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Incontri che non si vorrebbero fare

Manzoni ci ha lasciato un ritratto indimenticabile di un vecchio malvissuto nel XIII capito de I promessi sposi, dove narra i tumulti per il pane di Milano e l’assalto della folla alla casa del vicario di provvisione: un orribile vecchio, dalla canizie vituperosa, che agita in mano il martello, una corda e dei chiodi, coi quali grida di voler crocifiggere il vicario ai battenti della porta. Ora, se facciamo astrazione  dalla circostanza specifica di quella situazione, e ci domandiamo chi sia, in generale, un vecchio malvissuto, arriviamo alla conclusione che non è, necessariamente, una persona violenta e assetata di sangue, ma è, in ogni caso, una persona che, oltre a non aver compreso il vero significato della propria vita, è anche di scandalo agli atri, e specialmente ai giovani, in qualsiasi maniera, con le sue parole, i suoi gesti e tutto il suo modo di fare. Non, ripetiamo, un modo di fare che sia necessariamente improntato all’aggressività e alla volontà di sopraffazione, né, come dice Manzoni, con due occhi affossati e infocati e un sogghigno di compiacenza diabolica. Può essere, anzi, un vecchio dall’aria persino bonaria, dal volto sorridente e dal modo di parlare pacato e in un certo qual modo accattivante. Ma si riconosce la sua vera natura di vecchio malvissuto dal fatto che tutto quel che dice, e il modo in cui lo dice, e tutto il suo modo di porsi, di ragionare, di comunicare le proprie impressioni, è totalmente, irrimediabilmente sfasato rispetto a ciò che egli dovrebbe essere, dovrebbe dire e dovrebbe fare; dal fatto che vi è un abisso tra la consapevolezza di sé che dovrebbe avere, del proprio ruolo, della propria funzione fra gli uomini, e la disinvoltura, la leggerezza, la superficialità con cui butta fuori le parole, lascia correre in libertà i suoi pensieri, come se non si fosse mai posto una sola volta, in tutta a sua vita, la questione della serietà a cui dobbiamo essere fedeli, della verità che in noi si esprime, per quanto umanamente fragili, nel momento in cui assumiamo un ruolo pubblico, grande o piccolo che sia, e specialmente se si tratta di un ruolo che ha a che fare con i bisogni e le aspettative di natura spirituale dei nostri simili. Non c’è niente di più brutto di un uomo, di un vecchio – perché la vecchiaia dovrebbe insegnare un po’ di saggezza, di prudenza e di capacità di riflessione – il quale, a chi da lui si aspetta di ricevere parole di conforto e di incoraggiamento d’ordine spirituale, sa snocciolare solo le solite litanie laiche sulla giustizia sociale, sul progresso e sui diritti civili; e, cosa ancor più brutta, assume le pose di chi si sente molto bravo e molto soddisfatto di sé, molto politicamente corretto e molto meritevole dei ricevere l’applauso della folla. Tristezza infinita, mortificazione inesprimibile: è come quando – per ricorrere a una metafora evangelica – un figlio che ha fame e domanda a suo padre del pane, si vede dare  da lui, invece del pane, una serpe o uno scorpione.

Ieri sera, per caso, ci siamo trovati per qualche minuto davanti alla televisione. Andava in onda un noto programma di attualità politica; il clima era molto emotivo, essendo trascorse solo poche ore dal gran rifiuto di Mattarella di sottoscrivere l’atto di nascita del governo Conte, a motivo della presenza, in esso, del ministro designato all’Economia, Savona. C’erano, o c’erano stati ed erano andati via da poco, ospiti molto noti, personaggi politici di prima grandezza. Noi, però, siamo stati colpiti da un personaggio che non si può neanche  definire secondario, bensì un perfetto sconosciuto, invitato a mo’ di campione della cosiddetta società civile, o forse perché amico di qualche personaggio di peso (di fatto, risultava che era un amico e un grande estimatore di un notissimo politico del Pd, poi fuoriuscito da quel partito, presente in sala). Ci ha colpito perché  era un prete e perché era anziano: due ragioni per pensare e sperare che, da lui, sarebbero uscite parole piene di buon senso, ma, sopratutto, parole di speranza, e non una speranza "laica" e generica, ma la speranza cristiana, che poggia sulla roccia del Vangelo e che ha come meta lo splendore del Regno di Dio. Ma siamo rimasti penosamente delusi dopo due secondi che quel sacerdote ha iniziato a parlare. Ha esordito, infatti, qualificandosi come un prete di sinistra. Un prete di sinistra? Ce roba è? Un prete non dovrebbe essere semplicemente un prete, cioè un uomo di Dio? Un prete di sinistra è due volte infedele all’abito che porta, perché si gloria di far politica e perché  fa politica militando in una parte, e schierandosi contro l’altra parte. E se io, che sono di destra, avessi bisogno di rivolgermi a lui per ricevere una parola di conforto spirituale, verrò scacciato perché le mie idee politiche non gli vanno a genio? Mi tratterà con disprezzo perché non appartengo alla sua consorteria? È curiosa, la psicologia di codesti preti di sinistra: hanno perfino inventato l’undicesimo comandamento, non creare divisioni, del quale, nella Bibbia, non vi è traccia; e, per osservarlo con il massimo zelo, sono disposti, dispostissimi a mandar giù qualsiasi boccone, per quanto ingombrante e indigesto, provenga dai luterani, dagli ebrei, dagli islamici, dai radicali, dai massoni, dagli atei militanti; e sono disposti a tacere su tutto ciò che potrebbe dividere, dal divorzio, all’aborto, all’eutanasia, alle unioni omosessuali. Perfino per la santa Eucarestia son disposti a stare zitti, mentre è in gioco la validità del Sacramento più prezioso di tutti. Però non passa loro per la testa che il solo fatto di qualificarsi, come fanno con il massimo orgoglio, preti di sinistra, crea una divisione irreparabile proprio là dove le divisioni sicuramente fanno male: all’interno della Chiesa cattolica. Perché se un prete si qualifica "prete di sinistra", ciò vuol dire che si considera membro di un’altra realtà, rispetto a quella di un altro prete, o di un fedele laico, i quali, metti caso, fossero di destra. Ma questo, evidentemente, per loro è un prezzo che vale la pena di pagare: ben vengano le divisioni, se servono a cacciar fuori dalla Chiesa quanti non condividono le loro idee di sinistra; quanti non sono in linea con le "riforme" post-conciliari, con il modernismo e con la svolta antropologica voluta dalla massoneria ecclesiastica e spalleggiata, ora, dalle potentissime lobby gay che prosperano all’ombra del Cupolone. Però, una domanda: era questo il modo di fare di Gesù Cristo: dichiararsi militante per questa o quella parte politica? Parliamoci chiaro: al tempio di Gesù la vita politica della Giudea era letteralmente polarizzata intorno a due partiti inconciliabili: pro o contro i romani, pro o contro l’indipendenza e la religione dei padri (di qui l’attesa di un Messia politico-religioso, che restaurasse il Regno d’Israele). Ma Gesù non ha mai accettato, non ha mai subito una tale alternativa. Non si è mai fatto "incastrare" in questa dialettica, quella dell’amico e del nemico. Per lui c’è solo il prossimo, e il prossimo è chiunque faccia la volontà del Padre. Ci hanno provato in tutti i modi, ad incastrarlo; gli hanno anche domandato se fosse lecito pagare il tributo all’imperatore; ma Lui non c’è cascato, e ha risposto: Rendete a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio. Che è come dire: non mescolate le cose della politica con quelle della religione. Cristo non è venuto in terra a fare un discorso politico. E chi non ha capito nemmeno questo, non ha capito proprio niente del Vangelo. 

Intanto quel prete, con evidente compiacimento, sorridendo e ammiccando a se stesso ad ogni battuta che faceva, e strizzando gli occhi per la soddisfazione ogni volta che il pubblico in sala applaudiva le sue affermazioni (bella soddisfazione, sapendo quanto valgono e cosa sono quegli applausi), costui si è lanciato, senza tanti preamboli, in una glorificazione della sinistra, rimproverandole, però, di esser venuta meno ai suoi doveri verso il popolo. A un certo punto, ha usato il "noi" per indicare i militanti del Pd, e non gli è sfuggito di bocca, ma lo ha detto intenzionalmente e ostentatamente, sottolineando il concetto. Ma tutto questo è ancora il meno. Con l’aria di chi sta per sparare una bordata devastante contro i farisei ipocriti e i sepolcri imbiancati, ha dichiarato che il problema numero uno della nostra società, in questo momento storico, è la negazione dei diritti. E ha ribadito, con enfasi, cercando l’applauso in maniera perfino puerile: Sì: i diritti sono negati. Poi ha detto che lui lavora in mezzi ai "rifiutati", e ha insistito sul concetto che il grande male del nostro tempo è la negazione dei diritti. Infine, con occhi luccicanti di sacra indignazione, ha tuonato: A cominciare dallo ius soli, che è un diritto essenziale e sacrosanto, e che viene negato!; e ha rinfacciato a quel tale politico che, su quel tema, il Pd era "partito in quarta", ma poi si è arenato. Su Dio, neanche una parola. Sul Vangelo, neanche una parola. Sul peccato, sulla grazia, sul fatto che gli uomini si sono allontanati da Dio; sul fatto che indulgono a stili di vita immorali e irreligiosi, neanche una parola. In quanto sacerdote, non ha detto nulla di nulla; in compenso, ha parlato come un politico, e ha anche dichiarato di quale partito. Sarà perché Matteo Salvini, durante la campagna elettorale, è stato l’unico politico italiano ad evocare apertamente le radici cristiane dell’Italia e dell’Europa, e si è perfino fatto vedere con il Rosario e il Crocifisso in mano? E dunque i "buoni" preti di sinistra devono distinguersi, devono far vedere che non hanno nulla a che spartire con quel tipo di cristiani, con quegli orribili razzisti, mentre a loro piacciono moltissimo i politici "cristiani" che votano a favore del divorzio, dell’aborto e dell’eutanasia, e, naturalmente, per le coppie di fatto e per le unioni omosessuali. Ora, noi non sappiamo in che ambito del sociale operi quel sacerdote. In quanto sacerdote, se anche operasse "solo" col dire la santa Messa, col confessare le anime, con lo spingerle verso il bene, ci pare che basterebbe e avanzerebbe. Ma siccome, dalle sue parole, si ricava che un "vero" prete deve stare in mezzo agli ultimi, salvo poi vedere chi sono davvero gli ultimi, ci piace riflettere su quel vocabolo, "rifiutati", che lui ha adoperato per definire le persone delle quali si prende cura. Non sappiamo chi siano; abbiamo, però, un sospetto: che la parola "rifiutato", che tanto piacerebbe a don Milani, diventi un paravento ideologico per dissimulare il rancore sociale di chi non ha nulla da far valere, se non la sua invidia e la sua pretesa di avere tutto e subito, senza lavoro e senza fatica. Sono dei rifiutati, per caso, g’immigrati clandestini? Quelli che lo Stato italiano, con infinite spese e sollecitudini, va a raccogliere in mare, ospita negli alberghi, e mantiene gratis, senza lavorare e senza far nulla, per due o tre anni come minimo, in attesa che codesti finti profughi occupino abusivamente qualche casa, o entrino gloriosamente in qualche banda criminale che vive di prostituzione e spaccio di droga, o semplicemente dandosi ai furti e alle rapine? Sarebbero questi, i rifiutati? Oppure i rom che non vogliono saperne di lavorare e di condurre una vita onesta, ma vogliono seguitare a fare come sempre hanno fatto, a guadagnarsi la vita con i furti e altre attività illecite, o insegnando l’accattonaggio ai loro bambini? Chi sono, dunque, i rifiutati? Sono rifiutati tutti quelli che fanno le vittime di professione, che dicono: la società ci rifiuta!, e intanto si aspettano di trovare la pappa pronta, qualche buon prete di sinistra che li mantiene gratis e che li incoraggia nel loro rancore e nella loro smania di rivendicare diritti, tacendo il piccolo dettaglio che non esiste alcun diritto senza il suo corrispondente dovere? E gli italiani onesti e laboriosi, divenuti poveri perché hanno perso il posto di lavoro, ma troppo dignitosi per chiedere l’elemosina o pretendere di vivere alle spalle degli altri: quelli no, non sono dei rifiutati? Bisogna per forza avere la pelle scura ed essere seguaci del profeta Maometto, per meritare l’attenzione e la considerazione dei preti di sinistra? E che c’entra Dio con tutto questo? Che c’entra Gesù Cristo, che c’entra lo Spirito Santo?

Eppure un cattolico, quando vede un sacerdote, questo si aspetterebbe: di sentir parlare di Dio, dell’anima, della vita eterna. Non gl’interessano le opinioni private di quel sacerdote, tanto meno quelle di natura politica. Sono fatti suoi; se le tenga per sé: Se decide di andare in televisione, a farsi vedere da milioni di persone, e se lo fa come prete, vestito da prete, ebbene egli abusa del suo ministero e inganna i suoi ascoltatori. Perché, come prete, non ha alcun diritto di dire quelle cose; non ha alcun diritto di definirsi di sinistra (e nemmeno di destra, se è per questo). Un prete è un uomo di Dio, un operaio nella sua vigna: lo scopo del sacerdozio è quello di avvicinare le anime a Dio e di preservarle dalla dannazione. Non altro. E che tristezza vedere un prete di almeno settant’anni, dunque, presumibilmente, consacrato mezzo secolo fa, parlare come parlavano i "compagni" del ’68 (i quali, almeno, avevano l’attenuante della giovane età): tutto quel che è successo nel mondo da allora, tutta l’acqua che è passata sotto i ponti, e anche l’avvicinarsi ella meta a cui ogni esistenza umana è diretta, non gli hanno insegnato nulla, sono scivolate via come niente fosse. Sia come sacerdote, sia come uomo di una certa età, da lui avremmo voluto udire altre parole. E ne avremmo avuto il diritto, visto che a lui piace tanto parlare dei diritti: perché da un prete i fedeli hanno il diritto di udire discorsi spirituali, non politici. Come un figlio ha il diritto di aspettarsi di ricevere un pane da suo padre, e non uno scorpione. Quei preti di sinistra, che gonfiano il petto e alzano la cresta perché si sentono incoraggiati e spalleggiati da Bergoglio, Paglia e Galantino, inseguono le mode del mondo e tradiscono la loro missione spirituale. Non sappiamo che farcene di loro; ci sono d’inciampo sul cammino della fede. Dopo averne incontrati tre o quattro, rischiamo seriamente di perdere la fede anche noi; e conosciamo parecchie persone alle quali è accaduto proprio questo. Perciò, non vorremmo esser nei loro panni: si stanno caricando sulle spalle una responsabilità immensa, della quale dovranno rendere conto a quel Dio di cui non parlano mai…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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