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Omaggio alle chiese natie: l’Angelo benedicente

La Chiesa, come madre amorosa, ci ha trasmesso la conoscenza della Verità allorquando, negli anni dell’infanzia, non eravamo in grado di capire tutto e di dare un assenso pienamente cosciente e maturo alla fede che ci veniva trasmessa. Come dice san Paolo (1 Cor 13, 9-11): La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.  Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. E adesso anche noi, divenuti uomini, abbiamo abbandonato ciò che era da bambini; ma la verità ricevuta da bambini, la fede ricevuta da bambini, quelle no, non le abbiamo abbandonate, anzi, dopo molto viaggiare e cercare, e dopo essercene anche allontanati, le abbiamo ritrovate, e abbiano trovato in esse tutto ciò che un cuore leale, un’anima onesta e una mente assetata del vero, possono desiderare e tutto ciò che possono umanamente ricevere, pur senza arrivare a capire ogni cosa sino in fondo, perché vi sono delle cose che, in questa vita, bisogna accettare anche senza capirle, così, per fede, come appunto il bambino accetta alcune verità dai suoi genitori, anche se non le capisce, e anche se, per taluni aspetti, gli riescono dure o perfino sgradevoli: e tuttavia le accetta con piena fiducia, perché ha piena fiducia in coloro che gliele impartiscono. Atto sublime, che è l’essenza dell’amore: accettare ed accogliere tutto, non perché tutto sia chiaro ed evidente, ma perché merita fiducia piena e assoluta la persona che ne fa dono.

Strano destino, comune, però, a quello di tante altre persone: giunti all’età adulta e ritornati con piena fiducia e convinzione alle verità ricevute nell’infanzia, così come si torna, con i piedi piagati, le membra stanche e le labbra riarse, dopo un lungo ed inutile viaggio, al giardino bellissimo degli anni lontani, lo si ritrova in uno stato di completo abbandono e di totale desolazione: le erbacce che crescono ovunque, le fontane disseccate, mucchi di pietre e rifiuti al posto delle aiole fiorite e delle siepi profumate di bacche dai vivi colori. Non solo. I custodi del giardino non se ne sono andati, sono sempre lì: ma che fanno, invece di tenerlo pulito ed in ordine, invece di annaffiare e potare le piante, invece di allontanare gli animali al pascolo e le fiere selvagge che vi si aggirano liberamente, lo sporcano e lo rendo un luogo malsicuro? Trascurando il loro dovere, si son messi a dormire beatamente, chi qua, chi là; oppure hanno fatto amicizia con briganti, prostitute e spacciatori, che infestano il giardino e lo usano per le loro ignobili attività; oppure ancora, una parte di essi si è auto-proclamata non più custode, ma proprietaria del giardino, e, in nome di un supposto diritto di proprietà, ha deciso di lasciarlo andare in malora, senza però avere il coraggio di chiamar le cose con il loro nome, bensì asserendo che il suo disinteresse, la sua trascuratezza e la sua accidia sono il frutto di una nuova consapevolezza, di un atteggiamento più maturo, di una coscienza più adulta, e che sarebbe puerile montare la guardia al giardino, accudirlo e curarlo come facevano le passate generazioni, perché il giardino, come ogni altra cosa, è fatto per godere le gioie della vita, e non bisogna caricarsi di troppi doveri e di eccessive fatiche, ma si ha il diritto, al contrario, di concedersi tutti quegli svaghi e tutte quelle soddisfazioni che rispondono ai desideri del proprio cuore, senza andar tanto per il sottile e vedere se siano conformi, oppure no, al proprio dovere e alla legge del vero, del giusto, del buono e del bello. Quei guardiani infingardi, cialtroni, traditori, si sono macchiati del crimine peggiore: hanno trasformato il proprio dovere in una vita di ozio, di furberia da quattro soldi, e si son fatti una nuova legge, ritagliata sulla misura dei loro vizi: una legge in base alla quale non è colpa lasciare che il giardino si trasformi in una landa selvaggia e spinosa, ma, al contrario, è cosa buona e giusta, perché non ci devono più esser giardini o luoghi privilegiati, ma tutta la terra deve esser egualmente accogliente, deve essere fatta su misura per i bisogni dell’uomo, e questi bisogni ciascuno ha la facoltà di ritagliarseli a suo modo e secondo il suo gusto, fosse pure calpestando ogni legge umana e divina.

Che fare, a questo punto, dopo aver affrontato, assorbito e metabolizzato la fase della cocentissima delusione, se non quello che qualsiasi figlio devoto e pietoso farebbe con la sua vecchia madre, se la trovasse abbandonata sul ciglio di una strada, coperta di sporcizia, derisa e sbeffeggiata da tutti i passanti, e soprattutto dagli amici di un tempo? Che fare, se non chinarsi su di lei, ripulire con un fazzoletto umido il suo volto disfatto, aiutarla a rialzarsi e mormorarle dolci parole di amore e d’incoraggiamento, non perché ella sia amabile e desiderabile come si è purtroppo ridotta, ma in nome del bene che ci ha voluto e del bene che ci ha fatto, quando eravamo piccoli e ancora ignari del mondo, e bisognosi di tutto? Nn è forse per merito suo se abbiamo appreso i rudimenti di quella verità che, poi, ci ha permesso di procedere nella vita, di orientarci e di trovare, alla fine, la direzione giusta? Non abbiamo pertanto un debito nei suoi confronti, che niente e nessuno potranno mai cancellare, sino a quando non le avremo reso il bene ricevuto e fatto quanto è in nostro potere per sanare le sue piaghe e ripulire la sua sporcizia? Che razza di figli saremmo, come potremmo mai guardarci allo specchio senza arrossire, se ora la piantassimo in asso, se proseguissimo per la nostra strada, facendo finta di non vederla, o, non potendo negare d’averla vista, facendo finta di non riconoscerla? Cher razza di vermi saremmo, che sottospecie di spregevoli individui dimostreremmo di essere, senza fede né onore, se ci comportassimo in un tal modo?

Ed ecco che è nata, in noi, l’idea di restituire un po’ di quella tenerezza, di quella dolcezza e di quella verità che abbiamo a suo tempo ricevuto; di rendere testimonianza a quella donna infelice, che ci ha voluto bene e alla quale anche noi abbiamo voluto bene, non per ciò che essa è diventata oggi, ma per ciò che era allora e che forse, anche per merito del nostro amore, della nostra riconoscenza e della nostra sollecitudine, potrà un giorno tornare ad essere: bella, pura e forte, con lo sguardo limpido rivolto in avanti, pieno di fede, come la ricordavamo nei giorni del nostro esilio, allorché, pieni di ardente nostalgia, sognavamo di ritornare al giardino fiorito e profumato della nostra infanzia. Poiché la Chiesa, nel momento in cui accoglie l’anima di un bambino, si manifesta in una serie di persone, di situazioni e di luoghi; e poiché la mente di un bambino non coglie, se non in maniera assai vaga, i concetti astratti, ma si lega alle cose concrete, e pensa per immagini: per tale motivo, abbiamo pensato di rendere omaggio alle singole chiese che hanno caratterizzato i momenti felici della nostra infanzia, nella città natale che poi abbiamo lasciato, ma che non abbiamo mai scordato e alla quale è sempre ritornato il nostro pensiero, con amore immutato e con nostalgia sempre più acuta. Abbiamo pensato di abbinare ad ogni chiesa ricordata, un pensiero, una riflessione legata alla fede, alla condizione in cui si trova la Chiesa oggi, alla nostra viva speranza che il bellissimo giardino possa tornare a fiorire, dopo essere stato ripulito dalle pietre e dalle erbacce, e liberato dalla molesta presenza di frequentatori volgari e grossolani, che vi entrano solo per insozzarlo e per condurvi traffici illeciti, di natura equivoca. Dall’insieme di queste riflessioni speriamo che possa scaturire un quadro d’insieme che valga a rincuorare, incoraggiare, rianimare tutti i viandanti che, come noi, avevano diretto i loro passi verso il giardino, ricordandolo com’era una volta, e che sono rimasti traumatizzati e angosciati nel vederlo a tal segno deturpato, e quasi irriconoscibile; e anche per aiutare a riscuotersi quei guardiani infedeli i quali, per pigrizia, viltà e conformismo, hanno trascurato nella maniera più vergognosa i loro doveri, forse senza rendersi del tutto conto dello stato di abiezione in cui loro stessi sono caduti, dacché hanno contribuito, con la loro colpevole remissività, a far sì che il giardino venisse profanato e, metaforicamente, stuprato. Tale, almeno, è il nostri auspicio, ed è con questa intenzione e con questo stato d’animo che prendiamo, come si diceva una volta, la penna, e ci mettiamo all’opera.

E da dove dovremmo cominciare, se non da quell’Angelo in bronzo dorato, che ruota secondo il soffiare dei venti, posto lassù, in cima al campanile, sulla chiesa più elevata della città, la chiesa più antica e, forse, la meno conosciuta, anche perché quasi sempre chiusa al pubblico, arroccata quasi sulla cima del colle che la domina dall’alto e che spalanca l’orizzonte da ogni parte, da un lato verso il mare e, dall’altro, verso la chiostra vicina dei monti, solenni, imponenti, simili a un bastione ininterrotto che s’innalza lungo tutto il lato settentrionale e che l’inverno biancheggia di neve, come una fantastica e immane cattedrale scolpita nella viva roccia? In quell’Angelo — l’Agnulut, come lo chiamano tutti — vi è la sintesi della nostra civiltà: civiltà cristiana, consolidata da quasi duemila anni di storia; da quando i santi patroni della città, Ermacora e Fortunato (festa, il 12 luglio), protomartiri della diocesi aquileiese, dalla quale sarebbe un giorno sorto il glorioso Patriarcato, vennero a questi lidi portando la Buona Novella del divino Maestro, sorta in Palestina appena qualche anno prima, quando Iddio camminava ancora sulla terra con piedi umani. Dall’alto del colle, dalla cima del campanile della chiesa più antica, l’Angelo sembra abbracciare, custodire e proteggere tutta la città, la pianura ed i monti; e sembra benedire i paesi, i villaggi, le fattorie, le valli, i fiumi, i laghi, i passi, le malghe, le rocce e i nevai, e far aleggiare su tutto lo Spirito di Dio, che trasmette agli uomini di retto sentire la fede, la speranza e la carità necessarie per vivere la vita buona. Quante volte, sin dalla prima infanzia, abbiamo levato lo sguardo verso l’Agnulut — la nostra casa era proprio ai piedi del colle — e quante volte, pur senza dedicarvi un esplicito pensiero, quella presenza dolce, amica, benevola, ha trasmesso, a noi come a chissà quante persone e a chissà quante generazioni di uomini e donne, un senso di sicurezza, di protezione, di continuità e di identità. Sì, perché noi non siano giudei, né islamici, e neppure luterani – i protestanti deridono il culto degli Angeli, come quello dei Santi — e la nostra civiltà è la civiltà cristiana e cattolica, anche se poi è stata ferita e orribilmente sfigurata dalla modernità, con tutte le diavolerie che la modernità ha escogitato per sradicare le sue radici cristiane, dalla massoneria al miraggio del progresso illimitato, di un benessere sempre più grande, del piacere e del dio denaro.

E quante lotte si sono svolte, nel corso degli anni e dei secoli, perché queste terre, benedette da Dio, rimanessero ciò che erano state per quasi due millenni: quante volte, dai passi alpini, si sono affacciati invasori spietati, e quante volte bande di predoni, sotto gli stendardi della Mezzaluna, si sono lanciate attraverso la pianura, bruciando, devastando, uccidendo e portando via, in schiavitù, i giovani più forti e le fanciulle più belle, merce destinata ad essere venduta sui mercati degli Stati barbareschi. Sì, lo sappiamo; non sta bene ricordare queste cose, in tempi di ecumenismo e di dialogo inter-religioso; bisogna scordare il passato, concentrarsi sul presente e auspicare un mondo dove non ci siano più frontiere, né divisioni, ma dove tutti siano fratelli, solidali e amici. Che bello! Tanto bello da essere falso: falso come una banconota falsa, stampata da un falsario di professione. Gli uomini non saranno mai veramente fratelli se non si convertiranno alla Verità; ma la Verità è una sola, ed è quella insegnata dal divino Maestro e diffusa, poi, dai suoi Apostoli e dai loro successori. Testimoni della fede i quali, come appunto Ermacora e Fortunato, non hanno esitato a offrire la loro vita perché il loro sangue fosse semente di nuovi cristiani; uomini che non hanno nulla a che fare con certi pastori di oggi, fedifraghi e apostati, i quali vanno cianciando di un vangelo che non è il Vangelo, di una speranza che non è la Speranza, di una fede che non è la vera Fede, che non c’entra niente con il vero cristianesimo, ma che è solo una misera, sacrilega imitazione di quello autentico. Non si tratta, infatti, di rinfocolare gli odî del passato, ma di preservare la propria identità, e, con essa, la Verità soprannaturale, che ha illuminato e ingentilito la vita di tante generazioni della gente nostra, le quali ci hanno preceduto in questo pellegrinaggio terreno. Se, poi, i falsi pastori ci vengono a dire che i giudei hanno già la salvezza, perché hanno già la Verità, noi domanderemo, e con pieno diritto: Come: una Verità senza Gesù Cristo? Per i giudei, Cristo è solo un falso profeta; e sappiamo come si regolarono nei sui confronti i sacerdoti e i capi del Tempio. E se i falsi pastori ci vengono a dire che anche gli islamici meritano tutto il nostro rispetto, che è giusto invitarli a partecipare anche alla santa Messa, dentro le nostre chiese; e che non è vero che alcuni di essi ci odiano e ci vorrebbero morti, e che il terrorismo islamico non esiste: allora noi domanderemo: Come è possibile tutto ciò, se Gesù ha detto esplicitamente: nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me? Forse che la parola di Gesù è stata cambiata? E quando, e come, e da chi? Forse dal Concilio Vaticano II? Se è così, allora abbiamo dei seri dubbi che lo Spirito Santo abbia ispirato quei padri conciliari. E se i falsi pastori ci vengono a dire che Lutero, dopotutto, aveva ragione (e quindi, per la proprietà transitiva, che il Concilio di Trento ebbe torto, completamente torto, visto che condannò Lutero e tutte le sue dottrine); se ci vengono a dire che possiamo condividere con essi il Sacrificio eucaristico, pur sapendo che, per loro, l’Eucarestia non ha lo stesso significato che ha per noi cattolici, e che per essi non vi è la Presenza Reale, viva e operante del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, allora domanderemo: Ma come è possibile questo?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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