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Se Dio è morto, l’uomo ne sarà il degno erede?

Se c’è un pensatore che ha preso sul serio la portata e le conseguenze della morte di Dio nel mondo moderno, questi è stato Nietzsche. Egli appartiene ancora a un’epoca in cui le cose si prendevano sul serio, anche le più rivoluzionarie: in questo senso, era un romantico, un uomo del primo Ottocento scaraventato sessanta o settant’anni più avanti della sua epoca, cioè in piena Seconda rivoluzione industriale e in piena massificazione della società europea (infatti, uno dei suoi problemi era se l’Europa voleva essere ancora se stessa oppure il nulla). In questo senso, ha visto e giudicato il problema del nichilismo e del suo superamento in tutta la sua immensa portata: ha compreso, prima e meglio di quasi tutti suoi contemporanei, che l’umanità senza Dio ha bisogno non solo di un nuovo codice morale, ma anche di un nuovo modo di sentire la vita, se non vuole sprofondare in un regresso spirituale catastrofico. La visione del reale di Nietzsche è di tipo eroico e drammatico: au-aut, o questo o quello, tutto o il nulla; è un Kierkegaard dell’ateismo. Non sopporta la mediocrità, ma è proprio un mondo di mediocri quello che vede avanzare; e ne prova orrore, pena e sgomento. Nietzsche viene sempre, banalmente, ricordato per la profezia del Superuomo, ma dovrebbe essere del pari ricordato per la profezia dell’Ultimo Uomo: nessuno, come lui, ha valutato la possibilità che l’uomo non sappia essere all’altezza della morte di Dio; che sprofondi nelle paludi del vizio e si abbrutisca, come Dostoevskij, pochi anni prima, aveva intravisto: se Dio non c’è, allora tutto è permesso. Nietzsche, quindi, ha posto con forza il problema della libertà. A che serve la libertà, se Dio non c’è, e quindi se non c’è (più) una morale oggettiva, superiormente fondata? Evidentemente una nuova tavola dei valori deve essere scritta.; ma chi lo farà? Per lui, deve scriverla l’uomo, non a suo arbitrio, bensì seguendo una massima fondamentale: la fedeltà alla terra. Nietzsche è il profeta, e, se si vuole, il santo, della religione della terra, una religione puramente e rigorosamente immanentistica: esser fedeli alla terra vuol dire, per lui, essere fedeli alla vita, sempre e comunque. Il suo è una specie di vitalismo panteistico, o, se si vuole, un panteismo vitalistico. La vita è il nuovo Dio, e la "terra" è l’insieme dei valori che da essa scaturiscono.

Il guaio è che dalla "terra",così intesa, non scaturisce, di per sé, alcun valore. L’epoca di Nietzsche è l’epoca del darwinismo trionfante: la legge fondamentale della vita è vista come la lotta per la vita. Forse che Nietzsche intende questo, quando parla della "fedeltà alla terra" e quando esorta gli uomini, li supplica, li scongiura, di essere fedeli a lei e a lei sola? Quasi certamente no: la visione di Nietzsche è e resta una visione idealistica; egli non nega l’idealismo, solo lo vuol cambiare di segno, lo vuol capovolgere, proprio come Marx accoglie e fa suo l’hegelismo, però lo capovolge, per rimetterlo, dice lui, sui piedi anziché sulla testa. Nietzsche, quindi, vuol salvare l’impulso eroico dell’uomo (romanticamente, appunto), perché vede, e questo gli fa profondamente onore, la serietà della vita. Per lui, come per Kierkegaard (chissà se lo aveva mai letto) ci sono due sole alternative per l’uomo: o riuscire o fallire. L’uomo riesce a dare un senso alla sua vita quando ritorna integralmente alla terra, quando vive la sua vita realizzando in se stesso ciò che vuole lo spirito della terra: coraggio, audacia, passione, gratitudine, generosità, innanzitutto verso se stessi. Egli vede con chiarezza che il punto debole della morale religiosa è il latente disamore di sé; gli sfugge, però, che non tutti gli asceti sono dei nemici di se stessi, anzi, che il vero asceta, o almeno il vero asceta cristiano, è un uomo che ama la vita, ma la ama come il mezzo che ci viene dato per giungere a Dio: la ama come il buon agricoltore ama la zappa per vangare la terra, o come il pescatore ama la sua barca o le sue reti: cioè come un mezzo per realizzare un fine ulteriore. Per Nietzsche, il quale dà per scontato che non vi sono dei fini ulteriori, considerare la vita come un mezzo è un delitto di lesa maestà verso la madre terra, una profanazione dell’amore che a lei sola è dovuto. In ogni caso, a Nietzsche va il merito di non aver preso alla leggera la morte di Dio: c’è in lui più serietà "religiosa" che in molti cristiani abitudinari e impigriti, come quelli denunciati da Kierkegaard nella sua durissima requisitoria contro la cristianità che ha tradito il Cristianesimo. Su questo aspetto del pensiero del filosofo tedesco ha scritto Eugen Fink, considerato uno dei massimi esponenti della scuola fenomenologica fondata da Edmund Husserl (da: E. Fink, La filosofia di Nietzsche; titolo originale: Nietzsches Philosophie, Stuttgart, Kolhammer, 1960; traduzione dal tedesco di Pisana Rocco Traverso, Padova, Marsilio, 1973, e Milano, Mondadori,  1977, pp. 72-74):

Durante la discesa dalla solitudine decennale sui monti verso il paese degli uomini, Zarathustra incontra nel bosco il Santo, l’eremita che si ritirò lontano dagli uomini per amare soltanto Dio; EGLI non ha alcuna dottrina, nulla da indirizzare all’uomo; la sua esistenza da eremita si trascende verso Dio; è con Lui che egli ha un dialogo: la preghiera, il parlare dell’uomo direttamente a Dio. Ma l’Eremita Zarathustra, che dice a se stesso: "È mai possibile! Questo vecchio Santo nel suo bosco non  ha ancora udito che Dio è morto!", questo eremita senza dialogo col sovrumano deve proprio, quando dice la sua parola intorno all’Essere, parlare con l’uomo, deve INSEGNARE; dopo la morte di Dio il vero linguaggio dell’uomo non è più nominare gli dei e invocare i santi, è ora la lingua DELL’UOMO ALL’UOMO: l’invocazione delle più alte possibilità umane è L’INSEGNAMENTO DEL SUPERUOMO. La morte di Dio è così la condizione sulla quale si basa l’insegnamento di Zarathustra. Nietzsche spiega l’insegnamento di Zarathustra per mezzo della "parabola del sole": la fortuna del sole è che la sua sovrabbondanza di luce viene portata via dalle cose che illumina; il pensatore Zarathustra paragona se stesso al sole: colui che insegna, il "superuomo", diventa ora la "luce del mondo", ciò che prima era Dio. Con la morte di Dio, cioè con la fine di ogni idealità nella forma di un al di là del’uomo, di una trascendenza oggettiva, con il crollo della volta celeste sul paesaggio della vita umana, sorge il pericolo di un mostruoso impoverimento dell’umanità, di una spaventosa, volgare e piatta empietà e scostumatezza; la tendenza idealistica si atrofizza, la vita diventa "illuminata", razionalistica e banale. La tendenza idealistica rimane, non si perde più, soltanto se onora ciò che essa stessa ha creato raffigurandoselo, poi, come cosa estranea, come il Dio dell’al di là e il suo decalogo; la tendenza idealistica si avvede della sua essenza "creativa"", e progetta ora consapevolmente nuovi ideali creati dall’uomo. Queste due possibilità dell’essenza umana dopo la morte di Dio sono l’Ultimo Uomo e il Superuomo, Nietzsche decide con entusiasmo: insegna il Superuomo, mostrando la profonda abiezione dell’Ultimo Uomo. E il suo insegnamento non ha in questo la freddezza di una rappresentazione teoretica, esso trema di commozione, cerca di parlare commuovendo.[…]

Ci si deve tenere aggrappati al carattere eroico dell’esistenza anche dopo la morte di Dio: riprendere nella vita ciò che, in quanto Dio, sembrava estraneo e appartenente al di là. Poiché Nietzsche tenta ovunque questo appello e vuole risvegliare lo stato d’animo di una grandezza eroica dell’uomo anche davanti al crollo del "cielo ideale", lo "Zarathustra è ridondante, sovraccarico di una tensione febbrile, di un pathos eccessivo, di appelli e di stati d’animo fulminei, di imperativi e anatemi. […]

Il Superuomo, consapevole della morte di Dio, cioè della fine dell’idealismo, della perdita dell’al di là, riconosce nell’al di là idealistico soltanto una utopia immagine riflessa della terra. E alla terra restituisce ciò che le è stato preso a prestito e rapinato; rinnega tutti i sogni dell’al di là e si volge alla terra col medesimo fervore, col quale prima si volgeva al mondo dei sogni; il massimo della libertà umana si volge alla Gran Madre, alla terra dall’ampio petto, e in essa trova i limiti, il contrappeso di tutti i suoi tentativi. Mentre l’esistenza si rifonda sulla terra, la sua libertà si fonda sulla terra stessa, o più precisamente: non è più una libertà verso Dio, ma nemmeno una libertà verso il Nulla, bensì è libertà verso la terra, in quanto grembo da cui ebbe origine tutto ciò che appare alla luce, e nello spazio e nel tempo trova permanenza e luogo. Qui la libertà raggiunge, attraverso tutti i suoi rischi, una ferma, ultima posizione. Dove, per l’umanità imprigionata nella sua alienazione, stava Dio ora sta la terra.

Il problema posto da Nietzsche quasi un secolo e mezzo fa è, pertanto, un problema reale e che attende ancora una soluzione. Se Dio è morto, all’uomo restano due sole possibilità: farsi il dio di se stesso o precipitare al livello delle bestie. Egli era angosciato dalla possibilità che gli uomini, per pigrizia e inconsapevolezza, scegliessero la seconda: questo pensiero gli era insopportabile e per questo non esitò a farsi il messia di una nuova religione, disposto anche al martirio per essa, la religione della terra. Tuttavia, egli si trovava inviluppato in una contraddizione inestricabile: se Dio è morto, perché mai l’uomo dovrebbe conservare la sua tensione eroica? la tensione eroica nasce dalla "differenza" ontologica che egli percepisce fra se stesso e Dio; ma se Dio scompare dal cielo della sua esistenza, a che cosa gli servirà mai? Per raggiungere le cose della terra è forse necessario l’eroismo? Non bastano e avanzano il piatto e banale "buon senso", il calcolo dei filistei, il conformismo dei benpensanti? Sì, certo che sì: l’eroismo è necessario quando ci si confronta con la distanza infinita; ma se tutte le distanze sono finite, allora raggiungere qualsiasi meta diventa solo una questione di calcolo, di pianificazione, di efficienza strumentale. Nietzsche è in contraddizione con se stesso quando si sdegna davanti alla prospettiva di una umanità abbassata e immiserita nella ricerca di piaceri e vantaggi immediati, e reagisce proclamando una nuova tavola di valori: ma che cosa renderà quei valori autorevoli e universalmente validi, che cosa li renderà credibili e necessari? Perché mai dovrebbe essere necessario restare fedeli alla terra, se con ciò s’intende una adesione totale all’immanente, ma vissuta con l’entusiasmo e lo spirito di abnegazione che prima si rivolgeva all’al di là? Non basterà essere fedeli, per così dire, al proprio tornaconto personale e immediato? Dostoevskij, ripetiamo, aveva visto lo stesso problema ed era rimasto inorridito dallo spettacolo di una umanità che vuol sedere sul trono di Dio, ma non per oltrepassare se stessa verso l’alto, bensì per sprofondarsi nell’abisso della sua parte più torbida e limacciosa: ha descritto le tremende conseguenza di quella pretesa in tutte le sue opere, ma specialmente ne I Demoni, che molti critici hanno un po’ sottovalutato, perché hanno fatto l’errore di considerare quel romanzo solo in un’ottica politica e personale, quasi come una espressione del risentimento retroattivo dell’autore verso quei circoli socialisti ai quali aveva aderito in gioventù. Invece ne I demoni egli ha dato la più completa rappresentazione di quel che Nietzsche avrebbe chiamato l’Ultimo Uomo: un tipo umano che si auto-degrada, proprio perché non sa essere all’altezza delle sue nuove responsabilità "universali", divenute necessarie dopo la morte di Dio.

Peraltro, tutto il dramma di Nietzsche potrebbe ruotare intorno a un tragico equivoco. Egli parte dalla morte di Dio come un dato di fatto: Dio è morto, solo il santo eremita, smarrito nei suoi boschi, ancora non lo sapeva; ma nella città, al mercato, lo sanno tutti, lo sanno così bene che, sulle prime, prendono in giro Zarathustra che annuncia la sua morte, come se arrivasse in ritardo a dire una cosa ovvia e quasi ridicola Ma siamo sicuri, dopotutto, che Dio sia morto davvero? Che sia morto per noi, per tutti noi? O è morto, in realtà, solo per una piccola minoranza di intellettuali inariditi e nichilisti, i quali si affannano, da due secoli almeno, a convincere tutti gli altri di questa loro "verità", mentre la stragrande maggioranza degli esseri umani, anche oggi, nel terzo millennio, continua ad essere intimamente persuasa che Dio non è affatto "morto", perché vivere e morire son cose che appartengono alle creature mortali, mentre Dio esiste da sempre e per sempre, e nulla esisterebbe se Lui non volesse, neppure noi coi nostri dubbi struggenti e con la nostra ansia d’infinito? Perché se Nietzsche si è sbagliato su questo, e molti indizi fanno pensare che tale sia il caso, allora Zarathustra è veramente un pazzo che predica un vangelo insensato, e bisogna concludere che egli si è sacrificato per niente. Nietzsche ha avuto un merito storico: quello di porre sul tappeto, con estrema serietà, il problema del dopo, una volta acclarata la morte di Dio. Ma forse ha avuto troppa fretta nel dare per certa la sua ipotesi di partenza: in fondo, che Dio sia morto era solo un ‘ipotesi di lavoro. Infatti, Dio non muore: o c’è, o non c’è; "morire", per Dio, significa morire nell’anima dei suoi fedeli. Ma gli uomini moderni, nonostante tutto, sono davvero persuasi che Dio non esiste? Questa è la prima domanda. E forse il buon Nietzsche barava con se stesso quando rispondeva di sì, perché pochi autori come lui hanno espresso, dal primo all’ultimo rigo della loro opera, una più intensa nostalgia di Dio. E la seconda domanda è questa: se pure Dio è morto, gli uomini sapranno reggerne le conseguenze ed elevarsi al superuomo? Giocatore d’azzardo nel senso di Pascal, Nietzsche ha scommesso tutto sulla risposta positiva a questa domanda; ma era troppo onesto per non misurare il rischio tremendo di fallire. Oggi vediamo che questo è accaduto…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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