
Omaggio alle chiese natie: San Giorgio Maggiore
31 Luglio 2018
Omaggio alle chiese natie: B. Vergine del Carmine
1 Agosto 2018La bella chiesa di San Cristoforo era sede di una parrocchia cittadina che è stata soppressa nel 1986 e incorporata in quella del Duomo; poi, dal 2002, dopo essere stata ristrutturata, è divenuta la sede di una parrocchia romena ortodossa. Al tempo della nostra infanzia ciò era di là da venire e la chiesa, a differenza di oggi, era sempre aperta ai fedeli, tutto il giorno, con la sua semplice e armoniosa facciata rinascimentale e il portale di Bernardino da Bissone, del 1518, che invitava ad entrare per una preghiera chi si reca, dal centro, verso la parte settentrionale della città, verso Borgo Gemona, o viceversa. L’edificio originario era ancora più antico, risaliva alla metà del 1300 ed era la cappella di una delle confraternite cittadine, quella di San Cristoforo; fu poi abbattuto e ricostruito, più ampio ed in forme classiche, alla fine del 1400. L’interno, pur non ospitando opere particolarmente pregevoli, a parte due sculture attribuite al Torretti, l’una di San Cristoforo, l’altra di San Giovanni Battista, è grazioso, proporzionato, accogliente, soffuso di una luminosità molto suggestiva; vi si respira aria di buono, di pulito. Anche l’aspetto della facciata, fiancheggiata da due strette vie, via Caiselli e vicolo Sillio, che sembrano quasi di paese, con le case a due piani e i caratteristici scuri in legno alle finestre, e che si mostrano di scorcio, come le quinte del palcoscenico d’un teatro, quando si alza il sipario. Ci passavamo davanti, generalmente, recandoci dalla Via Mercatovecchio e dalla benedetta sosta presso il Palazzo Bartolini, sede della biblioteca civica, procedendo verso via Gemona; la strada sale leggermene e fa una curva, poi scende un poco: ed ecco, sulla destra, uno scorcio sull’antica roggia, che scorre tranquilla sotto un ponticello e s’interna in via Molin Nascosto, in un angoletto che non pare nemmeno cittadino, ma vagamente esotico. Nostalgia di un tempo neanche troppo lontano, quando le rogge erano tutte scoperte e attraversavano la città da un capo all’altro, conferendole un aspetto quasi veneziano; poi vennero quei geni degli urbanisti degli anni ’50 e ’60, gli anni del boom economico (che da queste parti, per la verità, è arrivato un po’ in ritardo e alquanto in sordina) e, per guadagnare un po’ spazio alle automobili, le hanno coperte quasi tutte, una dopo l’altra, come un nuovo ricco che si vergogni dei suoi genitori e dei suoi nonni di umile condizione, che pure l’hanno cresciuto, l’hanno educato e l’hanno fatto studiare, e venda in fretta e furia i loro mobili, i quadri e le fotografie, che non gli servono e non gl’interessano; e, così facendo, hanno ammazzato uno degli aspetti più gradevoli e caratteristici di questa città che i giovani, oggi, neppure conoscono, se non, forse, per qualche rara e vecchia fotografia. Vecchia per modo di dire: ma in un mondo che corre a velocità pazza, senza neanche sapere dove vuole andare, bastano pochi decenni perché una cosa appaia non solo superata ed inutile, ma addirittura preistorica, antidiluviana, e scivoli via nel dimenticatoio delle cose che forse non sono mai state. E forse io solo so ancora che visse, scrive Giuseppe Ungaretti nella poesia In memoria, per ricordare l’amico arabo Mohammed Sceab che s’era ammazzato a Parigi, nel misero albergo di Rue de Carmes, appassito vicolo in discesa; e così la nostra generazione potrebbe dire: e forse noi soli sappiamo qual era l’aspetto di questa città, prima che arrivasse la modernità ad imbruttirla e banalizzarla. Un poco più avanti, sulla sinistra, ecco che si spalanca la piccola Piazza San Cristoforo, con l’elegantissimo, eppure semplice, Palazzo Caiselli, iniziato a metà del ‘600 ma terminato solo al principio del XIX, con una facciata progettata da un architetto francese, venuto al seguito degli eserciti napoleonici che piantavano gli alberi della libertà e intanto assassinavano il più antico, civile e glorioso Stato europeo, la Repubblica di Venezia, barattandola con gli austriaci che mai avevano saputo conquistarla pur avendoci provato più volte. A lato, leggermente rientrante, la sagoma simpatica della Chiesa di San Cristoforo, centrale eppure come discosta; simile a una fanciulla che, a una festa, si tiene un po’ sulle sue, non accetta di ballare con chiunque, ma è piena di riserbo e di pudore, e questo le dona un fascino e una grazia tutti particolari, quasi irresistibili: chiama senza bisogno di chiamare, attrae senza far nulla per attrarre.
E così dovrebbe essere la Chiesa, in generale di fronte al mondo: non dovrebbe invitare chiunque ad entrare, con grandi sorrisi e le labbra coperte di rossetto; non dovrebbe sforzarsi di piacere, ammiccando e mettendosi in mostra; non dovrebbe far la puttana, non dovrebbe scoprire le gambe: cioè, fuor di metafora, non dovrebbe svendersi per riuscire gradita al mondo, ma conservare la sua dottrina e la sua morale, e anche la sua sacra liturgia, in tutta la loro purezza, sen cedimenti né compromessi, senza preoccuparsi di quanta gente verrà, di quanti accetteranno di seguirla. Deve essere la Chiesa che indica al mondo la via da tenere, e non viceversa; se accade il contrario, se il mondo detta l’agenda alla Chiesa, se la induce a parlare sempre e solo di cose mondane, di problemi materiali, di economia, di politica, di giustizia sociale, allora la partita è già persa, e la fine solo questione di tempo. Quale errore macroscopico, e niente affatto dovuto a ingenuità, ma frutto di una congiura diabolica, organizzata da un ugno di cardinali massoniche, in occasione del Concilio Vaticano II, sferrarono il colpo con l’aiuto dei loro amici ebrei e luterani, e riuscirono a impadronirsi della navicella di san Pietro, per condirla là dove avevano deciso loro, da soli e senza domandare il permesso ad alcuno. Ma è un fatto che un simile tradimento fu reso possibile, e anche relativamente facile, dall’apatia, dal conformismo e anche, bisogna pur dirlo, dalla smania di novità a buon mercato di una parte consistente del clero e anche di una bella fetta dei fedeli, ai quali la disciplina e lo stile dio vita che la chiesa insegnava e pretendeva, cominciavano ad andare terribilmente stretti.
Ripensandoci con il senno del poi, c’erano stati diversi segnali premonitori, che avrebbero dovuto seriamente far riflettere chi di dovere, se ci fosse stata un po’ di lungimiranza. Ma i teologi erano stregati dalle novità della Chiesa tedesca, dal Catechismo olandese, dai preti operai francesi; mentre vescovi e cardinali, che oggi sono sovente coperti di obbrobrio per la loro turpe condotta morale, venuta in luce dopo lunghissimi silenzi e coperture di carattere omertoso (si pensi al cardinale Mc Carrick, arcivescovo di New York, costretto a dimissioni infamanti all’età di 88 anni, per le rivelazioni sui numerosissimi abusi sessuali che pare abbia compiuto su parecchi seminaristi e giovani preti, nel corso della sua vergognosa carriera), allora sembravano preoccupati quasi solo di due cose, il sesso (con le donne) e il comunismo, mentre poi hanno ceduto su entrambe, quasi di schianto, passando bruscamente da un eccesso di chiusura a un eccesso di apertura e dimostrando di non aver capito che il pericolo più grande, già allora, veniva da tutt’altra direzione, e cioè dallo stile vita americano, consumista, edonista e materialista. Non videro o non vollero vedere: si accanirono a censurare quasi tutto ciò che riguardava i rapporti fra i due sessi, e non videro che la società, e la Chiesa per prima, stavano incubando il male tremendo, devastante, della sodomia e della pederastia, che poco più tardi avrebbe soffiato con la violenza di un ciclone e scardinato la morale sin dalle sue fondamenta; né videro, o non vollero vedere, che il comunismo sarebbe prima o poi caduto per le sue intrinseche contraddizioni, anzi, si misero a corteggiarlo nella maniera più sfacciata, a partire dagli anni ’60, sempre più credendo d’individuare percorsi comuni e finalità similari fra il cristianesimo e il marxismo; mentre il nemico più tremendo, il diabolico consumismo, era già entrato nella stalla e stava già divorando i buoi, ed essi non pensavano neppure a chiudere le porte, ancorché in ritardo, semplicemente perché non capivano e pensavano che, da quel lato, ci fosse poco di cui preoccuparsi… Ciechi, sordi e stolti: si preoccupavano della donna, e non vedevano che la sodomia stava divorando, come un cancro, il tessuto sociale, a partire dai seminari e dallo stesso clero; si preoccupavano di trovare un’intesa, una realpolitik col comunismo (al punto da scaricare vescovi eroici, come Stepinac in Iugoslavia e Mindszenty in Ungheria: e questa fu responsabilità precisa di Giovanni XXIII e Paolo VI, che volevano ad ogni costo un’apertura a sinistra), e intanto l’american way of life corrodeva dalle radici tutto l’edificio della vita cristiana, lo intossicava, lo inquinava, lo avvelenava irreparabilmente.
Abbiamo accennato ai segnali premonitori: non parliamo di teologia, ma di cronaca spicciola. Il campione di ciclismo Fausto Coppi ebbe una relazione con una donna, Giulia Occhini, soprannominata la Dama Bianca, che era moglie di un medico, e anche lui era sposato: lasciarono le rispettive famiglie, andarono a sposarsi in Messico (matrimonio non riconosciuto dalle leggi italiane) ed ebbero un figlio, nel 1955: vicenda che, fra l’altro, vide l’arresto per adulterio di lei e la sua condanna al soggiorno coatto, ma che non pregiudicò la carriera di lui, né la stima e la simpatia che milioni di tifosi continuarono a tributargli quale fuoriclasse delle due ruote. Poi ci fu l vicenda relativa alla cantante Mina, che aveva una relazione con un uomo sposato, l’attore Corrado Pani, e che da lui aveva anche un figlio, nel 1963, e tuttavia trovava molte più simpatie che censure nella società italiana, a cominciare dalla stampa a larga diffusione, dalle riviste di attualità e dai cosiddetti settimanali femminili, per arrivare alle giurie e al pubblico dei maggiori festival della canzone; o il ciclista Fausto Coppi. Attenzione: non stiamo puntando il dito contro nessuno (oltretutto in maniera retrospettiva, il che sarebbe due volte assurdo); diciamo solo che, per chi voleva capire, quelli erano segnali chiari: la società italiana stava accettando comportamenti e stili di vita estranei alla sua tradizione e contrari alla morale cattolica, e faceva dei trasgressori quasi degli eroi: non ci voleva molto a predire che, nel giro di qualche altro anno, vi sarebbe stata una vera e propria rivoluzione dei costumi, e la Chiesa avrebbe dovuto tenerne conto. Invece non solo non ne tenne conto, ma si lasciò sorprendere completamente; e quando la rivoluzione arrivò, tutto quel che seppe fare fu passare, quasi da un giorno all’altro, da una posizione di chiusura sessuofobica e fortemente misogina, a una di cedimento pressoché completo alle pressioni della cultura edonista e permissiva, del femminismo e del "libero amore". Il comportamento tenuto da milioni di cattolici, negli anni ’70, in occasione dei referendum abrogativi sulle leggi del divorzio e dell’aborto, fece risuonare i rintocchi della campana a morto per la Chiesa cattolica. Era chiaro che essa aveva cessato di esercitare un ascendente sui comportamenti morali dei fedeli, e che questi, nella loro vita privata, si sentivano del tutto liberi di regolarsi "secondo coscienza", vale a dire, in pratica, secondo il desiderio o il capriccio del momento. E a nulla servivano gesti come quello del vescovo di Cava de’ Tirreni, che nel 1978 scomunicò la soubrette Minnie Minoprio perché, ad una festa patronale, aveva ballato in tanga (iniziativa tecnicamente discutibile, perché lei era protestante e quindi era già fuori della Chiesa). Non era quella la strada per ritrovare credibilità presso i fedeli. Dopo aver lasciato passare il divorzio e l’aborto, prendersela con una ballerina seminuda era veramente una misera vendetta, che, oltretutto, denotava come l’alto clero seguitasse a non capire nulla di quanto stava succedendo a livello di costume. Invece di preoccuparsi così tanto delle lunghe gambe della Minoprio e dei suoi conturbanti miagolii (che nel 1971 avevano provocato nientemeno che una interrogazione parlamentare), forse la Chiesa avrebbe dovuto preoccuparsi un po’ di più di tutti i McCarrick che infestavano le curie vescovili, le parrocchie, i conventi e i seminari, e fare una bella pulizia in casa propria, buttando fuori a calci, sia pur cerando di evitare i clamori, tutta quella genia di porporati, monsignori, sacerdoti e frati invertiti e stupratori di minorenni. E anche di un’altra cosa avrebbe dovuto preoccuparsi, la Chiesa, invece che di "dialogare" con tutte le confessioni e con tutte le religioni, fino al punto di dimenticarsi, o quasi, di essere se stessa: di fare pulizia di tutti i massoni che si erano insediati all’interno dell’alto clero, e alcuni dei quali erano notoriamente tali, come quell’arcivescovo Annibale Bugnini, al quale la Chiesa va debitrice della riforma liturgica conciliare. Aver scelto, per viltà e opportunismo, la via opposta; aver preferito la politica di nascondere la sporcizia sotto il tappeto, invece di spazzare ben bene i pavimenti, significava — e non era difficile prevederlo — innescare una bomba a orologeria, che prima o poi sarebbe scoppiata, e che avrebbe fatto danni tanto più gravi, quanto più a lungo si fosse cercato di ritardarne l’inevitabile esplosione. Il che è precisamente quello che si sta verificando ai nostri giorni: ci sono dei conti che si devono pagare, e che diventano sempre più salati, quanto più si cerca di eluderli. Non serve a niente fare i furbi: bisogna guardare in faccia il problema e affondare il bisturi con decisione nella piaga, senza riguardi per alcuno; solo a quel prezzo si può salvare il malato. E la Chiesa era gravemente malata, fin da allora; ed era malata anche perché aveva voluto "aprire" al mondo e rifiutarsi di condannare alcuno, folle scelta di Giovanni XXIII, spacciata per bontà e comprensione dei tempi. Invece era tutto il contrario: non lungimiranza, ma miopia, se non qualcosa di peggio: quando mai la Chiesa, per poter preservare la sua purezza, ha potuto esimersi dal condannare gli errori, vale a dire le eresie? Forse che, con il discorso d’apertura del Concilio, l’11 ottobre del 1962, gli eretici erano scomparsi per incanto, dopo aver tentato di attaccare la Chiesa per duemila anni? Rispondere onestamente a questa domanda, significare porre il Concilio nella giusta prospettiva…