Omaggio alle chiese natie: Santa Chiara
30 Luglio 2018
Omaggio alle chiese natie: San Cristoforo
31 Luglio 2018
Omaggio alle chiese natie: Santa Chiara
30 Luglio 2018
Omaggio alle chiese natie: San Cristoforo
31 Luglio 2018
Mostra tutto

Omaggio alle chiese natie: San Giorgio Maggiore

La chiesa di San Giorgio, in Borgo Grazzano! Che meraviglia, che luogo incantevole; e quanti bei ricordi. Fin dal 1300 la confraternita dei boni homines di questo borgo aveva eretto una chiesetta all’angolo dell’attuale via Cisis, che alla fine del 1500 era diventata parrocchia; poi, crescendo ancora la popolazione, il piccolo edificio era stato abbattuto e al suo posto, fra il 1760 e il 1780 (ma l’ultima pietra sarà posta solo nel 1831), venne costruito quello attuale, leggermente sopraelevato rispetto al piano stradale, che possiede, come tutta la strada sulla quale domina, un’aria molto caratteristica e vagamente senza tempo. La bella facciata settecentesca, riuscitissimo equilibrio fra classicismo e barocco, di un bianco quasi abbagliante, svetta sopra le vecchie case a destra e a sinistra: edifici vetusti, al limite della fatiscenza (specie quello di sinistra), che danno perfettamente l’idea di come si presentava la città cent’anni fa, anche se una cosa è irrimediabilmente cambiata e i giovani d’oggi, forse, non l’immaginano neanche: fino agli anni ’50 del secolo scorso vi scorreva la roggia, per tutta la notevole lunghezza del vecchio borgo, e gli conferiva un aspetto vagamente acquatico, un po’ come Chioggia, o meglio come la vecchia Milano dei navigli. Quando venne coperta, se ne andò per sempre una parte della vecchia anima cittadina: ci sono delle foto che documentano l’evento, con la gente che si ferma a guardare, incuriosita, forse perplessa. Che volete farci, è il progresso, questo è tutto spazio sprecato, bisogna guadagnarne il più possibile per la circolazione automobilistica e per il parcheggio dei mezzi; questa roggia da coprire è una vera benedizione. E così ,quegli amministratori e quegli urbanisti, che non hanno brillato certo per saggezza o per lungimiranza, hanno deciso di fare la cosa più facile e più rozza, come un medico che non pensa tanto a curare, quanto ad amputare: e hanno scelto di coprire, nascondere, cementificare, e invitare le auto ad entrare rombando nei vecchi borghi, fin nel cuore della città, stravolgendo la vita degli abitanti, delle vecchie botteghe affacciate sulla via, dei bambini che giocavano a frotte senza bisogno di giocattoli, tanto meno elettronici, divertendosi con niente, ma padroni dei luoghi dov’erano nati e sempre vissuti (le ferie al mare o ai monti erano ancora da venire, come tutti gli altri miti e riti del nascente consumismo; figuriamoci quelle nei paradisi esotici, alle Canarie o alle Maldive). Eppure, anche dopo la copertura della roggia, Borgo Grazzano era sempre Borgo Grazzano: entrarvi dalla Piazza Garibaldi, e avviarsi verso Piazzale Cella, guardando le vetrine delle modestissime botteghe, le facciate delle case un po’ cadenti, e gettare un colpo d’occhio sui vicoli adiacenti, come il Vicolo Paradiso, con le scale esterne e i ballatoi di legno, come nelle case di montagna, aveva sempre un fascino strano, particolare: era come tuffarsi indietro nel tempo, risalirne di qualche anno la corrente; come se in quel luogo si potesse ritrovare e respirare un po’ di quella buona aria di una volta, prima del boom, e la vita aveva i suoi ritmi lenti, uguali, monotoni solo in apparenza, in realtà pieni di significato, perché vicini ai bisogni reali delle persone; mentre poi sono nati i bisogni artificiali, i bisogni fasulli, instillati dalla pubblicità, che hanno sospinto i ritmi della vita cittadina in una direzione innaturale, incontrollabile, sempre più aberrante. Pur essendo bambini, e non conoscendo affatto la storia della città, né facendo alcun preciso ragionamento, noi d’istinto ci sentivamo attratti da quel borgo un po’ così — simile, del resto, agli altri borghi, borgo Villalta, borgo San Lazzaro, borgo Pracchiuso – ma forse il più caratteristico di tutti, quello ove si era meglio conservata l’atmosfera di qualche anno prima. Perché la via, benché avesse un’aria decisamente popolare, dal principio alla fine, non presentava segni di degrado, case vuote, negozi sfitti: era tutta popolata da gente povera, ma dignitosa, e fiancheggiata da trattorie, negozietti di frutta e verdura, mercerie, rivendite di pane, insomma niente di lussuoso, niente negozi di vestiti, o di gioielli, niente banche, niente alberghi o ristoranti a quattro stelle, solo cose necessarie alla vita d’ogni giorno. In fondo somigliava a una strada di paese, quelle strade lunghe ed ampie, un po’ incurvate, come ce ne sono tante nella campagna profonda.

Ma la sorpresa, la meraviglia, la scoperta, venivano entrando, dopo aver varcato la soglia per immergersi nella luce soffusa dell’interno, fra le chiare colonne slanciate dai capitelli corinzi elegantissimi, nello spazio sapientemente misurato. La pala sopra l’altar maggiore, opera di un pittore del Cinquecento, Sebastiano Florigerio, che rappresenta San Giorgio a cavallo, nell’atto di trafiggere il drago, è un piccolo gioiello sconosciuto ai più, capace di conferire a tutto l’insieme un’atmosfera magica, fiabesca, potentemente evocativa, quasi da Mille e una notte. Quante volte, recandoci al vicino cinema-teatro, per assistere alla proiezione di un film di Tarzan o di Maciste, offerto dal cappellano del duomo per aver prestato servizio ai Vespri come chierichetti, siamo entrati col cuore trepidante ad ammirare quella scena favolosa, che aveva il respiro epico di un poema cavalleresco. Ecco il santo, armato e indossante l’armatura lucente, come un cavaliere medievale; ai suoi piedi il drago dal lungo collo che stramazza a terra, morente, rabbioso; e la principessa dalla veste elegantissima, bionda, spaventata, deliziosa nel suo gesto di supplica, gli occhi rivolti al cielo: una scena veramente affascinante, un incanto per un bambino che possieda, come del resto è naturale nei bambini, appena un po’ di fantasia. Guardando quella scena, in quel paesaggio strano, esotico, si restava affascinati: possibile che ci siano avvero i draghi? Ne esistono ancora? E i cavalieri, e le belle fanciulle da salvare, ci sono anche quelli? E così la mente fantasticava, si perdeva, e le cose più strane, più bizzarre, più avvincenti, parevano farsi più vicine, sempre più vicine, fin quasi a portata di mano…

Ma, come dice san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (13, 11): Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato; e così anche noi, crescendo, abbiamo capito una cosa: che il drago, il più terribile, il più pericoloso di tutti i draghi, si nasconde dove meno ce lo si aspetterebbe: nelle profondità abissali della propria anima. È da lì che salgono gli istinti primitivi, indomabili, violenti; ed è su di essi che bisogna vegliare e vigilare, e stare pronti al combattimento, e fare appello a tutto il proprio coraggio. Il drago, il mostro, è dentro di noi; non fuori. Bisogna stare di sentinella sulle mura, ma fare attenzione più verso l’interno che verso l’esterno. Dovremmo saperlo, e del resto le cronache — cronache tristi, malinconiche — ce lo rammentano ogni giorno; e invece tendiamo a dimenticarlo, a far come se questo pericolo non esistesse, come se il nemico fosse sempre l’altro. No, il nemico siamo noi: siamo esseri scissi, divisi; siamo creature del bene e del male; e la vittoria del bene non è mai assicurata, non è mai certa e definitiva: in qualunque momento anche l’uomo più pio, più timorato di Dio, può scivolare e cadere malamente. Ciò avviene se ci si allontana da Lui, se si confida solamente in se stessi; avviene quando si dice, con orgoglio: No, a me non accadrà: io sono padrone di me stesso. E poi, allorché avviene, ecco che la mente, perfida e ingegnosa, va in cerca di mille tortuose giustificazioni, d’infinte attenuanti per convincerci che no, che quella tale azione non era male, non era peccato, che era qualcosa d’innocente, perfino di pulito: miserabile stravolgimento della verità, dettato unicamente dal desiderio di autoassolversi. Invece non è così: non ci si può autoassolvere, come non ci può auto-redimere: ci assolve solamente Dio, ci redime solamente Lui. Come scrive ancora san Paolo (Efesini, 6, 11-17): Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio.

Il giornale dell’altro giorno riporta una di queste tristissime notizie di cronaca: un prete di settant’anni è stato sorpreso, a bordo di un’automobile parcheggiata in un luogo un po’ appartato, presso un supermercato, mezzo svestito e in atteggiamento inequivocabile con una bambina di 10 o 11 anni, seminuda, i pantaloni e la maglietta abbassati. Sono stati visti, qualcuno ha dato l’allarme; si è raccolta una piccola folla che per poco non ha linciato quell’indegno sacerdote, finché non è arrivata una volante della polizia che lo ha portato via: ora si trova agli arresti domiciliari. Il fatto è accaduto a Calenzano, una cittadina di 17.000 anime in provincia di Firenze; ne è stato protagonista il parroco di San Ruffignano a Sommaia, don Paolo Glaentzer, cautelativamente sospeso dal suo vescovo (quando i buoi sono scappati dalla stalla…); la bambina fa parte di una famiglia disagiata, problematica, con dei genitori ai quali i servizi sociali avevamo già tolto una volta la potestà sui figli, perché ritenuti incapaci di esercitare responsabilmente il loro ruolo. Don Paolo li aveva aiutati, anche economicamente, e frequentava da amico quella casa; ha ammesso di essersi appartato altre volte con la piccola. A sentir lui, si è trattato di gesti "di affetto", anche se ha ammesso che è stato "un errore". Sorridendo, così pare, ha cercato di barare sull’età della piccola, dicendo che pensava avesse almeno quindici anni, cosa impossibile visto che conosceva quella famiglia da molti anni e aveva visto la bambina ancora in fasce; come se non bastasse, si è giustificato affermando che era sempre lei a "prendere l’iniziativa". Il che potrebbe anche essere, lo diciamo in via ipotetica, così come può essere, come lui dice, che sia una ragazzina molto più matura della sua età: ma è tragico come egli non veda che tutto ciò non basta ad alleggerire di una virgola le sue pesantissime responsabilità. Indipendentemente da chi ha preso l’iniziativa, l’adulto è lui, anzi, l’anziano, e per giunta sacerdote; lei è solo una bambina di dieci anni e, per quanto "matura", resta sempre e solo una bambina: portandola fuori in auto, alle dieci di sera, e appartandosi con lei, spogliandosi, toccandola (non sappiamo fino a che punto) è lui che si è macchiato di una colpa gravissima, che si chiama, se non andiamo errati, pedofilia. Un uomo di settant’anni che fa sesso con una bambina di dieci è un pedofilo, puramente e semplicemente; se, poi, quell’uomo è anche un sacerdote, allora forse, invece di dire (vedi l’audio realizzato dal Corriere Fiorentino), con una certa leggerezza, che ha sbagliato, sì, ma dopotutto era una relazione affettiva, e che lui si rivolgerà a Gesù e a Maria Vergine, dovrebbe andarsi a rileggere e meditare le parole severissime di Gesù medesimo su questo argomento (Matteo, 18, 5-10): Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo! Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. Invece, pare che don Paolo non abbia capito niente; nemmeno che gli hanno concesso gli arresti domiciliari solo per la sua età avanzata, ma avrebbero potuto benissimo metterlo in galera, vista l’accusa che gli pesa sul capo: violenza sessuale aggravata.

Lungi da noi volerci impancare a giudici e giustizieri; anzi, proprio per questo ci fa ribrezzo l’atteggiamento assunto dalla neochiesa in questa circostanza. Prima il vescovo, Giuseppe Betori, si affretta a lavarsi le mani, dicendo che non gli era mai giunta alcuna segnalazione su quel prete (questa l’abbiamo già sentita tante, troppe volte: come nel caso del vescovo di Padova, Cipolla, a proposito del porno-parroco Andrea Contin), il quale, d’altro canto, non era nemmeno appartenente al clero diocesano, in quanto incardinato in una diocesi del Lazio (pare che abbia girato parecchio, da una sede all’altra, e che sia stato perfino monaco benedettino, in Germania, per una ventina d’anni). Poi il quotidiano L’Avvenire, bramoso di rifarsi una verginità anti-pedofilia, dopo aver sempre sostenuto ciecamente il signor Bergoglio, anche quando questi difendeva a spada tratta il vescovo Barros che in Cile ne ha fatte di tutti i colori ed è detestato per gli abusi sessuali commessi, titola con accenti robespierristi: Tolleranza zero per don Glaentzer (articolo di Andrea Fagioli del 28/07/18). Quel che vogliamo fare non è mettere al rogo un singolo individuo, ma ricordare a tutti, anche ai progressisti e ai bergogliani che si credono infallibili, che si identificano con il Bene Assoluto, e che ritengono di sapere e d’aver capito, essi soli, che cos’è il vero vangelo, che l’uomo, qualunque uomo e qualunque prete, è fragile, esposto alle tentazioni e sempre minacciato dal drago della concupiscenza. Tutti possono cadere, se non fanno una vita di preghiera e vicinanza a Dio: è il mistero della natura e della grazia. In quanto esseri naturali, non sappiamo fare il bene, perfino nei casi (abbastanza rari) in cui sinceramente lo vorremmo; ma in quanto figli di Dio, e col Suo aiuto, lo possiamo: non però da soli, né mai per merito nostro. E se qualcuno se ne scorda, è già perduto…

Fonte dell'immagine in evidenza:

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.