
Il cristiano è nel mondo, ma non è del mondo
25 Aprile 2018
Dobbiamo reagire al tradimento in atto
25 Aprile 2018La definizione è di sant’Agostino: la pace è la tranquillità dell’ordine; più esattamente, il grande santo e filosofo latino della Numidia sostiene che la pace consiste nella tranquillità, nella concordia e nell’unione. E si noti che non dice: la tranquillità nell‘ordine, bensì: la tranquillità dell‘ordine, per cui il soggetto è l’ordine, non la tranquillità. Il vero ordine è tranquillo, e in ciò consiste la pace: non è dalla tranquillità che discende l’ordine, ma dall’ordine discende la tranquillità. Pertanto la tranquillità non è il fine, ma il mezzo: non si giunge alla pace perseguendo la tranquillità, ma cercando di realizzare e di preservare l’ordine. L’ordine è la chiave di tutto, è l’alfa e l’omega della ricerca interiore, è la leva di Archimede che sorregge l’universo. Se l’universo non fosse ordinato, non esisterebbe: tutto ciò che è disordinato corre verso la distruzione. Le passioni disordinate conducono l’anima alla rovina, e nemmeno il corpo se la passa molto bene, quando a comandare sono la superbia, la lussuria e l’avarizia; anch’esso finisce per avvertire i dannosi effetti di un regime di vita disordinato. Ma se il disordine è la radice del male, che cos’è l’ordine? Come lo si può definire? E in che modo sant’Agostino giunge ad affermare che solo dall’ordine può venire la pace?
Evidentemente l’ordine non è un mezzo, perché, come abbiamo visto, il mezzo è la tranquillità che da esso deriva. Ma si può trarne la deduzione che esso è un fine? A noi sembra che non sia un fine, ma che sia la normale condizione di esistenza delle cose. Le cose esistono, in quanto possiedono un ordine; se il loro ordine viene messo in crisi, incominciano a distruggersi, a scivolare verso il non essere. Se le cose sono ordinate, sono anche tranquille, e se sono tranquille sono anche in pace; se invece sono agitate, vi è uno stato di disordine. Non c’è pace senza ordine, e non c’è ordine che non sia, di per sé, pacifico; anche se non è affatto escluso, anzi, è la condizione normale, che esso, per conservarsi, sia costretto a lottare. L’ordine che vige nelle cose di quaggiù è un ordine dinamico, non statico: l’unica cosa assolutamente e pienamente statica, quaggiù, è l’assenza di vita. In un’isola ghiacciata e senza vita, per esempio, regna il massimo ordine possibile; ma in un’isola dal clima temperato, popolata di piante ed animali, l’ordine che si crea fra le creature che l’abitano sarà necessariamente un ordine dinamico: è sufficiente che il vento trasporti i semi di una nuova specie di fiore, o di albero, ed ecco che l’ordine biologico di quell’isola dovrà sostenere una fase di assestamento per accogliere la sfida rappresentata dal nuovo venuto. L’ordine perfetto è quello della immobilità, ma l’immobilità è sinonimo di non vita.
Tuttavia, se l’ordine è, di per sé, pacifico, non ne consegue l’affermazione contraria, ossia che la pace esista solo nell’ordine. Per poter dire questo, dovrebbe darsi il caso che tutti i conflitti siano di per sé sinonimo di guerra, il che non è vero. Esistono differenti tipi di conflitto: non tutti i conflitti sono causati dal disordine; anzi, vi sono dei conflitti utili e necessari, perché scaturiscono dalla ricerca dell’ordine. Il conflitto non deve essere demonizzato: è maligno quando è distruttivo in se stesso, cioè non reca altro che un disordine sempre maggiore, o, addirittura, l’ordine della falsa pace, che è la non vita; mentre è benigno il conflitto che nasce dal bisogno di ricostituire una struttura più ordinata dell’esistenza, e quindi rappresenta una fase necessaria di crescita, di sviluppo. Tali sono, nella maggior parte dei casi, i conflitti familiari causati dall’ingresso del bambino nell’età adolescenziale: sono fasi necessarie verso la maturità, cioè verso l’ordine della stabilità. Viceversa, una esistenza che non conosce il conflitto, perché si rifiuta di farne l’esperienza, anche quando essa è necessaria, è un’esistenza incompleta, disarmonica, mortificata; è un’esistenza a metà, che reca delle cose buone a metà, ma che non permetterà mai di fare un’esperienza matura e globale del fenomeno "vita". Così, un’esistenza che miri semplicemente alla tranquillità, è un’esistenza mancata, edonista e voluttuosa: la tranquillità non può essere un fine e, soprattutto, non può essere raggiunta se non passando per la fase della conquista di un ordine superiore, il che implica la lotta e il conflitto. Lo ripetiamo: l’ordine delle cose di quaggiù è un ordine dinamico, e questo significa che la vita è lotta: è tensione e confitto fra l’ordine di tipo inferiore, provvisorio e immaturo, che deve essere superato, e l’ordine superiore e maturo, che deve esser raggiunto.
C’è poi un’altra funesta illusione che deve esse dissipata, oltre a quella che si possa pervenire all’ordine, e conservarlo, in assenza di conflitto: l’illusione di chi pensa che esistano delle scorciatoie, delle tecniche particolari, ovvero delle formule preconfezionate, che consentano di passare dall’ordine inferiore della inconsapevolezza, all’ordine superiore della consapevolezza. Quante volte ci è accaduto di vedere delle persone accostarsi a degli scritti, o a delle conferenze, o a delle lezioni, con lo sguardo avido e la smania d’impadronirsi del segreto per giungere, di colpo, quasi miracolosamente, alla consapevolezza, vale a dire all’ordine superire cui la natura umana di per se stessa aspira. In quegli sguardi, in quei gesti, in quelle domande, abbiamo sempre colto lo stesso atteggiamento di fondo: la pretesa, totalmente illusoria, che qualcun altro possa fare per noi quel che dobbiamo fare da soli; l’irrealistico e semplicistico desiderio di strappare all’altro la formula per trasformare il disordine in ordine, l’agitazione in tranquillità, il confitto in pace: ma senza avere la pazienza, né l’umiltà, di fare la strada necessaria per capire cosa sia l’ordine, cosa sia la tranquillità e cosa sia la vera pace. Tali persone non si rendono conto che nessuno può fare al posto loro il cammino che ciascuno è chiamato a fare in prima persona; nessuno po’ sostituirsi a lui, portare sulle spalle il suo fardello, vivere al suo posto le necessarie tappe di crescita, compresa la delusione, la sofferenza, l’impotenza. Ma la verità è proprio questa: per quanto si possa essere impazienti, e per quanto si possa essere abituati ad acquistare in denaro sonante tutto ciò che si desidera, c’è una cosa che richiede il suo tempo e che non può essere acquistata neppure a peso d’oro: il proprio cammino esistenziale verso la maturità, la consapevolezza e l’ordine. Chi opina diversamente, non ha capito la cosa essenziale. Per quanto possa aver capito molte cose secondarie, è e rimane simile a un bambino di fronte alla cosa più importante di tutte: che la conquista della consapevolezza è una fatica che deve essere fatta in prima persona, vissuta sulla propria pelle, pagata di tasca propria, ma non in termini di cose materiali, bensì in termini di attesa, sacrificio, rinuncia, difficoltà, angustia, sofferenza, e, qualche volta, perfino angoscia di morte e disperazione. Chi vuole evitarsi tutto ciò, che se ne resti nella sua beata inconsapevolezza e lasci stare le cose da adulti: è solamente un grosso bambino viziato, e non capirà mai nulla di ciò che è importante, né saprà mai attribuire alle cose il loro giusto valore.
A questo proposito, vi è una pagina della Bibbia che si presta alle più profonde riflessioni; una pagina che non è tra le più note e che quasi mai viene citata a proposito della crescita spirituale: la Prima lettera di Pietro, dalla quale riportiamo alcuni passaggi chiave (1, 6-23; 5, 6-10):
Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata, cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo; cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo.
Perciò, dopo aver preparato la vostra mente all’azione, siate vigilanti, fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà. Come figli obbedienti, non conformatevi ai desideri d’un tempo, quando eravate nell’ignoranza, ma ad immagine del Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: Voi sarete santi, perché io sono santo. E se pregando chiamate Padre colui che senza riguardi personali giudica ciascuno secondo le sue opere, comportatevi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio. Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi. E voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria e così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio.
Dopo aver santificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna. (…)
Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, ^7^gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi.
E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi.
Tutto questo può essere riassunto in un solo concetto, che san Pietro esprime all’inizio della sua epistola (1, 2): la santificazione dello Spirito, con la lettera maiuscola. Vale a dire che noi non ci possiamo santificare da soli, ma è lo Spirito di Dio che opera in noi la santificazione, alla quale, tuttavia, siamo chiamati a collaborare attivamente, deponendo ogni viltà e ogni timidezza, consci che la vita è una lotta e che nessun traguardo può essere raggiunto senza lottare. Ma la lotta più grande che si deve sostenere, è quella contro se stessi: quella che la cultura moderna, impregnata di edonismo e di naturalismo, definisce follia, perché la concepisce come una malattia: la malattia del disamore di se stessi. In realtà, lungi dall’odiare se stessi, coloro i quali aspirano all’ordine più alto di cui la natura umana è capace — in termini cristiani, all’ordine della santità — odiano l’uomo vecchio che è in loro, impastato di concupiscenza e bramoso di superbia, lussuria e avidità, che tende costantemente verso le cose più basse, ma amano l’uomo nuovo nel quale aspirano a rinascere, mediante la grazia che viene dall’alto. Santificarsi nello Spirito di Dio equivale a compiere l’atto supremo al quale ciascun essere umano è stato chiamato fin da prima di essere concepito: ritornare a quell’Essere dal quale tutto ha ricevuto l’esistenza e realizzare in Lui il proprio fine, il proprio bene, la propria pace e il proprio ordine finale. Per aver dimenticato o disatteso questa semplice verità, l’uomo moderno si è condannato da se stesso alla perpetua infelicità, al conflitto distruttivo e perciò maligno, al disordine permanente e alla frustrazione della inconsapevolezza, che fa di lui un uomo a metà, un uomo irrisolto, un bamboccio vestito da uomo, con le pretese e gli appetiti di un uomo adulto, ma con la capacità di misurarsi con la vita che è quella di un bambino di pochi anni.
Come se ne esce? Ritornando alle sorgenti dell’Essere: ritornando a Dio. La civiltà moderna è stata un gigantesco errore, il frutto malato di una mentalità schizofrenica, un misto di superbia smisurata e d’infantilismo egocentrico e narcisista. Occorre ritornare sui passi perduti, ritrovare il bivio del sentiero ove abbiamo fatto la scelta sbagliata. Naturalmente, non tutto ciò che la civiltà moderna ha prodotto deve essere rinnegato, né potrebbe essere abbandonato; vi son cose, anche di tipo materiale e tecnologico, dalle quali non si può tornare indietro. Neppure dal Peccato originale Adamo ed Eva hanno potuto tornare indietro, perché ciò che è stato fatto, è fatto e non si cancella. Questo significa che il nostro cammino sarà tutto in salita: dovremo sopportare anche le conseguenze dei nostri errori e trascinarci dietro, almeno in parte, il fardello delle loro conseguenze, proprio come Adamo ed Eva continuarono a vivere, ma con il peso del rimorso e della tristezza per ciò che avevano fatto e per le sue terribili conseguenze, in particolare il dolore per il fratricidio di Abele da parte di Caino. E tuttavia, una cosa dobbiamo avere ben chiara: nulla è perduto, a partire da quando i nostri piedi smettono di portarci lontano da Dio e tornano a calcare la strada che a Lui conduce. Per quanto ci siamo allontanati, il suo immenso amore ci verrà in aiuto, purché noi rivolgiamo a Lui anche solo un pensiero, anche solo un anelito di desiderio e di rammarico. Lui ci insegnerà come fare per ritrovare la strada: guiderà i nostri passi nella selva intricata e illuminerà le nostre menti confuse…
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