Prepariamoci: succederà sempre più spesso
24 Aprile 2018
La pace è la tranquillità dell’ordine: tornare a Dio
25 Aprile 2018
Prepariamoci: succederà sempre più spesso
24 Aprile 2018
La pace è la tranquillità dell’ordine: tornare a Dio
25 Aprile 2018
Mostra tutto

Il cristiano è nel mondo, ma non è del mondo

Al termine dell’Ultima Cena, Gesù Cristo rivolge al Padre celeste questa preghiera per i suoi Apostoli: (Gv 17, 11-19): 

Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi. Quand’ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura. Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia.  Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità.  Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità.

L’espressione "essere nel mondo, ma non del mondo" è perciò familiare a chiunque conosca il Vangelo: essa è stata ripetuta, insegnata e meditata da generazioni e generazioni di cristiani, fino a diventare parte del loro modo di pensare e di sentire; anzi, fino a diventare il criterio del loro modo di pensare e di sentire. Fino a un ceto momento della storia: fino al Concilio Vaticano II. È stato allora che l’idea del "mondo" ha subito un radicale cambiamento nella percezione dei fedeli, e ciò sotto la spinta del clero stesso: del clero progressista, beninteso, e non di tutto il clero; sotto la spinta di quella minoranza progressista e neomodernista che, con molta abilità, ha preso fin dall’inizio la direzione dei lavori conciliari e ha impresso loro l’andamento che poi effettivamente ebbero: vale a dire un andamento rivoluzionario, dietro le apparenze della semplice riforma pastorale. Poi, negli annui e nei decenni successivi, lavorando senza posa, sempre in maniera discreta, abile, duttile, quella minoranza è riuscita a far passare le sue "riforme"; e così, un poco alla volta, conquistando un pollice di terreno dopo l’altro, lentamente, metodicamente, con pazienza e tenacia, essa è riuscita a diventare maggioranza, per lo meno al vertice della Chiesa, occupandolo quasi interamente. Fino al presente pontificato, quello di Francesco: un pontificato che passerà alla storia come il momento in cui la manovra di uscita dall’ortodossia e di ingresso nell’apostasia generale della Chiesa si sé fatta, per la prima volta, trasparente, almeno per quelli che l’hanno voluta vedere e che non hanno adottato la politica dello struzzo: mettere la testa sotto la sabbia per non dover fare i conti con l’amara realtà.

Dunque, a partire dal 1962-65, dapprima al vertice, con le Conferenze Episcopali, e poi, un poco alla volta, giù nella scala gerarchica, fino alle parrocchie e ai singoli sacerdoti e religiosi, è passata una nuova idea di "mondo": non più il regno del male, del rifiuto di Dio, del peccato, ma una realtà bella, positiva, gioiosa, piena di fiducia in se stessa e nel progresso, con la quale il cristiano può e anzi deve stabilire rapporti di collaborazione, di stima, di amicizia, nella prospettiva di un obiettivo comune: il bene dell’uomo. Senza sottolineare la piccola differenza che quel che è bene per l’uomo secondo la mentalità del mondo, non è affatto tale nella prospettiva cristiana. Eppure, Gesù è stato molto chiaro su questo punto: addirittura, in quella stessa preghiera, si è rifiutato di pregare per il mondo: io non prego per il mondo (Gv 17, 9); e ha precisato che il mondo odia coloro che lo seguono, perché il mondo non lo vuole riconoscere. I signori progressisti sono serviti: se il cristiano non è odiato dal mondo, non è un vero cristiano; l’odio del mondo è la condizione "naturale" dei seguaci di Cristo. Se il cristiano va d’amore e d’accordo con il mondo; se riceve gli applausi e le lodi del mondo; se il mondo lo onora e lo ammira, quello è il segnale che qualcosa non va: che molte cose non vanno. E questo non già perché il cristiano sia un odiatore del mondo, ma perché il mondo odia Gesù e odia quelli che si pongono alla sua sequela. Il mondo ha odiato Gesù e lo ha messo in croce; il mondo ha odiato i suoi seguaci e li ha gettati in pasto alle belve feroci; oggi il mondo ha parzialmente cambiato tattica, ma il suo obiettivo è sempre quello: estirpare il segno del passaggio di Cristo, richiudere la porta verso la salvezza che egli, con l’Incarnazione, la sua Passione e Morte, e poi con la sua Resurrezione, ha riaperto all’umanità. Il mondo è sotto il potere del diavolo: non tutto il mondo, ma quella parte del mondo che non riconosce Gesù, che rifiuta la sua Parola di amore. Tutte queste cose non sono, né potrebbero essere in alcun modo una novità, meno ancora una sorpresa, per il cristiano: è stato Gesù stesso a preannunciarle, con estrema chiarezza e senza addolcire la pillola: Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Nondimeno, Gesù non è venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo. Non lo vuole però salvare contro la sua volontà: non avrebbe senso, poiché significherebbe calpestare il dono più grande che Dio ha fatto all’uomo, quello che lo ha reso la creatura privilegiata, in un certo senso il signore e il custode del creato: la libertà del comprendere e del volere. Se Gesù fosse venuto per salvare il mondo anche contro la sua volontà, l’uomo sarebbe stato degradato a spettatore passivo della propria liberazione: ma Gesù non vuole dei servi, vuole degli amici: Vi ho chiamato amici, perché il servo non sa quello che fa il padrone, Voi sarete miei amici se farete ciò che io vi comando. Lo ha detto e lo ha dimostrato. La libertà dell’uomo è il bene più prezioso di cui egli può giustamente andare fiero: non rientra nei piani di Dio annullarla o mortificarla; equivarrebbe a un pentimento rispetto alla sua stessa opera creatrice.

Resta il fatto che il cristiano vive nel mondo, è immerso nel mondo, respira la sua aria, ma non appartiene al mondo. È proprio da questo che lo si riconosce: pur vivendo nel mondo, è come se non gli appartenesse: perché, di fatto, non gli appartiene, ma appartiene a Dio solo. Alcuni ne hanno dedotto, erroneamente, che il cristiano odia e disprezza il mondo. Il cristiano non odia il mondo e non disprezza affatto, bensì gode, delle cose belle e buone che vi sono nel modo: Laudato sì, mi’ Signore, per tutte le tutte le tue creature… E tuttavia il cristiano non è attaccato alle cose, perché non è attaccato al mondo: vive nel mondo come si vive in una dimora che si sa bene di dover lasciare. La si può amare, ma non la si considera indispensabile: si è coscienti del fatto che la dimora è meno preziosa di colui che vi abita, così come il vestito è assai meno importante della persona che lo indossa. Noi non siamo fatti per le cose, le cose ci servono nella misura in cui rispondono a dei veri bisogni; quando cominciamo a cercare le cose superflue, e anche la gloria superflua, ecco che siamo già sulla strada della tentazione, ci stiamo allontanando da Dio e stiamo creando le condizioni per essere afferrati dagli artigli del diavolo. Questa non è una visione cupamente pessimistica (i cristiani che odiano il riso, come si ricava dalla lettura del mediocre romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco) ma semplicemente una visione realistica dell’uomo. L’antropologia cristiana parte da un dato decisivo, che ha radicalmente modificato, e incrinato, la perfezione originaria della creazione: la ferita del Peccato originale. Le cose sono state create buone da Dio, ma quel peccato ha introdotto nel mondo un veleno: il veleno della concupiscenza. A causa di essa, l’uomo non sa più fare, con le sue sole forze, un uso saggio e moderato delle cose, ma tende alla dismisura, all’eccesso: non gli basta il necessario, vuole anche il superfluo, e lo vuole a qualsiasi costo e con qualunque mezzo, anche al prezzo di macchiarsi le mani con il sangue del suo stesso fratello, come fece Caino con suo fratello Abele. L’avaro che accumula fortune gigantesche, lo speculatore di borsa che possiede beni incalcolabili, peraltro esistenti solo sulla carta perché non corrispondono a oggetti e cose reali, è l’esempio estremo di questa dismisura, di questa malattia della concupiscenza, mediante la quale gli uomini si fanno prendere al laccio dal diavolo, il grande tentatore, l’antico avversario. Il diavolo, come leone ruggente, va in cerca di anime da divorare, ammonisce san Pietro nella sua lettera. Sottovalutare questo pericolo equivale a esporsi a un rischio gravissimo, pressoché certo: infatti l’uomo, con le sue sole forze, non ha alcuna speranza di poter resistere alle sirene della concupiscenza e, quindi, di evitare il destino di finire come una misera preda nelle mani del diavolo. Solo con l’aiuto di Dio e solo stando in guardia, lo può.

Essere nel mondo, ma non del mondo, ha delle implicazioni notevolissime, sul piano psicologico e spirituale così come in quello della vita pratica: professionale, familiare, perfino nella dimensione dello sport e del tempo libero. Il cristiano non vede le cose con gli sessi occhi con i quali le vede colui che cristiano non è, o che odia il Vangelo di Gesù. Né la storia, né la filosofia, né l’arte, né la scienza, e neppure le quotidiane relazioni sociali, sono da lui viste e vissute nella stessa prospettiva e con il medesimo atteggiamento del mondo. E questo, sia ben chiaro, per il cristiano corrisponde ad un senso di fierezza, di esultanza, proprio come l’innamorato che sa di essere a sua volta riamato, e si sente immensamente più fortunato di tutti gli altri uomini che vi sono al mondo, perché a lui è toccata una cosa grande e meravigliosa, che riempie di luce e di bellezza la sua esistenza. Il cristiano non ha alcun complesso d’inferiorità nei confronti del mondo, semmai il contrario, ma è sempre temperato dalla mitezza e dall’umiltà; il cristiano pensa di avere qualcosa in più e non qualcosa in meno degli altri uomini. Non gioisce e non si rattrista per le stesse cose per le quali gioiscono e si rattristano gli uomini carnali, che appartengono al mondo perché appartengono al diavolo. Nello stesso tempo, non teme la derisione, gli scherni, le ironie, e sta saldo anche nelle aperte persecuzioni: sa che il mondo lo odia, e, pur non odiando a sua volta, anzi cercando seguire l’esempio di Gesù, che ha pregato perfino per i carnefici che lo stavano inchiodando alla croce, non si preoccupa affatto di piacere al mondo. L’espressione adoperata da san Pietro e riferita dagli Atti degli Apostoli, che bisogna piacere a Dio piuttosto che agli uomini, per il cristiano è la norma di condotta quotidiana, è la sua bussola, la sua stella polare.

Può darsi, tuttavia, che molti cristiani, all’atto pratico, non si rendano ben conto delle implicazioni di un simile atteggiamento. Per un intellettuale, ad esempio, significa essere compatito dai suoi colleghi: egli non guarda alla storia umana, o al pensiero umano, o al sapere umano, nella loro stessa maniera: egli sa che esiste una forza ben superiore, una intelligenza ben superiore, una finalità ben superiore a quella che gli uomini possono anche solo lontanamente concepire: sa che il padrone della storia è Dio, che l’intelligenza umana è lucida se si rispecchia in Dio, che il sapere umano è tale se riconosce i diritti di Dio. E con la stessa ironia, lo stesso disprezzo con cui viene guardato, dai sapienti del mondo, il cristiano che svolge una attività di tipo intellettuale, deve fare i conti il cristiano che conduce un lavoro manuale, e che si trova esposto ai frizzi e ai lazzi dei suoi compagni, alle loro prese in giro, alle loro bestemmie. Non si spaventa per questo, il suo cuore non è turbato, il suo coraggio non viene meno: sa che tutto ciò fa parte della Rivelazione, che è stato predetto da Gesù stesso e considera un privilegio il fatto di soffrire qualcosa per amore di Lui. La sua vera forza è di essere debole, di riconoscersi debole e bisognoso di ricevere tutto da Dio. Spogliandosi dell’orgoglio, dell’avidità, della lussuria, il cristiano toglie dalle mani del diavolo gli appigli sui quali potrebbe fare presa: gli offre così una superficie liscia, resa impenetrabile dalla vita soprannaturale che discende nell’anima dalla frequenza dei Sacramenti. Il cristiano prega molto, frequenta la santa Messa, si comunica spesso, perché vuole rimanere strettamente unito a Dio: sa che con Lui può sostenere qualsiasi prova, può respingere qualunque assalto, degli uomini o degli spiriti del male; e sa che, senza di Lui, non può far nulla. Rimanete nel mio amore, perché senza di me non potete fare niente, dice Gesù nella similitudine della vite e dei tralci.

Oggi la situazione esistenziale del cristiano è alquanto complicata da un fattore nuovo: la vera persecuzione a cui si deve preparare, almeno in Europa, non viene dall’esterno, ma dall’interno della Chiesa. Forze malvagie si sono impadronite di molte posizioni chiave della gerarchia ecclesiastica e si adoperano, con satanica alacrità, con astuzia, doppiezza e una sbalorditiva capacità di dissimulazione, a sovvertire la dottrine e a trascinare le anime nell’errore, lontano da Dio, ma in maniera velata, ingannandole, sfruttando la loro ingenuità e buona fede. Oggi un vero cristiano, a cominciare dai sacerdoti e dai religiosi, deve prepararsi a subire il martirio, in senso spirituale, da parte dei suoi stessi superiori: si pensi alla sorte dei Francescani e le Francescane dell’Immacolata, questi eroi silenziosi, veri soldati di Cristo, che stanno soffrendo i tormenti più crudeli senza lasciar trasparire il loro dolore, senza gesti o parole di ribellione, con la dignità e la compostezza dei veri seguaci del Salvatore. Tutti quanti dobbiamo prepararci a subire qualcosa di simile, anche i laici: questa è l’ora del diavolo. Nondimeno sia fatta sempre la volontà di Dio, così in cielo come in terra.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.