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È inutile cercare sull’atlante l’isola Caprona

È perfettamente inutile che andiate a prendere l’atlante per cercare dove sia ubicata l’isola Caprona, perché non la trovereste; infatti sia lei che il suo scopritore, il navigatore italiano del XVIII secolo Caproni, che la trovò nel 1721 e che la battezzò con il suo nome (volto al femminile), da qualche parte della zona più meridionale dell’Oceano Pacifico, non lontano dalle coste ghiacciate dell’Antartide, sono scaturiti dalla fervida fantasia dello scrittore americano Edgar Rice Burroughs (Chicago, 1875-Encino, Los Angeles, 1950), l’inventore di Tarzan, il re delle scimmie. L’isola, nota anche come isola Caspak, è il teatro di una trilogia formata dai romanzi The Land that Time Forgot (La terra dimenticata dal tempo), The People that Time Forgot (Il popolo dimenticato dal tempo) e Out of Time’s Abyss (Via dall’abisso del tempo), che apparvero rispettivamente nel settembre, ottobre e novembre del 1918, su rivista e poi, nel 1924, in volume.

Burroughs, durante il quinquennio 1914-1919, fu vittima di un periodo di cattiva salute e di una specie di esaurimento nervoso. Aveva perciò scritto un solo romanzo della serie di Tarzan, Tarzan and the Jewels of Ophar, più un altro, apparso a guerra finita, Tarzan the Untamed, nel quale si era letteralmente scatenato contro i tedeschi, rappresentati come barbari e cattivissimi, cosa che avrebbe prodotto un effetto disastroso presso il pubblico di quella nazione, quando il libro fu tradotto in Germania. A sua volta, Tarzan non aveva certo usato la mano leggera contro di loro: aveva gettato un certo maggiore Schneider in pasto a un ferocissimo leone, Numa; leone che, poi, aveva lanciato dentro una trincea tedesca dell’Africa Orientale, finendo i disgraziati difensori a raffiche di mitragliatrice. La sua antipatia per i tedeschi aveva trovato un ulteriore sfogo nel romanzo La terra dimenticata dal tempo, dove un sommergibile germanico affonda, nel Canale della Manica, la nave su cui viaggiano un americano, Bowen J. Tyler, e una donna di nome Lys La Rue. L’equipaggio viene salvato da un rimorchiatore inglese ma anche questo viene affondato dal sommergibile, l’U33, salvo riuscire a impadronirsi di quest’ultimo. I tedeschi, però (tutti sanno che razza di testoni siano e di quale fanatismo suicida siano capaci), sono riusciti a sabotare i comandi e il battello, fuori controllo e sempre più a corto di carburante, finisce nelle acque del Pacifico meridionale, dove viene avvistata una terra sconosciuta. Una corrente d’acqua dolce sembra l’indizio di un felice approdo; il sommergibile accosta e, percorrendo un canale sotterraneo, sbocca in una laguna interna circondata da una vegetazione tropicale, dove il tempo pare essersi fermato milioni di anni fa. Le sorgenti termali mitigano alquanto il clima, che è di tipo subtropicale, mentre l’isolamento dell’isola ha reso possibile la sopravivenza di una flora e di una fauna di tipo preistorico, con conifere gigantesche, felci arborescenti e rettili di grandi dimensioni. Vi sono anche degli esseri umani, appartenenti a due diverse popolazioni, l’una più evoluta, l’altra più selvaggia: a questo punto britannici e tedeschi, momentaneamente alleati, o almeno non belligeranti, si trovano a dover affrontare un mondo senza tempo, selvaggio, affascinante e pericoloso, dove l’impossibile diviene realtà e la fantasia dello scrittore ha modo di sbizzarrirsi a volontà. Il cinema, infatti — come del resto per la fortunatissima serie di Tarzan, il re della giungla — non tarderà a impadronirsi di questo ghiotto soggetto e dedicherà alcuni film di successo alla trilogia dell’isola remota, che il tempo si è dimenticato di prendere con sé.

Nel fornire a Burroughs il soggetto della sua trilogia, che inizia col ritrovamento di un manoscritto in una bottiglia nel Canale di Danimarca, come nel più classico stile dei romanzi d’avventura marinaresca, possono aver concorso sia il Gordon Pym di Poe, almeno per l’ambientazione antartica e per l’espediente climatico che rende abitabile l’isola sconosciuta, sia L’isola misteriosa di Verne, con il suo sommergibile Nautilus, del capitano Nemo, sia, soprattutto, Il mondo perduto di Sir Arthur Conan Doyle — l’inventore di Sherlock Holmes -, che, pubblicato nel 1912, era il più vicino nel tempo e quello che più direttamente può avergli suggerito lo spunto per la sua vicenda; quanto all’isola Caprona, femminilizzazione di Caproni, chi ignora che i mari del mondo, da Cristoforo Colombo ad Alessandro Malaspina, sono stati battuti a palmo a palmo da navigatori italiani? E, similmente, chi ignora che i soldati tedeschi, nel poor little Belgium, mozzavano le mani ai bambini, e quindi erano ben capaci, nelle loro colonie africane, di crocifiggere i civili prigionieri, dato che, da quelle parti, non dovevano nemmeno preoccuparsi troppo di quel che avrebbe detto la stampa internazionale, certi com’erano di farla franca, specie se alla fine avessero vinto la guerra? O, almeno, così credeva fermamente l’americano di media cultura — specie a partire dal 1917, quando gli Stati Uniti dichiararono guerra al Kaiser -, e Burroughs era, in tutto e per tutto, un americano di media cultura. Le sue conoscenze, le sue opinioni, i suoi pregiudizi erano, in tutto e per tutto, quelli dell’americano medio: i suoi romanzi, le sue improbabili avventure esotiche, i suoi eroi da fumetto — che, infatti, i fumetti avrebbero reso assai più famosi della pagina scritta — sono il prodotto di una tale cultura di massa, nel senso più preciso del termine. In essi non bisogna cercare la genialità dell’artista, l’ispirazione di un talento letterario superiore alla media: Burroughs è il prototipo dello scrittore che si rivolge al pubblico di massa e inonda le librerie, e soprattutto le edicole, con dei romanzi d’avventura indirizzati a un pubblico dal palato abbastanza grosso, ma dalla fantasia calda, anzi bollente. Un pubblico che non si cura di sottigliezze psicologiche e neppure della verosimiglianza geografica, storica o naturalistica. Che problema volete che ci sia a immaginare un’isola dove crescono ancora Sigillarie, Pteridofite gigantesche e Conifere primitive, che paiono uscite dalle tavole di qualche libro di geologia o di paleontologia, e dove, fra una quantità di Allosauri, Triceratopi e Diplodochi, vivono anche gli uomini di Neanderthal? Tutto questo, per i moderni amanti del genere fantasy, è normale, addirittura scontato; ma quando apparve la trilogia di Caspak (è questo il nome indigeno dell’isola Caprona) la cosa aveva il sapore di una novità, o quasi; e diciamo quasi perché, dopo il Viaggio al centro della terra di Verne, l’idea di un mondo preistorico fortunosamente sopravvissuto in qualche luogo remoto si era già affacciata, e così pure una serie di espedienti narrativi che Burroughs fedelmente (cioè con poca fantasia) riprende a sua volta, imperturbabile, compresa l’eruzione vulcanica che sconvolge il mondo perduto e, fra le altre cose, distrugge il sommergibile, imprigionando per sempre, o almeno così pare, i suoi eroi e la sua immancabile eroina, la giovane e affascinante Lys.

Perciò, non andate a cercare sull’atlante l’isola Caprona: è meglio che vi risparmiate la fatica, e anche la delusione. Tanto, ve lo dice Burroughs, dove dovrebbe trovarsi: all’altezza di Capo Horn, a qualche migliaio di chilometri spostata verso Ovest, cioè in direzione della Nuova Zelanda; più o meno dove qualcuno ha creduto vi fosse realmente un’isola, talmente ricca di foche da fare la ricchezza dei cacciatori, la fantomatica isola Dougherty, avvistata nel 1800 da un oscuro baleniere, ma che non è stata mai più ritrovata, benché molti l’abbiano ricercata (cfr. il nostro articolo: Inseguendo senza respiro la mitica Terra Australe, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/05/2007 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 31/12/2017). Ma non lambiccatevi troppo il cervello per immaginare cosa possa avere spinto l’inventore di Tarzan a collocare la "sua" isola favolosa proprio in quel tratto di mare: gli attribuireste dei pensieri troppo sofisticati e una cultura marinaresca troppo approfondita. La vera ragione deve essere stata semplice, come è semplice il modo di ragionare di un bambino che giochi a porre il dito sul modellino della sfera terrestre e poi la faccia girare, per vedere dove terminerà il "viaggio" quando si sarà fermata: la zona indicata del Pacifico australe è quella più lontana da qualsiasi terra (a parte il continente antartico), e dove il blu del mare regna incontrastato: quella, per intenderci, che i costruttori di mappamondi sfruttano per metterci il nome della propria ditta, senza creare interferenze con tutte le altre scritte relative alla descrizione dei luoghi terrestri. La fantasia di Burroughs è semplice, per non dire elementare; così come sono elementari i suoi eroi, le loro passioni, i loro pensieri (quando ne hanno), nonché le situazioni in cui si vengono a trovare e perfino i paesaggi che fanno da sfondo alle loro avventure. Abbiamo detto dei cattivissimi tedeschi e dei marinareschi italiani: esattamente quel che esisteva nella mappa concettuale dell’americano medio nei primi decenni del XX secolo. Come Tarzan, del resto, che è un eroe talmente elementare, da sfiorare la prevedibilità, se non avesse dalla sua un ben altro punto di forza, che non l’originalità letteraria: il fatto di evocare un elemento caratteristico dell’inconscio collettivo, specialmente nel contesto della civiltà moderna. Che cosa si può immaginare di più gradito, a un pubblico oppresso dai meccanismi alienanti della società di massa, che una facile evasione esotica, immedesimandosi in un eroe intrepido e muscoloso che vola da una liana all’altra, nel cuore della foresta africana, battendosi audacemente contro leoni, leopardi, gorilla, contrabbandieri e altri delinquenti a due zampe, sempre in nome di un elementare ma infallibile senso della giustizia offesa?

La letteratura di consumo, il cinema di consumo, i fumetti e la televisione hanno questo di buono, quando mettono in scena favole antiche o moderne, come quella di Tarzan, re della foresta, o come quella della Terra dimenticata dal tempo: che fanno sognare anche, e soprattutto, gli adulti, e risvegliano in loro, come avrebbe detto Giovanni Pascoli, il fanciullino che, nel corso degli anni, s’era addormentato, e del quale neppure ricordavano l’esistenza. E hanno questo, invece, di non buono, e talvolta di cattivo: che quando i sogni sono troppo "facili", cioè quando sono delle semplici deformazioni della realtà, di cui non offrono una interpretazione alternativa, e, se possibile, più bella e più gentile di quella della vita quotidiana, ma, al contrario, di cui danno una lettura più banale, più dura e più brutale, allora producono dei sogni cattivi, i quali non risvegliano affatto il fanciullino assopito nell’anima dell’adulto, bensì evocano degli oscuri fantasmi, delle torbide pulsioni di violenza, distruzione e morte. Take è la differenza fondamentale fra sogni buoni e cattivi; e, del resto, come è stato detto, l’albero si riconosce dai suoi frutti: perché l’albero buono non può dare frutti cattivi, né l’albero cattivo, frutti buoni. Quando Tarzan si batte contro terribili pericoli per sottrarre alla morte l’avvenente Bertha Kircher, che oltretutto egli crede essere una spia tedesca, e quindi è mosso dal puro sentimento di cavalleria (mentre solo alla fine scoprirà che la ragazza è una doppia spia e che, alla fine, ella serve i suoi connazionali inglesi), il sogno è buono, perché evoca nel pubblico sentimenti di generosità e perfino di romanticismo; ma quando il re delle scimmie getta il maggiore Schneider nella fossa del leone Numa, affinché sia divorato vivo (e sia pure per vendicare il supposto assassinio della dolce Jane Porter Clayton), il sogno è cattivo, perché il pubblico, immedesimandosi nel suo eroe, introietta anche i sentimenti crudeli e sanguinari e l’istinto omicida che sonnecchia, anch’esso, nelle pieghe più segrete dell’animo umano. Perciò lo scrittore, e con lui il fumettista, lo sceneggiatore televisivo, il regista cinematografico, dispongono di un amplissimo potere: quello di evocare l’angelo o il demonio che sono compagni inseparabili della condizione umana. Scordarsi che esistono tali presenze, e che è nostra facoltà permettere loro di uscire allo scoperto e dominare i nostri pensieri e i nostri sentimenti, è uno degli aspetti della tipica inconsapevolezza dell’uomo moderno, il quale, avendo imparato tante cose sul piano scientifico e tecnico, ne ha dimenticate alcune di essenziali sul piano spirituale e morale. Non posso credere che un libro sia buono, se non rende buoni anche i suoi lettori, diceva un grande scrittore dell’Ottocento; e aveva ragione.

Si potrebbe avanzare una domanda ancora più radicale e chiedere se davvero la società abbia bisogno di sognare, indipendentemente dal contenuto dei sogni, buono o cattivo che sia. Dopotutto, non sappiamo che i sogni allontanano dalla vita vera, come è accaduto al povero Don Chisciotte della Mancia, il primo, vero, caratteristico eroe moderno? Sembrerebbe una domanda del tutto ragionevole, ma essa nasconde un’insidia, perché pone sul piano dell’utilitarismo una funzione essenziale della natura umana. Sognare è necessario, perché, senza sogni, la vita umana non è più degna di essere vissuta: a patto, s’intende, che siano sogni belli e gentili, che arricchiscono l’anima e la proiettano verso l’alto. Perciò non ha senso domandarsi se ci sia bisogno di sognare: sarebbe come chiedere se ci sia bisogno di vivere. Infatti, possiamo notare che un cupo istinto di morte si è introdotto nella civiltà moderna, da quando gli uomini hanno perso il gusto di sognare. Forse anche gli aspetti più evidenti della nostra crisi attuale — il crollo della natalità, per esempio — sono collegati a questo fenomeno: il rifiuto del sognare e un guardare alla vita con eccessivo realismo, con un utilitarismo crudo e rozzamente materiale. Bisognerebbe ricominciare a coltivare la bellezza della fantasia innanzitutto fra i bambini: i bambini che non giocano più (perché gingillarsi col telefonino non è certo giocare) sono futuri adulti disamorati della vita. Per amare la vita e credere nel futuro, bisogna saper sognare. Perciò non serve cercar l’isola Caprona sull’atlante: essa vive dentro di noi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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