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Tornare a riveder le stelle
3 Giugno 2018Può sembrare una domanda a dir poco bizzarra, e in effetti lo è: sono normali, gli alpinisti tedeschi? Ma ancora più stravagante sarebbe una risposta recisamente affermativa: no, gli alpinisti tedeschi non sono affatto normali, ma anormali. Ebbene, questa è una delle perle che si possono leggere in una delle più apprezzate e diffuse storie dell’alpinismo, quella scritta da Claire-Eliane Engel (nata a Orano il 23 novembre 1903 e morta a Parigi il 23 aprile 1976), una saggista che è considerata fra i migliori specialisti di storia dell’alpinismo. Diplomatasi in anglistica alla Sorbona nel 1925, nel 1931 sostenne la tesi di dottorato con Paul Hazard, intitolata: La littérature alpestre en France et en Angleterre au [xviii]{.smallcaps}^e^ et au [xix]{.smallcaps}^e^ siècle. La sua fortunatissima Storia dell’alpinismo (titolo originale A History of Mountaineering in the Alps, London, Allen & Unwin, 1950) è, in effetti, una sorta di lungo preambolo al capitolo dedicato alla letteratura sulle imprese alpinistiche. Vorrebbe essere una storia imparziale, ma è, di fatto, una storia delle spedizioni britanniche e francesi, il cui scopo è quello di far capire agli inglesi che essi non hanno il monopolio nell’esplorazione e nella scalata delle Alpi, perché i francesi sono sempre stati, quanto meno, dei "brillanti secondi". Per gli altri — svizzeri, tedeschi, austriaci e italiani — non restano che le briciole; e, come se non bastasse, per tutto il periodo fra le due guerre, su di essi incombe la scura nube dei totalitarismi, per cui le loro imprese alpinistiche sono presentate come avventuristiche, megalomani, sconsiderate, folli e, qualche volta, criminali: tutto per colpa del fascismo e del nazismo.
Un ulteriore difetto è che la Engel pretende di fare le pulci a tutti, e rimarca in continuazione l’inadeguatezza di quegli scrittori che hanno parlato delle Alpi senza "conoscerle", cioè senza essere stati dei veri e propri scalatori. Secondo lei, solo chi sa arrampicare in montagna e solo chi lo ha fatto, concretamente, sulle vette delle Alpi (delle Alpi occidentali, beninteso, o al massimo delle Centrali: di quelle Orientali non parla, tranne qualche cenno alle Dolomiti, come non degne della sua attenzione, evidentemente perché troppo basse e troppo "facili"), può parlare a ragion veduta e quindi scrivere dei libri sull’argomento. Poi si chiede, chi sa come, per quale ragione la storia delle ascensioni alpine ha prodotto così poche opere letterarie veramente notevoli: non la sfiora il sospetto di aver posto l’asticella talmente in alto, che nessun candidato potrebbe mai aspirare alla palma della vittoria. Ora, siccome il suo libro viene considerato, in Europa e nel mondo, una vera e propria autorità in materia, ci pare giusto sottoporlo alla stessa medicina che la sua autrice somministra continuamente agli altri. Un solo esempio. A proposito di Guido Rey (1861-1935), uno scalatore che critica pesantemente, come scrittore, per i suoi eccessivi voli poetici (che volete farci, questi meridionali sono così emotivi), afferma che egli scalò la Parete Nord della Bessanese, un orribile muro di roccia marcia. Angelo Elli osserva in proposito: Si ha l’impressione che la raffinata analisi intellettuale degli uomini e del loro pensiero non sia affiancata da una sufficiente conoscenza delle montagne, cioè dell’altro elemento fondamentale per una corretta interpretazione dell’alpinismo. Un trattamento ben più severo ella riserva all’austriaco Eugen Guido Lammer (1863-1945), il cui libro definisce il delirio metodico di un pazzo e suscita in chi lo legge un’impressione penosa. Sarà, ma questa è la sua impressione: lei, però, non esita a presentarla come una verità oggettiva talmente assodata, da non aver bisogno di ulteriore giustificazione. A questa estrema soggettività dei giudizi, si aggiunge il difetto, già accennato, del nazionalismo: proprio lei che si scaglia, a parole, contro questo orribile vizio, sia negli alpinisti, sia in coloro i quali ne scrivono la storia.
Ecco cosa scrive a proposito delle spedizioni tedesche, austriache e italiane degli anni Trenta del Novecento (Storia dell’alpinismo, cit.; traduzione dall’inglese, Torino, Einaudi, 1965, e Milano, Mondadori, 1968, con una appendice di oltre 100 pagine sull’alpinismo italiano: scelta discutibile, resa necessaria dai pesanti pregiudizi nazionalistici dell’autrice: pp. 244-46; 249-50):
L’ultima strada aperta sul Cervino ha raggiunto, si può dire, il culmine della pazzia. Nel 1941 una cordata italiana, Alberto Deffeyes, Amilcare Crétier e Leonardo Carrel, partendo dalla Spalla svizzera, ha raggiunto la cima facendo il giro delle quattro pareti, a cominciare da quella est. Naturalmente, su un itinerario del genere, la pioggia di sassi è, si può dire, incessante.
Imprese del genere meritano il nome di perversioni. Tedeschi e italiani, pur compiendo prodezze analoghe, avevano teorie lievemente diverse. I tedeschi applicavamo alle montagne l’ideale nazional-socialista. Nella disperazione di trovarsi faccia a faccia con la morte, essi hanno sempre provato una specie di ebbrezza. Le montagne, che di solito ispirano idee di vita e di azione, fanno nascere in loro idee di terrore, un terrore che essi fanno il possibile per rendere ancora più allucinante. Un giovane bavarese che doveva morire sulla parete nord del Morgenhorn, diceva a un amico svizzero, pochi giorni prima della sciagura: "Noi tedeschi non abbiamo più nulla da perdere". Alla vigilia di una grande scalata, essi entravano in uno stato di nervosismo frenetico, chiamando in casa il loro ideale e tutti i loro eroi nazionali, a cominciare da Hitler. Il terrore può essere un liquore inebriante, ed essi lo bevevamo fino alla feccia, Un’altra specie di esaltazione nasceva dalla loro idea di cameratismo alpino. I libri tedeschi fanno un uso quasi morboso di tutte le interpretazioni possibili della parola "Bergkameraden". Molti scrittori tedeschi hanno paragonato l’alpinismo alla guerra; secondo loro, i pericoli, le prove, la gloria e l’amicizia soni identici in montagna e sul campo di battaglia. Se si giudicano i tedeschi in base al loro atteggiamento in montagna, la loro condotta durante la guerra non può certo meravigliare.
L’Italia adotta rapidamente la tecnica e le idee tedesche, che si adattano alla perfezione alle dottrine fasciste. A un certo momento il Club alpino viene ribattezzato Centro alpinistico italiano, perché la prima denominazione era troppo inglese. Dopo un incidente mortale a una corata italiana, la "Rivista mensile" scrive, con accenti grandiosi:
"Un alpinista è caduto, Domani ne sorgeranno cento altri. I giovani coprano di stelle alpine il camerata caduto e lo stendano con tremante emozione sotto la dolce terra, il viso levato verso l’alto. Poi, una volta ancora, partano all’assalto delle rocce e delle cime, per commemorare colui che non è più con le vittorie più alte e più difficili".
"La medaglia ‘Pro Valore’, la massima distinzione che il Dice accorda agli atleti d’eccezione che battono primati mondiali o a coloro che trionfano nelle competizioni internazionali, sarà assegnata agli alpinisti che porteranno a termine prime ascensioni di sesto grado." […]
Ne 1938 una nuova cordata austro-tedesca tornò all’assalto [della Parete Nord dell’Eiger], in uno stato d’animo che può definirsi caratteristico. I due tedeschi — Heckmair e Vörg — incontrarono inaspettatamente i loro "rivali" (è questo il termine che essi adoperano) dopo aver fatto l’impossibile per tenere nascosto il loro arrivo a Grindelwald. Probabilmente nemmeno i due austriaci, Harrer e Kasparek, furono entusiasti della presenza degli altri, ma ormai non c’era scelta. Heckmair scrisse poi: "Noi, figli del vecchio Reich, uniti ai nostri compagni dell’est, marciammo fino alla vittoria". Dopo il secondo bivacco, la marcia verso la vittoria si effettuò sotto la continua minaccia di uragani e di valanghe. Quasi non ebbero il tempo di mangiare; osservavano le cadute di neve fresca, ne determinavano la frequenza, poi, sfruttando gi intervalli che speravano regolari, si precipitavano avanti alla maggior velocità possibile. Dato che ormai erano molto in alto, la pioggia di sassi era meno frequente. Il terzo giorno si scatenò un furibondo temporale. Il freddo era tale che i loro vestiti fradici gelarono quasi subito, avvolgendoli in una armatura di ghiaccio. Raggiunsero finalmente la cima, alle quattro del pomeriggio, ma erano così spossati che potevano appena gustare la gioia della vittoria e trovarono a stento l’energia sufficiente per raccogliere le rimanenti forze e discendere per la via normale. Gioia e orgoglio vennero poi. Ebbero elogi più che meritati, e videro realizzarsi il desiderio di tutti quelli che erano venuti prima di loro ed erano morti: furono presentati a Hitler, che li complimentò calorosamente. Fu, questa, "la loro più bella ricompensa". Alpinisti normali avrebbero trovato la loro ricompensa nella stessa vittoria, ma gli alpinisti tedeschi non sono normali.
Potremmo citare altre perle, ma crediamo che basti. A quanto pare, per la signora Engel alpinismo, chi lo sa il perché, deve fare rima con democrazia; a lei sembra disdicevole che le vette alpine siano state scalate anche da scalatori provenienti da Paesi nei quali vigeva un regime totalitario. Tutto ciò è molto politically correct e spiega il successo editoriale del libro suddetto; anche se si potrebbe rovesciare il ragionamento e osservare che libri del genere hanno successo in ragione della parte politica che ha vinto la Seconda guerra mondiale. Se le democrazie fossero risultate soccombenti, dubitiamo assai che la Storia dell’alpinismo (scritta in inglese per il pubblico inglese!) avrebbe mietuto un così caloroso successo, negli anni ’50 e ’60 del Novecento. Ella si compiace di dettagli come la premiazione degli alpinisti tedeschi da parte di Hitler in persona, ma il suo atteggiamento non può essere definito che fazioso: Hitler era il capo del governo tedesco esistente in quel momento, e, se a premiare gli scalatori non fosse stato lui, sarebbe stato un altro; né ci risulta che faccia scandalo il fatto che un valoroso alpinista venga premiato da un capo di governo democratico, quale riconoscimento per l’alto valore delle sue imprese (dopotutto, Jesse Owens fu premiato dai nazisti, a Berlino, nel 1936; e Hitler, contrariamente a quel che racconta la vulgata odierna, ebbe verso di lui un contegno più che corretto). È la signora Engel che vuole ficcare la politica a ogni costo nella sua narrazione, e ciò per sostenere una tesi preconcetta: che l’alpinismo tedesco si ispirava al nazismo, e quello italiano al fascismo. Tesi che può contenere un nocciolo di verità, ma che ella amplia a dismisura e assolutizza, al solo scopo di far risaltare con maggiore evidenza lo stacco fra i Paesi democratici, coi loro sportivi umani e ragionevoli, dotati di molta compostezza e spirito da veri gentlemen, e gli alpinisti "nazisti" e "fascisti", che spingono la loro audacia fino ai limiti della perversione e, come dice in un’altra pagina (p. 257), quasi al delitto.
Abbiamo il sospetto, peraltro, che il vero problema, per la signora Engel, non sia nemmeno il fascismo, o non solo quello, ma proprio la nazionalità degli alpinisti. Infatti, lo spazio che dedica agli alpinisti italiani prima e dopo il fascismo (che fu al potere per una ventina d’anni), e a quelli tedeschi e austriaci prima e dopo il nazismo (che fu al potere in Germania per meno di dodici anni, in Austria per meno di sette) è talmente modesto, da far pensare che il loro ruolo, nella esplorazione e nella conquista delle Alpi, sia stato del tutto secondario. In effetti, ella tratta la questione come un duopolio anglo-francese: vuol convincere gli amici inglesi che anche i suoi connazionali, i francesi, hanno dei meriti; i suoi intenti non vanno molto al di là di questo. E il suo atteggiamento è così "naturale", così spontaneo, e così pieno di garbo, che ella si meraviglierebbe alquanto se qualcuno le facesse notare che è stata ingiusta con gli alpinisti di nazionalità diversa da quella inglese e da quella francese. Nel suo modo di porre le questioni si riflette l’imperialismo "tranquillo", perché sazio e soddisfatto, delle due più antiche nazioni imperiali, la Gran Bretagna e la Francia, che si erano sparite il mondo già al tempo della Rivoluzione industriale, e che alle altre nazioni, giunte in ritardo, lasciarono solo le briciole. È lo stesso atteggiamento per cui l’opinione pubblica inglese e quella francese furono implacabili contro l’Italia al tempo della guerra d’Etiopia, nel 1935, perché trovavano intollerabile che l’Italia facesse quel che le loro nazioni avevano fatto, e in misura assai più ampia, e sovente con metodi più odiosi, molto tempo prima. Gli stessi militanti democratici che sfilavano per le vie di Londra e di Parigi per denunciare l’odiosa aggressione contro l’Etiopia, solo pochi decenni prima avevano festeggiato i trionfi coloniali nel Dahomey, nel Madagascar, nel Tonchino, in Cina e in India; e avevano festeggiato "la notte di Mafeking", al tempo della guerra anglo-boera, con grandi luminarie, per celebrare la vittoria su un piccolo popolo d’agricoltori europei, trapiantati in Sud Africa almeno due secoli prima degli inglesi, la cui unica colpa era di vivere in una terra dov’erano stati scoperti oro e diamanti che facevano gola alla regina Vittoria.
Non importa; anche così si fa la storia, in tempi di vulgata democratica. E queste osservazioni non le facciamo per esaltare i regimi allora in auge in Germania e in Italia, ma per far notare l’ipocrisia della cultura democratica, talmente radicata da esser l’equivalente di un vero e proprio totalitarismo. È necessario riconoscere queste dinamiche, non solo sui libri di storia, ma anche nelle relazioni politiche, economiche e culturali dei nostri giorni. Si può dire infatti, capovolgendo la frase di von Clausewitz, che la pace è la prosecuzione della guerra con altri mezzi; e che, di conseguenza, il vero vincitore è colui che s’impadronisce della narrazione che riuscirà ad imporsi su scala mondiale…
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