattarsi di una delle chiese cittadine più importanti, e si è tentati di tirare dritto verso il centro. O si è letta prima una guida turistica e artistica della città, oppure si è avuta l’informazione da qualcuno; altrimenti il visitatore non immagina che valga la pena di fare una sosta e di entrare. Se viaggia sull’autobus della linea 1, che attraversa tutta la città da un capo all’altro, dalla stazione ferroviaria all’ospedale civile, situato alcuni chilometri più a nord, in località Chiavris, forse, ammirando le facciate delle case sul lato opposto della via, non farà neanche in tempo ad accorgersi di quei pochi metri di superficie sui quali si affaccia, o meglio si tiene seminascosta, la settecentesca facciata di quella chiesa dall’aspetto modesto, apparentemente una come ce ne sono tante, di poca o nessuna importanza. Bisogna invece fermarsi ed entrare, per rendersi conto di quel che si sarebbe perso andando avanti lungo la via Aquileia, senza aver dedicato almeno qualche minuto per visitare questo splendido edificio che ha la grazia impareggiabile di una fanciulla pudica, che, alle feste, si tiene un po’ in disparte, perché non vuol mettersi in mostra, ma preferisce che la scoprano poche persone di valore, piuttosto che una quantità d’individui banali.
Innanzitutto bisogna sapere che l’antica parrocchia di borgo Aquileia non era questa, ma la chiesa di San Pietro e Paolo, oggi scomparsa, che sorgeva all’altezza della odierna Piazzetta del Pozzo, e che venne distrutta nel tragico bombardamento aereo del 3 agosto 1944 (replicato, con pari ferocia, il 20 gennaio 1945) quando però era già sconsacrata e in stato d’abbandono. L’attuale chiesa del Carmine venne costruita dai frati carmelitani scalzi al principio del 1500, i quali già avevano un convento e una chiesa in periferia, nell’odierna via Lumignacco, e che portarono con sé la venerata immagine della Beata Vergine del Carmine. Nel 1770 il loro posto venne preso dai frati minori conventuali, a loro volta costretti a lasciare il loro convento in centro, perché era stato trasformato in ospedale. Anche i francescani dovettero andarsene all’inizio dell’800 a causa delle soppressioni napoleoniche, e la chiesa, più grande di quella di San Pietro e Paolo, divenne la nuova parrocchiale, situazione ufficializzata definitivamente dall’arcivescovo solo un secolo dopo, nel 1908. I francescani avevano traslato nel sacro edificio la reliquia più importante e più significativa per la storia dell’arte: l’arca del loro confratello, il Beato Odorico da Pordenone, che, vissuto negli stessi anni di Dante Alighieri (1286-1331), viaggiò e predicò il Vangelo nei Paesi più lontani dell’Asia, fino in Cina, in Mongolia e nelle Filippine, e lasciò scritto un celebre Itinerario di viaggio, che gli meritò il titolo di apostolo dei cinesi. Oltre al soffitto affrescato e allo splendido altar maggiore barocco, si nota, nella cappella a sinistra la bellissima e suggestiva arca marmorea del Trecento (ma ricostruita nel 1930), opera del veneziano Filippo de Sanctis, con rilievi sui lati e sculture ai quattro angoli.
Entrare in questa chiesa e sostare davanti all’arca di questo grandissimo missionario significa anche riflettere sulla deriva apostatica della neochiesa; sulla definizione dell’apostolato, da parte del signor Bergoglio, come una solenne sciocchezza; sulla derisione del concetto di evangelizzazione come cuore del Vangelo e ragion d’essere della Chiesa. Abbiamo letto, a suo tempo, un articolo che riportava le celebrazioni della neochiesa per commemorare, nel suo Friuli, a quasi sette secoli di distanza, il Beato Odorico (cfr. Il Messaggero del 15/01/2013), nel corso delle quali il grande missionario veniva definito credibile e moderno, espressioni tipiche di chi vorrebbe far sparire la specificità e la scomodità del Vangelo, e soprattutto lo scandalo della croce e del martirio. Peggio: un parroco diceva, nel corso di quelle celebrazioni, che l’opera di Odorico è un esempio concreto (…) di un cristiano che esce dalle quattro mura della chiesa e va verso gli altri per annunciare, confrontarsi e mettersi in cammino con persone di altre religioni, etnie, tradizioni e lingue. Sono l’accettazione e l’ascolto dell’altro che rendono il beato Odorico così credibile e moderno, più attuale che mai. Il suo è un esempio che esce allo scoperto e si manifesta a tutti, è un cristianesimo che incontra, comunica, propone. È aperto a tutti e non rifiuta nessuno.Ma che bel quadretto, davvero commovente: peccato che in esso non ci sia nulla, ma proprio nulla di cattolico. Complimenti al parroco del Carmine, che ha pronunciato queste parole. Uscire dalle quattro mura della Chiesa (con la maiuscola, per favore): che vuol dire? La Chiesa non ha mura: è fatta per annunciare. Le chiese, cioè gli edifici, quelli sì hanno le mura; ed è logico che annunciare il Vangelo significa anche uscire per andare all’esterno. Annunciare, confrontarsi, mettersi in cammino con persone di altre regioni: che vuol dire? è un linguaggio insipido, insulso, volutamente ambiguo. Se si annuncia il Vangelo, non ci si confronta: lo si annuncia e basta. E non si cammina insieme, ma si mostra la strada: non perché ci si crede migliori come persone, ma perché la strada che si vuol mostrare è la strada di Colui che dice di Sé: io sono la via, la verità e la vita. Se, invece camminare insieme vuol dire che ciascuno si tiene le sue credenze e la sua fede, dov’è il cristianesimo? Dov’è l’annuncio? Gesù non ha detto ai suoi Apostoli: Andate per tutto il mondo, confrontatevi e camminate insieme ai seguaci delle altre fedi. Ha detto invece: Andate, battezzate e predicate il Vangelo; e chi crederà sarà salvo, ma chi non crederà sarà dannato. Molto chiaro, c’è poco da girarci attorno. Questo linguaggio, però, non piace ai neopreti e ai neovescovi: lo trovano troppo duro; invocano qualche errore di trasmissione, dicono che in Palestina, duemila anni fa, non cerano i registratori. Insomma, vallo a sapere cosa disse veramente Gesù: di sicuro, però (secondo loro) non parlò in quel mondo. Ebbene, se la pensano così, siano onesti una buona volta: vadano fuori dalla Chiesa e si facciano la loro religione. Si mettano a predicare un’atra confessione cristiana, come i protestanti; ce ne sono già tante, una in più o fa poca differenza. Oppure si facciano luterani, o calvinisti, o quello che vogliono, Si facciano giudei, e si facciano circoncidere: anche questo andrebbe bene, visto che, secondo loro, i nostri "fratelli maggiori" (ma più loro che nostri, a dire il vero) sono già nella verità e nella salvezza, non hanno necessità di convertirsi, perché l’Antica Alleanza è sempre valida. E allora chissà cosa è venuta a fare Gesùà Cristo: si vede che non sapeva come passare il tempo; Dio ci pedoni, ma a questo punto non c’è altra spiegazione.
E tornano più che mai di attualità le parole di un grande sacerdote, don Divo Barsotti, il quale, pur essendosi entusiasmato, al principio, per le novità del Concilio, ne vide tutti i limiti e i pericoli e li annotò puntualmente sul suo diario, con parole che, rilette oggi, acquistano realmente un sapore profetico (citazioni tratte da un articolo apparso sul sito Cooperatores Veritatis del 30/07/18):
Sono perplesso nei riguardi del Concilio medesimo: la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. (…) Non sono stati impediti gli equivoci, l’ambiguità e soprattutto non è stata impedita la presunzione, non l’ambizione e il risentimento, non la superficialità e la volontà di un rinnovamento che voleva essere uno scardinamento, uno sradicamento della tradizione dogmatica, una diminuzione della tradizione spirituale. (…) L’ambiguità [a proposito della "Gaudium et Spes"] si manifesta evidente, ed è estremamente grave, nel fatto che il rapporto Chiesa-Mondo non si risolve nel martirio. La Croce non è al centro della teologia del Concilio, non è la soluzione e il compimento della missione della Chiesa. [Pertanto il Vaticano II] è ben povera cosa nei confronti dei concili che l’hanno preceduto. Il numero stesso dei documenti più che dire la sua grandezza, dice la presunzione dei vescovi, dice la povertà del suo insegnamento. (…) La difesa ad oltranza del Concilio dice la cattiva coscienza di chi lo difende… Se è opera di Dio, non ha bisogno di essere difeso. (…) Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò loro quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo. (…) Tutto il resto è retorica. Soltanto la santità salva la Chiesa. E i Santi, dove sono? Nessuno sembra crederci più. (…) La novità di una teologia che rinnega la teologia del passato, non è più una novità cristiana. (…) Tutti gli insegnamento del Concilio, tutta l’azione della Chiesa, tutto è sospeso nel vuoto, se la Chiesa non ha più il coraggio di rendere testimonianza della divinità del Cristo.
Grandezza incomparabile di don Divo Barsotti, che fa apparire ancor più evidente la statura da nani, da lillipuziani, dei vari Rahner, Küng, Schillebeeckx; grandezza nella modestia, nell’umiltà, nel nascondimento. È una vera tragedia che, nel Concilio, siano risuonate così alte e forti le voci dei teologi eretici, vanitosi e pieni di umane passioni, di risentimento contro la Tradizione, di smania di primeggiare, di narcisismo e di vanità intellettuale, di superbia malamente camuffata da "spirito dei tempi nuovi", mentre non si è fatta sentire la voce di quelli che, come don Barsotti, videro e capirono quel che stava accadendo, e tuttavia tennero per sé il proprio turbamento, il proprio sconcerto, per non aprire una ferita nel corpo vivo della Chiesa, per non turbar ulteriormente le anime. Purtroppo è sempre così: nelle rivoluzioni trionfano i peggiori, i più superficiali, i più demagoghi, i più iconoclasti; non c’è spazio per la riflessione, per la saggezza, per il buon senso; e il Concilio è stato, purtroppo, una rivoluzione e, contemporaneamente, un colpo di mano di un gruppo di vescovi massoni e modernisti sostenuti dai loro amici giudei e luterani, i quali, cosa veramente inaudita, e della quale, un giorno, gli storici domanderanno conto a Giovanni XXIII e a Paolo VI, ebbero voce in capitolo, e, praticamente, decisero cosa piaceva loro e cosa non ci doveva essere nei documenti che le commissioni preparatorie andavano redigendo sui diversi argomenti da trattare. Per cui non è affatto esagerato affermare che il Concilio fu, almeno in parte, l’opera di forze estranee alla Chiesa, di confessioni e religioni storicamente nemiche della Chiesa (anche se la parola nemico venne sdegnosamente rigettata dai teologi progressisti e buonisti, sempre in un’ottica di falso dialogo e di falsa apertura, perché nessun dialogo è possibile se si rinuncia alla propria identità e alla propria diversità) e che diede luogo, pertanto, a una interpretazione della divina Rivelazione difforme dalla Tradizione e dal Magistero, su alcuni punti essenziali e, ancor più, in tutto lo spirito di rinnovamento che lo animava. Non è certo un caso che i neoteologi postconciliari citino continuamente i documento del Concilio e quelli dei papi successivi al Concilio, mai però, o quasi mai, se non quando fa loro comodo, i documenti degli altri Concili e degli altri papi: ed è questa la prova provata della non ortodossia delle loro intenzioni, della malafede eretica che li anima e li ha sempre animati. Il Concilio, per loro, doveva essere, né più né meno, il grimaldello col quale scardinare completamente la struttura della Chiesa, dalla teologia, alla pastorale, alla stessa dottrina; ed ebbero anche la perfidia di sfruttare la buona fede di una maggioranza di padri conciliari i quali si erano presentati in Vaticano, nell’ottobre del 1962, animati da intenzioni completamente diverse, perché ad essi si era fatto credere che il Concilio sarebbe servito a ribadire la Tradizione e l’interpretazione cattolica delle Scritture; che avrebbe ribadito la condanna del comunismo, del materialismo, delle correnti del pensiero moderno e delle pratiche edoniste della civiltà moderna; che avrebbe ripreso e rafforzato l’impianto dell’ortodossia tracciato dal Concilio di Trento e anche dal Vaticano I; che avrebbe fatto chiarezza, eliminato le ambiguità, chiamato errore l’errore, tracciato una linea netta di confine fra ciò che è cattolico e ciò che non lo è; che sarebbe venuto incontro allo smarrimento delle anime non mediante una sanatoria generale di tutto ciò che si oppone al Vangelo, in nome di una misericordia ambigua e buonista, ma con tutta la forza, lo zelo e l’ardore di uno spirito autenticamente missionario, conscio di avere un messaggio perenne di salvezza da offrire agli uomini, non certo la paccottiglia di chi banalmente rincorre le mode del momento. Ecco: se esiste il modo di uscire dalla palude ove siamo affondati, si deve ripartire da qui.