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Prepariamoci: succederà sempre più spesso

Nel settembre del 2015 una ondata di migranti si riversò ai margini dell’Europa centro-meridionale e cercò di passare, da un Paese all’altro, dalla Grecia alla Macedonia, dalla Macedonia alla Serbia, dalla Serbia all’Ungheria e di lì, poi, verso la Germania, la Svezia e altri Paesi del Nord. Ciascuno dei Paesi attraversati cercò di resistere, poi, sotto la pressione fisica di quelle persone e sotto la pressione morale dei mass media del mondo intero, finì per arrendersi e li lasciò "filtrare", sempre più avanti, sino alla frontiera successiva. Soltanto l’Ungheria di Viktor Orbán non volle saperne di considerarli come dei profughi in pericolo di vita e vide in essi, come lo vede tuttora, un gravissimo elemento di destabilizzazione interna, sia sociale che culturale, ed ebbe la forza – il coraggio, per alcuni; la viltà, per altri — di dire no. La polizia ungherese usò la maniera dura e resse alla tensione dovuta al ricatto morale creato dai media, pilotati in senso filo-migrazionista da miliardari come George Soros; a partire dal mese di luglio, le forze armate di quel Paese erano impegnate a erigere un’alta rete metallica — impropriamente chiamata "muro" – al confine serbo, proprio per arrestare la marea e dare un chiaro segnale che, da quella parte, nessuno sarebbe più riuscito a passare. Comunque, quando si verificò il forzamento della frontiera da parte di alcune migliaia di persone, fecero il giro del modo le immagini di una operatrice televisiva ungherese, Petra Lazlo, che, trovatasi in mezzo al parapiglia e alla corsa disordinata dei migranti per oltrepassare la terra di nessuno fra i due Stati, fece lo sgambetto a un siriano, Osama Abdul Mohsen che correva con il figlio in braccio, facendoli cadere e così fermare e identificare dalla polizia. Fra parentesi, lo stesso siriano avrebbe poi dichiarato che quella era stata la sua fortuna, perché quello sgambetto lo aveva reso famoso e gli aveva permesso di trovare accoglienza in Germania per sé e i suoi figli, nonché un lavoro come allenatore sportivo, in una squadra spagnola.

L’opinione pubblica mondiale venne portata a odiare la giornalista ungherese, che pagò il suo gesto con il licenziamento immediato dalla rete televisiva per cui lavorava, e alla quale nulla valsero le pubbliche scuse e la dichiarazione che aveva agito senza cattiveria intenzionale, bensì in stato di panico, data la concitazione della scena in cui era venuta a trovarsi; e a nessuno importò che anche lei, madre di figli piccoli, venisse a trovarsi disoccupata. Nessuno le volle credere, e il fatto che fosse vicina a un movimento di destra rafforzò i peggiori sospetti e i giudizi più impietosi nei suoi confronti. Certo, il suo non fu un bel gesto, su questo non c’è niente da dire; e a renderlo ancor più ingiustificabile è il fatto che quel padre che fuggiva con suo figlio era un siriano, cioè un profugo vero e non uno dei tantissimi falsi profughi che scappano da guerre inesistenti e da pericoli immaginari. E il primo a non volerla perdonare fu proprio il signor Osama, che rilasciò la seguente dichiarazione alla stampa (cfr. Giornaliettismo online del 14/11/2015, che riprende un pezzo di G. Brera su La Repubblica, a sua volta ripreso dall’Huffington post): Non perdono la giornalista. E non mi basta che l’abbiano licenziata. Ha fatto cadere il mio bimbo e lui ha pianto per due ore. Ma non finisce qui. Un anno dopo, Petra Laszlo vince un premio cinematografico per un filmato di 30 minuti dedicato alla rivoluzione ungherese del 1956: e la cosa, non appena viene risaputa, suscita il sacro sdegno di tutti i progressisti d’Europa: come, una "nazista" premiata pubblicamente, dopo quel che ha fatto? Quello sgambetto, secondo loro, l’aveva consegnata una volta per tutte a una vita d’infamia, senza appello e senza possibilità di redenzione: sanno essere terribilmente rancorosi, questi buonisti verso tutti, purché siano straneri; questi professionisti della solidarietà e della accoglienza a senso unico, che non piangono mai per i poveri di casa loro e per le disgrazie dei loro concittadini, magari provocate dai delinquenti stranieri accolti per senso di umanità e incautamente definiti "rifugiati". Non solo: negli stessi giorni, il signor Osama perdeva i diritti di profugo per la banalissima ragione che non aveva voluto imparare la lingua spagnola; e ciò parve una intollerabile beffa ai suddetti signori, abituati a piangere con un occhio solo — il sinistro.

A titolo di esempio, prendiamo questo pezzo di Andrea Tarquini su La Repubblica.it del 20/10/2016, significativamente intitolato: Migranti, premiata la reporter ungherese che sgambettò profughi. Mente la sua ‘vittima’ perde il lavoro. Ne riportiamo la pare iniziale:

Lei, l’operatrice ungherese che amava sgambettare e prendere a calci i profughi e i loro figli al confine ed era diventata un simbolo dell’Europa antimigranti, ha ricevuto un importante premio. Lui, la sua vittima, il migrante arrivato fuggendo tra mille pericoli verso l’Europa sognata, ha perso il lavoro.

Cronache tristi d’autunno nel Vecchio continente, che intanto dice di temere nuove ondate di migranti e fatica a decidere come organizzarsi per affrontarle. 

La storia la ricordano in molti. Insieme alle immagini shock. Correva il settembre 2015, il culmine della grande fuga di profughi e migranti verso l’Europa cui l’Ungheria del popolare premier nazionalconservatore Viktor Orbàn rispose erigendo il suo cosiddetto ‘muro’, cioè la barriera di filo spinato e lame di rasoio lungo tutto il confine con la Serbia.

Alta e atletica, bionda in bel look ariano e jeans, Petra Laszlo, camerawoman di una rete tv pubblica magiara, era stata sorpresa dalle telecamere e dagli smartphone di altri colleghi mentre – inviata alla frontiera per un servizio sulla grande ondata migratoria – da reporter si era trasformata in iniziatrice di spedizioni punitive. Con tutta la sua prestanza aveva cominciato a prendere a calci e sgambettare un gruppo di migranti, compresi un padre e il bimbo suo figlio.

Che cosa si evince da questo brano di prosa? Come al solito nell’area culturale del politically correct — sappiamo che la proprietà di Repubblica, come quella de L’Espresso, è riconducibile all’ingegner Carlo De Benedetti — che degli ariani alti e biondi, dal fisico prestante, "amano sgambettare e prendere a calci", testuale espressione, i profughi e i loro figli; e che l’Europa brutta e cattiva degli egoisti e dei populisti, degli Orban (e dei Salvini) premia simili carnefici, anche se si riconosce che il film premiato non ha nulla a che fare con la vicenda della signora Petra, ma tanto peggio: se ne ricava che il peccato da lei commesso è imperdonabile e inestinguibile e che la rende indegna di ricevere qualsiasi riconoscimento di qualsiasi tipo, anche in ambiti totalmente diversi dalla vicenda per cui è già stata punita con la perdita del lavoro, lei, in casa sua, cittadina europea a pieno titolo, ma evidentemente con meno diritti di chi europeo non è, ma ha "diritto" ad una accoglienza e ad una ospitalità illimitate. E che dire di quei cattivoni che hanno licenziato il signor Osama, reo di una colpa da nulla come quella di non aver fatto l’unica cosa che gli veniva chiesta per restare in Germania, imparare la lingua in cui si svolge il suo lavoro? Dispiace, ripetiamo, che si tratti di un siriano; pure, è necessario che qualcuno lo dica: anche i profughi veri, come lo sono i siriani, non dovrebbero avere il diritto all’ingresso automatico in Europa: se passa questo principio, infatti — ma, nella realtà dei fatti, è già passato, eccome — qualsiasi popolazione coinvolta in un conflitto avrebbe il diritto a varcare le frontiere di qualsiasi Paese, il quale sarebbe obbligato a ospitare i nuovi arrivati, fossero anche milioni e milioni, per il solo fatto che scappano da una guerra. Ma quando l’Italia era straziata da una duplice guerra, la Seconda guerra mondiale coi bombardamenti dei "liberatori" e le rappresaglie dei nazisti, e la guerra civile, con le atrocità innominabili compiute da entrambe le parti, nessuna fuga massiccia di popolazione si verificò verso la Svizzera, tanto meno di vecchi, donne e bambini (mentre oggi si parla quasi sempre di uomini in buona salute): come mai? Evidentemente, anche il tabù dei veri profughi è stato costruito dalla cultura mondialista negli ultimi decenni, e, senza dubbio, pensato apposta per sommergere l’Europa da ondate di milioni di africani e asiatici, e farle perdere per sempre la sua fisionomia cristiana e occidentale. Ad ogni modo, resta il fatto che i profughi veri sono pur sempre una piccolissima minoranza, meno del 10% di quelli che battono alle porte dell’Europa, probabilmente meno ancora, forse il 5% di quelli che si presentano in Italia, o, per dir meglio, che fanno irruzione in Italia (e parte dei quali vuol poi proseguire verso altri Paesi: vedi le recenti e meno recenti tensioni con la Francia e l’Austria, nostri vicini transalpini, i quali su questa materia, coi fatti e non a parole, la pensano in maniera ben diversa da come la pensano i nostri politici, ossia che i confini sono una cosa seria e che sono stati creati apposta per segnare la difesa di una nazione, altrimenti tanto varrebbe dichiararli annullati e invitare chiunque ad entrare liberamente, il che è precisamente quel che sta facendo l’Italia).

Ma ora torniamo alla giornalista ungherese e alla sua sgradevole vicenda. Il suo gesto, lo ripetiamo, non è in alcun modo giustificabile; per dirla francamente, ha qualcosa di ripugnante. Però, guardiamoci negli occhi e smettiamola di fare gli ipocriti: vi sono cose sgradevoli, e perfino ripugnanti, che vengono compiute ogni giorno, semplicemente perché sono necessarie, o perché la società non vuole privarsi di alcune cose che richiedono tali operazioni: e nessuno si indigna, nessuno protesta, nessuno si straccia le vesti. Le anime belle che fanno tanto chiasso per un migrante finito a terra, peraltro senza farsi niente (anche se il suo bambino ha pianto per due ore, il che francamente ci pare un po’ esagerato) hanno mai visitato un macello comunale? Eppure, probabilmente, molte di esse mangiano carne quando siedono a tavola, e con molto gusto: se vedessero quel che accade fra quelle mura, forse diventerebbero vegetariane (come lo siamo noi, senza sentirci degli eroi e non per aver assistito a quelle scene, ma per convinzioni filosofiche). Quel che vogliamo dire è che è facile salire sul palco delle anime nobili e scagliare folgori contro chi sbaglia, ma la verità è che certe cose sono necessarie, anche se non sono belle. In quel caso, era necessario, secondo noi, che l’irruzione dei migranti ricevesse una risposta: certo, vi sono le forze dell’ordine per questo e non è necessario che i privati cittadini si mettano a fare lo sgambetto. Ma il principio che da noi si è letteralmente liquefatto, è che i confini della Patria sono sacri e che non è lecito calpestarli a chiunque, ad esempio da masse incontrollate e incontrollabili, le quali prima fanno irruzione in casa altrui, e solo poi accettano, quando lo accettano, di lasciarsi identificare e di dimostrare che sono realmente ciò che dicono di essere. Nel caso del signor Osama, egli voleva arrivare in Germania, attraversando cinque o sei frontiere senza render conto di niente a nessuno, in barba alla Convenzione di Dublino, la quale prevedeva che un profugo dovesse lasciarsi identificare nel primo Paese in cui arrivava (e questa era una norma, ora in via di modifica, che penalizzava soprattutto l’Italia; ma i politici italiani erano ben lieti di farsi penalizzare, perché non ritenevano che i confini siano una cosa seria e non consideravano una priorità quella di impedire l’ingresso a masse di persone che poi, molto probabilmente, non sarebbe più stato possibile respingere, anche se fosse risultato che non avevano alcun titolo per rimanere). Quel che stiamo tentando di dire è che, specialmente noi italiani, e specialmente per effetto della incessante propaganda migrazionista del signor Bergoglio e il ricatto morale della sua neochiesa, il gesto istintivo, e non bello, della signora Petra Laszlo risulta incomprensibile, mentre, se inquadrato nel suo preciso contesto — una massiccia irruzione oltre le frontiere della propria Patria — acquista un significato ben diverso da come lo fanno apparire i soliti buonisti e garantisti a senso unico. Un cittadino, fiero, di una nazione fiera, non considera una cosa normale che una folla incontrollabile di persone di dubbia provenienza irrompa nel proprio Paese; e il suo istinto è quello di reagire, di opporsi. Questa è una cosa difficile da capire, in Italia, dove da sempre l’opinione pubblica sta dalla parte di colui che scappa e mai dalla parte del poliziotto che lo sta inseguendo, molto probabilmente per delle validissime ragioni. Da noi, in realtà, sarebbe maggiormente capito lo sgambetto di un cittadino al poliziotto, che non al fuggiasco: perché chi fugge dalla polizia, da noi, si pensa che debba avere le sue buone ragioni, e ciò perché gli italiani non sono ai riusciti a diventare un popolo. Per un popolo che sia tale, la polizia va rispettata nel suo lavoro, che non è un lavoro facile, anzi, spesso sgradevole, oltre che pericoloso. Ma, come dicevamo, anche le cose sgradevoli devono esser fatte. Forse che un poliziotto, che è anche un padre di famiglia, prova gioia nel mettere le manette a un altro padre di famiglia, sorpreso a rubare? Crediamo proprio di no: pure, lo deve fare, e i cittadini dovrebbero collaborare con lui, non parteggiare per il delinquente. Da noi, purtroppo, la cultura progressista, buonista e cattocomunista, si commuove sempre e solo per chi scappa, sia pure un delinquente, un falso profugo che ringrazia dell’ospitalità, andando in giro a spacciar droga. Quasi tutto l’establishment culturale, a cominciare dalla neochiesa, è dalla sua parte: poverino, ha sbagliato, ma bisogna capirlo, perdonarlo. Quelli che non bisogna perdonare sono i cattivi come la signora Petra. Quelli, non solo bisogna licenziarli, ma anche disprezzarli e dare loro il bando morale perpetuo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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