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Ricostruire la civiltà sulle rovine dell’americanismo

L’americanismo, come abbiamo sostenuto più volte, non è la punta avanzata, ma la degenerazione, o per meglio dire, il cancro della civiltà europea; e per dissimulare questa realtà, che sarebbe evidente se non venisse occultata da dense cortine fumogene, è stata inventata la stupida espressione civiltà occidentale, che non significa proprio niente, perché la civiltà della quale noi siamo gli eredi, sia pure degeneri, è la civiltà europea, che ha le sue radici ideali nella Grecia e nella Roma antica, e, sotto il profilo spirituale, nel primo cristianesimo. Il quale, a sua volta — giova ricordarlo agli smemorati – era già in larga misura una religione ellenizzata quando arrivò in Europa, per cui anche dire che le radici della civiltà europea sono cristiano-giudaiche è una solenne sciocchezza, o, nel migliore dei casi, una mezza verità, cioè una mezza menzogna. L’Europa non ha niente a che fare con gli Stati Uniti sotto il profilo spirituale, morale, intellettuale; di mezzo c’è la geografia, qualche migliaio di chilometri di Oceano Atlantico (mentre fra l’Europa e la Russia non c’è un bel niente, anzi, la Russia è parte integrante e assolutamente vitale dell’Europa, almeno fino ai Monti Urali); e, se moltissimi credono il contrario, ciò accade perché scambiano l’imposizione dell’american way of life agli europei, per una specie di destino, o addirittura per una vocazione, mentre è il risultato di una operazione economico-politica, gestita con la forza del denaro e degli eserciti, a danno dell’Europa e ad esclusivo vantaggio degli Stati Uniti. Per essere ancora più precisi: ad esclusivo vantaggio della finanza ebreo-americana, di cui gli stessi Stati Uniti sono stati il primo terreno di conquista. Di fatto, l’Europa non aveva, e non ha, nulla di prezioso che possa ricevere dagli Stati Uniti; si limita ad importare i suoi prodotti e la sua propaganda, e ad indossare i suoi monili, agitandoli con entusiasmo puerile, come gli indigeni si adornavano con le collane e le perline di vetro colorato degli uomini bianchi, in cambio dei quali cedevano loro la propria terra, le risorse, la sovranità. Pertanto, il rapporto fra Stati Uniti ed Europa è di tipo puramente parassitario: come un tumore, appunto, che divora le cellule dell’organismo in cui s’è sviluppato, e lo conduce alla morte.

Ma, si dirà, questo può esser vero, o plausibile, almeno in una certa misura, sul piano strettamente economico e commerciale, oltre che politico-militare: senza dubbio, gli Stati Uniti si servono dell’Europa per i loro fini, la dominano con la loro finanza, la usano come mercato per i loro prodotti, anche i peggiori, anche quelli di sfacciata propaganda (a cominciare dai film di Hollywood e da tantissime serie televisive), la spingono e la fomentano contro la Russia, per conservare la loro egemonia mondiale (che, comunque, non è più contesa loro dalla Russia, ma dalla Cina); e tuttavia, come negare la loro influenza anche sul piano culturale, letterario, artistico, per non parlare di quello scientifico e tecnologico? Noi, però, non abbiamo negato affatto tale influenza; anzi, l’abbiamo additata come il problema più grave che pende sul destino del’Europa: perché si tratta di vedere se tale influenza esercita, o ha mai esercitato, un qualche ruolo positivo nella vita della civiltà europea, o se, anch’essa, si può paragonare a un organismo parassita, che si attacca ad un organismo sano e ne succhia le energie vitali per le sue necessità, determinandone, alla lunga, la malattia e la morte. Che cosa dunque ha ricevuto, o riceve tuttora, la civiltà europea, dagli Stati Uniti? In che cosa gli Stati Uniti hanno dato un contributo costruttivo alla sua civiltà? Se si osservano e si giudicano le cose in maniera spassionata, difficilmente si arriverà ad una conclusione diversa da questa: gli Stati Uniti hanno preso, ma ciò che hanno dato è stato sempre, o quasi sempre, di segno negativo: hanno introdotto rilassatezza, dubbi, confusione, disordini d’ogni tipo, dal piano culturale a quello sessuale, dall’ambito religioso a quello strettamente intellettuale. Gli Stati Uniti non hanno dato all’Europa la loro giovinezza, perché non sono mai stati una nazione giovane (con buona pace di tutti gli americanisti nostrani, Vittorini e Pavese in testa), ma nata già vecchia, perché nata da un disegno della massoneria in funzione squisitamente economica e finanziaria, e perché macchiata da due vergogne inestinguibili, la schiavitù dei negri e il genocidio dei pellerossa. Nessuna spiritualità, nessuna idealità, nessuno slancio disinteressato verso alcunché: il dollaro, ed esclusivamente il dollaro e tutto ciò che produce dollari, questa è stata, ed è più che mai, la cosiddetta civiltà americana. Potremmo anche chiamarla la civiltà dell’usura, sulle orme di un illustre americano, che queste cose le aveva capite anche troppo bene, Ezra Pound: quella che sarebbe diventata, per degenerazione, anche la civiltà europea, se non ci fosse stato il correttivo del cristianesimo cattolico, che le ha sbarrato la strada, l’ha incanalata, l’ha addolcita, l’ha confinata entro limiti precisi, per secoli e secoli; e se infine anche in Europa essa ha trionfato, è stato appunto perché l’Europa è caduta nell’orbita degli Stati Uniti e ne è divenuta un misero satellite, e sia pure un satellite di lusso. Ma di suo, quel che la cultura americana ha dato all’Europa, non è stato altro che prodotti di risulta della stessa civiltà europea: quel poco di buono che si è sviluppato nella cultura americana viene dall’Europa, tutto il resto è una creazione originale.

La colonizzazione americana dell’Europa, come è noto, ha avuto inizio nel 1917, con l’arrivo degli eserciti statunitensi per l’ultimo atto della prima guerra civile europea (quella del 1914-18); ed è culminata a partire dal 1943-44, con la seconda, e stavolta definitiva, invasione del nostro continente, in occasione della seconda guerra civile europea. Da allora, l’Europa non si è più scrollata di dosso, non solo la tutela politica e militare americana, non solo la supremazia economica e finanziaria americana, ma neanche l’incontrastata supremazia culturale americana, dalla letteratura al cinema, dalle arti figurative alla musica leggera. E l’umiliazione della nostra sudditanza appare evidente dal modo in cui noi stessi ci raccontiamo questa storia: dal modo in cui, per esempio, nei nostri licei e nelle nostre università, si presentano come progrediti, illuminati, ispirati, quegli scrittori, come appunto Pavese e Vittorini, i quali fin dagli anni ’30 del Novecento si diedero a imitare lo stile e i temi di Hemingway e Dos Passos e, soprattutto, importarono l’improbabile mito della frontiera e della "libertà" americana, mentre si passano sotto silenzio, o si ricordano in fretta e con una punta (o più di una punta) di dispregio, gli scrittori italiani ed europei, i quali tentarono, per l’ultima volta, di far appello alle radici, alle tradizioni, alle energie dell’Europa: da Papini a Soffici, da Jünger a Drieu La Rochelle, da Hamsun allo stesso Pound, americano di nascita, ma europeo e italiano di adozione, bollandoli come conservatori, provinciali, e, nel caso di Pound, come pazzi e traditori, o entrambe le cose insieme.

Eppure, se vogliamo uscire dal vicolo cieco in cui, come europei, ci siamo volonterosamente posti, bisognerà che ripartiamo da dove l’ultima generazione di veri europei si è fermata, o meglio, è stata fermata, dal disastro della seconda guerra civile europea, quella del 1939-45, e dalla successiva invasione e occupazione americana; bisogna ripartire dall’ultima stagione della cultura europea ancora autonoma e fiera di se stessa, anche se già ammalata; e ricercare in quelle esperienze, in quei tentativi, lo spunto per una possibile ripresa, per una necessaria rinascita, senza di che la nostra civiltà passerà dalla fase della decadenza a quella della morte, e gli europei delle prossime generazioni non saranno altro che dei morti viventi, o, per dirla con Nietzsche, non saranno altro che "il nulla": perché una civiltà grande come quella europea, che è stata di modello al mondo intero, non ha alternative, o sceglie di essere se stessa oppure precipita nel nulla. In quest’opera di rivisitazione e di ripensamento storico, dovremo liberarci dai complessi e dai ricatti che tre generazioni di europei asserviti agli interessi del dominio americano, hanno sistematicamente coltivato ed imposto: primo fra tutti, il senso di colpa per aver prodotto il comunismo, il fascismo e il nazismo, cose orrende e di esecrata memoria, dalle quali siamo stati liberati generosamente dai nobili americani, i quali, come è noto, le guerre non le fanno per sordide ragioni d’interesse materiale, ma unicamente per idealismo umanitario e democratico. Il che non significa rivalutare, in se stessi, il comunismo, il fascismo e il nazismo, ma, semmai, vedere quel che di valido, o quantomeno d’interessante e di potenzialmente utile e intelligente, c’era nel terreno da cui sono nate queste ideologie; e, più ancora, cercare una risposta ai problemi, agli interrogativi e alle necessità, autentici e non fittizi, cui si trovarono di fronte i popoli dell’Europa allorché l’ondata devastante della modernità, coi suoi micidiali meccanismi di spoliazione finanziaria e commerciale, li investì in misura sempre più forte, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo.

A questo proposito, può essere interessante rileggere quel che ha scritto Vito Errico, seguace di Beppe Niccolai, nella sua rievocazione delle figure del suo maestro e di Berto Ricci, nell’articolo (consultabile in rete) Beppe e Berto, la lezione di due "eretici":

Quello di Berto Ricci era un mondo in crisi di civiltà. Una crisi che attraversava la società in cui era scemato il senso del peccato e s’era ridotto al lumicino il concetto di Trascendenza. Come oggi. Beppe Niccolai, fra i pochi ad essere convinti della bontà di certe tesi, affermava che c’era bisogno di nuovi valori su cui basare la costruzione di un progetto prima culturale e poi politico. Egli li indicava questi valori:

La sacralità della vita, il ritorno al Sacro sul quale bisogna approfondire i discorsi perchè -diceva- «ho l’impressione che con tutti gli sforzi encomiabili che sta facendo, nemmeno Papa Wojtila pare che ce la faccia».

La Patria, che per Niccolai non andava assolutamente confusa con il concetto di sessanta. o settant’anni fa. La patria non è sopraffazione delle patrie altrui, ma è la difesa delle identità minacciate, la Patria è difendere le proprie differenze, cioè i centri storici, le cattedrali, lo stesso fiume, il mare, l’aria.

E non fu Berto Ricci a condannare il Vaticano costretto a «seminare di smorte lampadine elettriche le facciate delle Chiese del bel Rinascimento?»

Eresie d’allora, eresie d’oggi in cui si concepisce da qualche parte del nostro mondo la Nazione e la Patria come qualcosa che sta nell’Occidente. Anche da noi, purtroppo, ci sono gli ammiratori di Rambo, i mallevadori di Bush, coloro i quali si scambiano «amorosi sensi» con quel colonnello North dell’Irangate. In questo «nostro» mondo non s’è compreso il valore delle tesi sostenute da Edgardo Sulis in "Processo alla borghesia" e di Berto Ricci, che tuonavano contro il capitalismo, l’occidente, l’americanismo, anche allora molto in voga. Un anticapitalismo, un anti-occidentalismo, un anti-americanismo «di sinistra» che s’incrociava, con l’anticapitalismo e l’anti-americanismo «di destra» di Evola; autore di "Rivolta contro il mondo moderno". Quell’anti-americanismo che cresceva in Europa e che trovava i vessilliferi in Drieu La Rochelle, ma anche nella reazione cattolica di Bernanos, nell’anarchico «di destra» Jünger, nell’esistenzialismo di Heidegger, nel pensiero liberal-riformista di Ortega. E che, nel momento in cui l’Italia è scaduta a un ruolo di dominio americano, era condiviso da Beppe Niccolai che sosteneva che l’appiattirsi dell’Europa sull’America era un errore. La massificazione della vita italiana (e della vita europea) che si è avuta con il passaggio da una cultura all’altra è la fuga in occidente. Entrare nel protestantesimo americano ha significato lo sradicamento. Cioè siamo cambiati, siamo mutati, anche dal punto di vista antropologico. Non sappiamo più chi siamo. Questo trapasso nella fuga in Occidente è stato operato dal democratismo cristiano il quale, per avere la legittimazione dell’impero che ha vinto la 2ª guerra mondiale a poter governare il paese permanentemente, ha dovuto rendere, per esempio, il paese il meno cristiano d’Europa. Cioè scristianizzarlo e, in cambio, ha fatto passare questa cultura del protestantesimo che è cultura estranea alla vita degli italiani. Abbiamo avuto così una scuola senza educazione, perché la prima operazione che il potere ha fatto è stata quella di cancellare il concetto di patria.

Questa analisi può risultare sgradevole, ma è sostanzialmente condivisibile: così come a livello politico, anche a livello culturale l’Italia è stata tenuto sotto tutela da parte di forze moralmente segnate dalla disponibilità a tradire gli interessi della nazione in vista di vantaggi particolari, di partito, di classe, di schieramento internazionale. La cultura italiana non è stata sana perché non era nelle mani giuste: non era affidata ai migliori, ma ai più conformisti, ai più adulatori e ai più servi. Ora che nuovi equilibri mondiali si vanno ridisegnando, e che il popolo italiano sembra ridestarsi a una più matura e realistica coscienza di sé, di ciò che è nel suo interesse e di ciò che, invece, lo danneggia, si aprono scenari nuovi. Da parte nostra, riteniamo che la sola valida alternativa al putrescente modello americano, quello consumista e del capitalismo di rapina, non possa trovarsi che nel ritorno alla sua autentica tradizione spirituale: cattolica, apostolica e romana; e nessun’altra.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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