
Torneranno a suonare le campane di Hochwald?
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Ma sono normali, gli alpinisti tedeschi?
2 Giugno 2018Da molto, da troppo tempo ci troviamo nella terra di nessuno: la terra del mondo post cristiano, sul quale tuttavia la modernità non è riuscita a scrivere, come avrebbe voluto, la parola fine. La civiltà moderna è rimasta, sostanzialmente, un progetto non realizzato; ormai, solo i più sprovveduti tra i suoi fautori ci credono ancora; la maggior parte degli uomini è resa conto che si trattava di promesse irrealistiche e irrealizzabili, a cominciare dalla promessa numero uno: la crescita. Una crescita illimitata: figuriamoci! Ogni generazione avrebbe avuto di più, quantitativamente e qualitativamente, di quel che avevano avuto le generazioni precedenti: ma quando mai? Sono concetti che vanno contro la logica e contro il buon senso; non parliamo poi della morale. In un pianeta dalle risorse limitate, realizzare una crescita senza limiti? Ma il petrolio finirà; le foreste finiranno; perfino l’ossigeno finirà (vedi il buco nello strato di ozono): eppure ci hanno detto e ripetuto che la crescita è la chiave di tutto; e ce lo ripetono perfino adesso, in tempi di crisi e di recessione, mentre le politiche di austerità ci massacrano e sottraggono incessantemente risorse alla spesa sociale. Eppure continuano imperterriti a parlare di ripresa e di crescita, come se "crescita" fosse una categoria metafisica, un dato salvifico e permanente della storia umana, anzi, della storia moderna; come se si potesse crescere sempre e guai a chi non cresce, perché solo crescendo si è felici, solo producendo sempre di più, consumando sempre di più, inquinando sempre di più… Una narrazione mitologica che viene spacciata come perfettamente realistica, addirittura scientifica; e se qualcuno avanza dei dubbi, viene immediatamente bollato come reazionario, come uccello del malaugurio, come sovversivo che complotta per la rovina del genere umano e per l’infelicità dell’universo mondo.
La modernità, dunque, ha fallito: lo vedono tutti, o almeno quelli che hanno occhi per vedere. Nessuna delle sue promesse si è realizzata; e anche quelle poche che si sono realizzate, ad esempio una vita più comoda, sono state vanificate da pesantissimi contraccolpi negativi. A che serve viaggiare a bordo di un’automobile sempre più comoda, se il traffico ti intrappola in una colonna lunga chilometri e chilometri, o se l’auto stessa è soggetta a inconvenienti sempre più frequenti, dovuti proprio al suo alto livello di sofisticata tecnologia? Ma ha fallito soprattutto nelle grandi promesse: cioè che la scienza, la tecnica, la ragione, avrebbero portato un progresso sempre maggiore, un benessere sempre più diffuso, una pace sempre più solida. Veramente, lei stessa se l’era rimangiate quasi tutte, strada facendo; seguitava a ripeterle solo per abitudine e per conformismo; e anche perché non si vedeva null’altro su cui si potesse puntare o fare assegnamento. Così, la modernità si è trasformata da utopia in incubo, e da speranza in binario obbligato, lungo il quale si procede solo per assenza di alternative, peraltro senza sapere neppure quale sarà la prossima stazione, non diciamo la meta finale. Se la spinta propulsiva del cristianesimo ha incominciato ad esaurirsi dopo un millennio e mezzo, quella della modernità ha mostrato tutte le sue crepe nell’arco di neppure due secoli. Sin dalla fine del XIX secolo le due forze erano ancora in equilibrio, almeno in Europa: entrambe a corto di fiato, ma senza che nessuna delle due fosse riuscita ad eliminare, o a minacciare mortalmente, l’altra. Il materialismo mostrava tutti i suoi limiti, ma lo spiritualismo non soddisfaceva più: si era entrati nella terra di nessuno. In quella terra di nessuno siamo fermi e bloccata tuttora. Il cristianesimo si è in gran parte dissolto, come forza viva e operante, quanto meno nell’Europa occidentale: il referendum irlandese a favore dell’aborto, il 26 maggio 2018, ha posto la pietra tombale su di esso. Ma la modernità non è stata in grado di avvantaggiarsi della dissoluzione del cristianesimo: anche se le attuali élite intellettuali si sono formate nel suo clima caratteristico: scientismo, tecnicismo, specialismo, efficientismo, utilitarismo, la gran maggioranza delle persone comuni ne è rimasta delusa da gran tempo e se ne è allontanata, senza tuttavia sapere dove dirigere i suoi passi. Vaga a casaccio nella terra di nessuno, appunto.
Un finissimo osservatore di queste dinamiche, Gilbert K. Chesterton, ave a colto il momento esatto in cui le due forze si erano trovate in equilibrio: il 1880, almeno nella sua Inghilterra, cioè in piena stagione vittoriana. Bisognerebbe differenziare il discorso per ciascun Paese europeo e, soprattutto, soffermare di più l’attenzione sulle società dell’Europa centro-orientali, nelle quali il tramonto del cristianesimo è tutt’altro che un fatto definitivo, anzi, dopo il crollo del comunismo si è assistita a una vera e propria rinascita del sentimento religioso. Privata per due o tre generazioni dei preti e delle chiese, del Sacramenti e della Parola di Dio, la gente torna adesso a riempire le chiese e a manifestare l’intensità del sentimento religioso che non era mia venuto meno del tutto. Un discorso a parte andrebbe poi fatto per gli Stati Uniti, ove la modernità ha raggiunto le sue punte più avanzate e pervasive, e per gli altri Pesi occidentali non europei; quanto alle società non occidentali, in esse la modernità è entrata solo superficialmente, nelle forme esteriori, mentre il cristianesimo non vi è arrivato affatto, o in misura limitata: per cui non bisognerebbe aver fretta di estendere a livello mondiale l’analisi che si tende a fare per le nostre società. Nei Paesi islamici, ad esempio, la modernità e la religione non sono in equilibrio, ma la prima è pienamente subordinata alla seconda, o accolta solo nella misura strettamente compatibile con essa. Un discorso diverso ancora andrebbe fatto per l’Asia orientale, per la Cina, il Giappone e le Coree; per non parlare del Pacifico, dell’Africa sub sahariana e dell’America Latina.
Scriveva, dunque, Chesterton nel suo saggio L’età vittoriana nella letteratura (titolo originale: The Victorian Age in Literature, 1913; traduzione dall’inglese di Aldo Camerino, Milano, Bompiani, 1945, pp. 108-109; 112-113;129):
Venne un momento, pressappoco verso il 1880, nel quale i due grandi entusiasmi positivi dell’Europa occidentale, si esaurirono reciprocamente: il Cristianesimo e la Rivoluzione francese. Circa a quel temo andava in giro uno scherzo triste e non privo di simpatia, il quale diceva che la regina Vittoria avrebbe potuto benissimo vivere più a lungo del principe di Galles. Similmente, sebbene l’impulso repubblicano avesse appena cent’anni e l’impulso religioso quasi duemila, per quel che riguarda l’Inghilterra l’antica ondata e la nuova sembrarono spegnersi contemporaneamente. Da una parte il Darwin, specialmente per mezzo del grande ingegno di giornalista del Huxley, aveva ottenuto una vittoria la quale, sebbene straordinariamente vaga, diffuse dovunque le sue idee. Non intendo dire che la dottrina stessa del Darwin fosse vaga; la sua fu soltanto un’ipotesi particolare sul come la varietà animale potesse esser sorta; e quest’ipotesi particolare, pur se sarà sempre interessante, è ora tutt’altro che sicura. Ma soltanto nel mondo della scienza propriamente detta e tra i veri scienziato la particolareggiata teoria del Darwin è in gran parte caduta. Il pubblico ebbe ben presto l’impressione che egli avesse dimostrato la sua teoria, quale questa si fosse; ed ha tuttora questa impressione, la quale fu ed è vagamente associata alla negazione della religione. Ma (e questo è il punto importante) era anche associata alla negazione della democrazia. La stessa stupidità dell’età vittoriana di mezzo, la quale fece credere alla gente che "evoluzione" volesse dire che non abbiamo bisogno di ammettere la supremazia di Dio, le fece anche credere che "sopravvivenza" volesse dire che dobbiamo ammettere la supremazia degli uomini. Il Huxley non ebbe colpa alcuna nel diffondersi di questi errori; era un buon lottatore; e disse nel modo più energico, ai suoi seguaci i quali parlavano così, di non fare gli sciocchi. Egli disse assai chiaramente che la sua teoria dell’evoluzione, e qualsiasi altra, lasciavano gli antichi argomenti filosofici a favore di un creatore esattamente dov’erano prima. Disse anche nel modo più energico che chiunque si servisse del’argomento natura contro l’ideale di giustizia o contro una legge equa, era assurdo quanto un giardiniere il quale combattesse a favore delle erbacce semplicemente perché crescono in fretta. […]
Il coincidere della caduta dell’idealismo religioso e di quello politico produsse una strana atmosfera fredda di vuoto e di vero agnosticismo subcosciente, quale si vede assai di rado nella storia dell’umanità. è quella della quale il Wells, con l’abituale delicatezza e precisione verbale, parlò come di quel silenzio ironico che segue una grande controversia. è quello che gente meno intelligente del Wells intendeva dire chiamandosi "fin de siècle"; sebbene, s’intende, razionalmente parlando, non ci sia maggior ragione d’esser tristi verso la fine di cent’anni che verso la fine di cinquecento quindicine. Non si trattava di un autunno aritmetico, ma di un autunno spirituale. E proveniva dal fatto al quale s’è accennato più sopra: dalla sensazione che le due grandi ispirazioni dell’uomo gli erano venute a mancar e insieme. La religione cristiana era assai più morta nel secolo decimottavo che nel secolo decimonono. Ma l’entusiasmo repubblicano era pur esso assai più vivo. Se il loro scetticismo era freddo, e la loro fede ancor più fredda, la loro politica pratica era straordinariamente idealistica; e se dubitavano del regno dei cieli, erano stupendamente creduli quando si trattava della probabilità della sua venuta sulla terra. Così l’antico sentimento repubblicano e pagano era assai più morto nelle tenebre feudali del secolo undecimo o del dodicesimo di quanto non lo fosse anche un secolo più tardi; ma se la politica creativa si trovava al suo punto più basso, la teologia creativa si trovava quasi al punto più alto della sua energia.
Il mondo moderno, di fatto, era caduta tra due sgabelli e non sapeva quale scegliere. Era caduto tra quell’austero e antico sgabello a tre gambe che fu il tripode della fredda sacerdotessa d’Apollo; e l’altro sgabello mistico e medievale che ben si può chiamare lo Sgabello della Penitenza. Non attribuiva gran valore a nessuno dei due. Non sapeva credere nei vincoli che legano gli uomini; ma non sapeva nemmeno credere negli uomini ch’essi legano. Era sempre frenato nel suo odio della schiavitù da un vago ricordo del suo odio ancor più grande per la libertà. I vittoriani furono quasi i soli, mi pare, a portare all’estremo l’atteggiamento negativo già osservato in Miss Arabella Allen [personaggio de "Il circolo Pickwick" di Charles Dickens, nota nostra]. Anselmo [Anselmo d’Aosta? o di Nonantola? non è chiaro] avrebbe disprezzato una corona civica, ma non avrebbe disprezzato una reliquia. Il Voltaire avrebbe disprezzato una reliquia, ma non avrebbe disprezzato un voto. Per veder disprezzati l’una e l’altro, dobbiamo arrivare ai tempi di Oscar Wilde.
Gli anni che seguirono a quella doppia delusione furon come un lungo pomeriggio piovoso in una gran casa. Non soltanto tutti credevano che nulla sarebbe accaduto; ma per di più tutti credevano che qualunque cosa potesse accadere sarebbe stata ancor più uggiosa. […]
Non mi permetterò, neppure per un istante, di profetare quello che sarà il futuro di una così distinta quasi segreta avventura degli inglesi. L’età vittoriana commise uno o due errori, ma furono errori veramente utili; vale a dire, errori che erano veri errori. Credettero che il commercio estero di un paese dovesse portare la pace: ed è certo che spesso ha portato la guerra. Credettero che il commercio all’interno di un paese dovesse certamente accrescerne la prosperità; e ne ha abbondantemente accresciuto la povertà. Ma per essi questi furono esperimenti; per noi dovrebbero essere insegnamenti. Se continueremo a trattare il popolo come sogliono i capitalisti – se continueremo a servirci delle armi fuori del nostro paese secondo l’uso capitalista, il nostro modo d’agire graverà assai sulla coscienza dei viventi. Il disonore non sarà per i morti.
Parole straordinariamente acute e profetiche, se si pensa che furono scritte pochi mesi innanzi lo scoppio della Prima guerra mondiale; e che oggi acquistano un significato ancor più veridico e pregnante, visti gli sviluppi dell’economia e soprattutto della finanza, che ormai ha steso la sua ragnatela su ogni cosa e dalla quale dipendono la vita, il lavoro, i risparmi, la salute e il futuro di miliardi di esseri umani, senza praticamente possibilità di rovesciare tale stato di cose e mettere in discussione il totalitarismo finanziario, malamente camuffato da democrazia liberale. L’Inghilterra vittoriana fu un laboratorio e le tendenze letterarie di quel periodo, fra Dickens, Stevenson, Shaw e Kipling, possono anche essere lette come un prisma in cui si riflette un processo di portata molto più vasta, non solo inglese e non solo letterario, ma che coinvolge le dinamiche fondamentali dell’intera civiltà moderna, in Europa e, per via riflessa, fuori d’Europa. E il vuoto spirituale "fra due sgabelli" di cui parla Chesterton, così come il "silenzio ironico" che succede a una controversia, di cui parla Wells, non hanno trovato eco, né risposta: siamo ancora fermi allo stesso punto, con un sentimento religioso morente, ma non morto, semmai in via di contaminazione con gli elementi più tipici della modernità; e con una civiltà del progresso illimitato che ha smesso di essere attrattiva, anzi, è diventata, per molti aspetti, repulsiva, e tuttavia non si decide a confessare il proprio errore e a togliersi di mezzo, semplicemente perché la gente non saprebbe con che cosa rimpiazzarla, e soprattutto perché non è disposta a rinunciare a quelle misere briciole di apparente benessere e d’illusoria comodità che essa ha recato loro, senza considerare quanto pesantemente esse sono state pagate in termini di nuovi problemi, nuove angosce e nuovi dolori. Gli uomini d’oggi non sono disposti, per la grandissima maggioranza, a rinunciare alla televisione, pur avendo constatato che essa è funzionale al loro abbrutimento collettivo, né alle banche, pur avendo visto che esse non servono a tutelare i loro risparmi, ma ad appropriarsene, né all’uso indiscriminato dell’automobile privata, pur sperimentando gli inconvenienti sempre più gravi in fatto di intasamento del traffico, inquinamento, stress e disturbi fisici e psichici dovuti alla sedentarietà. Per la stessa ragione, non osano mettere apertamente in discussione l’evoluzionismo, o la psicanalisi, o il marxismo ed il suo trionfante epigono, il catto-comunismo, perché ciascuna di queste "scuole" si è (malamente o abusivamente) guadagnata una patina di autorevolezza, e la gente non saprebbe che fare o che cosa pensare se dovesse gettarle via, come si fa con la zavorra a bordo di un’aeronave. Lo spirito della modernità è penetrato così a fondo nelle coscienze, da averle inquinate con l’idea che il reale è immensamente complesso, e che quindi, per barcamenarsi in un mondo tanto complesso, sarebbe imprudente sbarazzarsi di tutto quell’armamentario, ideologico e pratico, del quale potremmo aver bisogno in caso di bisogno. E non vogliamo renderci conto che la grande truffa della modernità consiste proprio in questo: nel caricarci di ansie infinite per poterci poi "vendere", nel senso più preciso della parola, le relative terapie, o, per esprimersi con maggiore esattezza, i relativi palliativi: giacché la cultura moderna è il prodotto di una regia la quale a tutto è interessata, tranne che ad aiutare l’uomo a ritrovare il proprio equilibrio, a risolvere le sue contraddizioni e a star bene con se stesso. Abbiamo anzi detto in più occasioni, e lo ripetiamo ora perché non abbiamo paura delle parole, che la civiltà moderna è, alla lettera, la figlia del diavolo: chi più del diavolo, infatti, è interessato a tenere gli uomini prigionieri di questo circolo vizioso di ansia, disperazione, desiderio di fuga, e risposte parziali, contraddittorie e regressive, nessuna delle quali lo farà stare meglio per davvero, ma, nel migliore dei caso, gli darà un parziale sollievo in un certo ambito della vita, per accrescere il suo malessere, simultaneamente, in un altro?
Eppure, a più di un secolo di distanza dalla lucida diagnosi di G. K. Chesterton, almeno un dubbio avrebbe dovuto sfiorarci: che qualcosa ci trattiene artificialmente nella terra di nessuno, e che qualcuno non è affatto interessato a che noi riusciamo ad evaderne, ma, al contrario, desidera che vi restiamo intrappolati per sempre, onde poterci meglio dominare, manipolare e strumentalizzare, fino al’abiezione e all’asservimento più completi. Come non vedere, infatti, dopo un arco di tempo così lungo, che i nostri medici curano, ma non guariscono; che i nostri psicologi analizzano, ma non fanno star meglio; che i nostri pedagogisti teorizzano, ma non insegnano; che i nostri filosofi speculano, ma non giungono ad alcun punto fermo; così come i nostri giornalisti ci danno notizie, ma non c’informano; i nostri tecnici ci offrono prodotti sempre più sofisticati, ma non alleviano il peso del nostro vivere; i nostri economisti predicano la crescita, ma non ce la offrono mai a portata di mano, bensì come un inafferrabile miraggio; e i nostri politici promettono pace, lavoro e giustizia, ma si limitano a gestire conflitti, disoccupazione e ingiustizie sempre crescenti e sempre più diffusi. Il tutto mentre l’arte produce opere sempre più brutte, la scienza se ne va per una sua strada sempre più incomprensibile e inquietante, e la teologia è arrivata al nadir della sua lunga parabola, rovesciando i termini del suo oggetto e divinizzando l’uomo, mentre umanizza Dio, e così toglie ai fedeli anche l’ultima speranza in un mondo dove il bene, la verità e la giustizia sono sottratte all’incostanza e alla parzialità degli uomini, perché sono garantite, perenni e perfette, dal sapiente e luminoso amore di Dio.
Fino a quando, dunque, vorremo rimanere intrappolati e paralizzati in questa terra di nessuno, popolata di fantasmi e di incubi amari, quando potremmo fare come il figlio prodigo: tornare in noi stessi, riprendere la strada di casa e confessare apertamente: Padre, abbiamo peccato contro il Cielo e contro di te; non siamo più degni di essere chiamati tuoi figli; e poi pregarlo: ma Tu di’ soltanto una parola, e noi saremo salvi.
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