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Lottare per la verità: ma cos’è la verità?

Al precedente articolo: Vale la pena di combattere per la verità? (pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 15/04/2015), un carissimo amico ci ha risposto con una lettera affettuosa e commovente, che ci è parsa meritevole di essere riprodotta quasi per intero, tali e tanti sono gli spunti di riflessione a cui si presta, su un tema che sappiamo essere alquanto sentito, nei termini di una attualità che potremmo definire quasi drammatica:

Ti capisco, ma penso anche a coloro che, sposata una causa oramai chiaramente persa, sono andati a combattere per " l’ onore d’ Italia " e hanno fatto la fine che hanno fatto e ottenuto la "damnatio memoriae". Vale pena sfidare il mondo a duello per l’ "onore" di una battona?  Le forze in campo oggi sono tali che una  tal lotta impari non  ha, a mio parere,  nessun senso. Non dico di anteporre il proprio "particulare", ma almeno accontentarsi di non cooperare al male, e mantenere vigile la facoltà di leggere la realtà, di andare al precipizio a cui siamo condotti almeno sapendolo, e non come oche giulive. Scarsa consolazione!  Eppure… "semper sapientis est habitum necessitati parere" – e anche in passato la "iniquitas temporum" ha consigliato o imposto di non occuparsi della "res publica". Quanto alla Chiesa, mai come ora mi chiedo cosa in essa  ci sia stato  di vero e di santo, visto che tutte le mutazioni intervenute negli ultimi tempi depongono per una natura puramente umana di essa. Ho sostenuto la mia lotta personale per la fede, anche tacitando la ragione, quando almeno c’ erano motivi per credere e una fede per cui valeva la pena di lottare.  Ma di fronte alle pagliacciate dei tempi ultimi e alla pochezza degli uomini di chiesa, non sento più alcun desiderio. Il fatto che mi vogliano far vedere la luna nel pozzo mi irrita e lo sento come una offesa alla logica e all’intelligenza. Pago naturalmente con un senso di frustrazione e inutilità, con la solitudine e l’ incomprensione – anche in famiglia. Ma se tanto mi dà tanto, che vale nelle fata dar di cozzo?

Mio padre che aveva visto i tempi suoi, il sacrificio generoso della Folgore e dell’ VIII Bersaglieri a El Alamein  e poi le giravolte e i voltafaccia e aveva sperimentato di che pasta son fatti per la maggior parte gli uomini, si teneva pure i suoi pensieri per sé e a un tale, ricco e possidente, che nel dopoguerra lo esortava ad opporsi al modo in cui andavano le cose, rispose che teneva sempre in casa un mazzo di fiori freschi da offrire al prossimo vincitore, chiunque fosse.

Non certo ti smuoverò con  queste mie diaboliche esortazioni ad una troppo umana  prudenza, e forse ragiono da vecchio e  da depresso e sconfitto, ma perché sacrificarsi e per chi?  Per la verità? e "quid est veritas ?"… "Sella in curuli struma Nonius sedet, per consulatum peierat Vatiniu: Quid est, Catulle, quid moraris emori?"[…]

Ti aggiungo un altra osservazione: Onoro sull’ altare del mio cuore  coloro che hanno combattuto fin nelle strade di Berlino.

Ma mi chiedo: battendoci per l’"onore" nostro o di Dio (e siamo  sicuri della "verità"? – ché neppure Cristo rispose a Pilato),  saremmo noi  eroici difensori di Termopili o solo patetici don Chisciotte bisognosi di un baccelliere Sansone Carrasco – cavaliere della Bianca Luna?

Sì: qui ci sono veramente tutte le possibili obiezioni a quanto andiamo sostenendo da sempre, ossia che non si può tacere, mentre la menzogna trionfa, spacciata per verità, e il popolo italiano viene doppiamene ingannato e tradito, dalle sue guide politiche e dalle guide spirituali, le une e le altre colpevolmente alleate nel favorire interessi e disegni che non conducono al bene del nostro Paese e della nostra gente, ma, semmai, al bene di qualcun altro, di miliardari come George Soros e altri infami speculatori, impegnati a giocare sulla pelle dei popoli per ammassare ricchezze favolose con le quali imporre un totalitarismo planetario mascherato da filantropismo.

Dunque, visto che sono tante le persone che la pensano come il nostro amico, e visto che, a nostro avviso, è proprio in momenti storici come quello che stiamo vivendo, che bisogna evitare di scendere nelle catacombe e affrontare, invece, il nemico a viso aperto, a costo di passare per dei don Chisciotte (paragone comunque non disonorevole), vogliamo considerare con la massima serietà queste affermazioni, discutendole punto per punto.

Primo: Vale pena sfidare il mondo a duello per l’ "onore" di una battona?  Le forze in campo oggi sono tali che una  tal lotta impari non  ha, a mio parere,  nessun senso. Rispondiamo che sì, vale sempre la pena di battersi, ma non per l’onore di una "battona", bensì per il nostro: perché non potremmo più guardarci allo specchio, se ci tirassimo indietro proprio ora che nostra madre (perché quella battona è pur sempre nostra madre, anche se caduta molto in basso) si trova nel momento più triste e umiliante della sua esistenza. Una lotta così impari non ha alcun senso? Ma il senso della lotta non deriva dalle probabilità di successo, specie quando si tratta di una lotta ideale. Ci si batte perché si crede che quella causa meriti di essere difesa e non perché si spera di vincere; né ci si rifiuta di battersi perché si teme di perdere. Altrimenti, portando il ragionamento del nostro amico fino all’estremo (e sappiamo che tale non è il suo caso), le uniche battaglie meritevoli di esser combattute sarebbero quelle in cui esiste una fondata probabilità di vittoria; ma a quel punto ci pare che non sarebbe più neanche necessario combattere, perché basterebbe aspettare che il frutto maturo della vittoria ci cada in grembo, quando l’avversario si sarà totalmente indebolito. Giungeremmo così alla conclusione, assurda oltre che immorale, che le uniche battaglie meritevoli di essere combattute sarebbero proprio quelle che non ci sarebbe bisogno di combattere, essendo la vittoria solo questione di tempo e di pazienza. Ossia: per un eccesso di prudenza, ci metteremmo in condizione di espropriarci da noi stessi dell’unica arma davvero vincente che possediamo, e che qualsiasi uomo, volendo, possiede: la volontà di battersi. Chi non ha questa volontà, è sconfitto in partenza, anche se, per ipotesi, si trovasse a disporre di una schiacciante superiorità materiale su qualunque avversario. Viceversa, chi crede nella propria causa, nella sua bontà e nella sua legittimità, è già vittorioso ancor prima di arrivare alla linea del fuoco: perché la vittoria più importante, quella di ordine morale, gli appartiene di diritto sin dal principio, quando ancora non è stato sparato un solo colpo. Lo diciamo senza alterigia e senza compiacimento: la posta in gioco, nelle battaglie di ordine ideale, è, innanzitutto e soprattutto, quella morale, perché i suoi risultati si prolungano al di là e al di fuori del tempo e dello spazio: appartengono all’eternità e saranno patrimonio di tutti. Viceversa, le battaglie condotte per ragioni di tipo materiale e concreto, ancorché si tratti di aspirazioni e rivendicazioni assolutamente lecite, non arriveranno mai a tanto: si fermeranno, per forza di cose, e nel più fortunato dei casi, sulla soglia di casa.

Secondo: anche in passato la "iniquitas temporum" ha consigliato o imposto di non occuparsi della "res publica… A nostro parere, non è questione di passato o di presente; non è questione di tempi più o meno nefandi, più o meno ingrati per gli amanti della res publica. Al contrario, lo ripetiamo: quale tempo è più necessario, quale tempo ha maggiormente bisogno di noi, di ciascuno di noi, se non quello in cui i migliori vanno perdendo le speranze, e pare che solo un miracolo ci possa ancora trattenere sull’orlo dell’abisso? È proprio in simili frangenti che bisogna mettersi in gioco; per correre in aiuto del probabile vincitore per saltare sul carro di chi ha già vinto, non c’è bisogno di amletici dilemmi, né di sottili ragionamenti: il mondo è pieno di mosche cocchiere e di aiutanti del più forte; quello di cui si sente il bisogno, è che qualcuno corra in aiuto del più debole, beninteso se costui merita la nostra solidarietà, la nostra stima e la nostra amicizia. Gli uomini migliori sono sempre stati di questa opinione. Forse che Dante si chiese se gli sarebbe convenuto entrare a far parte del consiglio dei Priori, quando la sua Firenze era dilaniata dai contrasti fra Bianchi e Neri e il suo migliore amico, Guido Cavalcanti, si era reso responsabile di azioni meritevoli dell’esilio, per la pace e la serenità cittadine? Dante avrebbe avuto cento buone ragioni per tirarsi indietro, per stare a vedere cosa sarebbe accaduto nei prossimi mesi: se lo avesse fatto, non sarebbe stato condannato all’esilio, né alla confisca dei beni e, infine, alla pena capitale in contumacia. Ma egli non fece tali ragionamenti: non si tirò indietro; accettò di mettersi in gioco, di affrontare il pericolo supremo per il bene della patria; e votò con gli altri la condanna all’esilio per i più violenti delle due fazioni, compreso il suo amico Guido. È per questa sua magnanimità, oltre che per la sua gloria poetica, che egli vive ancora nel ricordo di tutte le generazioni; scegliendo il massimo rischio e la massima scomodità per se stesso, ha guadagnato l’immortalità. Oppure pensiamo a Severino Boezio: la più elementare prudenza gli avrebbe suggerito di tacere, di non esporsi allorché il senatore Albino venne accusato di tradimento davanti al re Teodorico: ma egli non ascoltò la voce della prudenza, bensì quella dell’onore, della virtù e dell’amore per la giustizia. Non ragionò da piccolo uomo preoccupato di se stesso, ma da uomo grande, pensoso del bene comune e dei destini dell’Italia. Se oggi abbiamo due tesori come la Divina Commedia e la Consolazione della filosofia, è perché questi due giganti scelsero la strada più malagevole, la più rischiosa, la più ingrata, ma la sola che venisse indicata loro dal rispetto di se stessi. Dante fu criticato e calunniato dai suoi concittadini, Boezio era stato criticato aspramente e abbandonato dagli altri senatori, laddove entrambi si erano esposti per difendere la causa di tutti. Non importa: la storia ha giudicato quei fiorentini e ha giudicato quei senatori, e poi ha scordato i loro volti; ma i nomi di Dante e di Boezio brilleranno di gloria imperitura.

Terzo: Ho sostenuto la mia lotta personale per la fede, anche tacitando la ragione, quando almeno c’ erano motivi per credere e una fede per cui valeva la pena di lottare. Ma di fronte alle pagliacciate dei tempi ultimi e alla pochezza degli uomini di chiesa, non sento più alcun desiderio. I motivi per credere (o meno) ci sono sempre, e oggi ce ne sono anche più di un tempo; vale sempre la pena di lottare per la fede. Certo, essere scoraggiati è cosa umana: perfino gli Apostoli si scoraggiarono quando Gesù venne arrestato, processato e crocifisso; eppure si ripresero quasi subito e poi fecero quel che dovevano: andarono in ogni angolo del mondo a predicare il Vangelo. Le pagliacciate della neochiesa e la pochezza degli uomini ci ricordano che la carne è debole e che tutti, noi compresi, senza il sostegno della grazia, non siano che poveri essere di creta. Però, con il soffio dello Spirito, possiamo fare grandi cose: non per merito nostro, ma per l’opera e la gloria di Dio. In ogni caso, la messe è molta e gli operai sono pochi, quindi c’è bisogno di tutti.

Quarto: Mio padre (…) a un tale (…) lo esortava ad opporsi al modo in cui andavano le cose, rispose che teneva sempre in casa un mazzo di fiori freschi da offrire al prossimo vincitore, chiunque fosse. Sì: ma tuo padre si era battuto a El Alamein. Non solo: nel campo di prigionia, negli Stati Uniti, aveva rifiutato di aderire al vergognoso tradimento di Badoglio, insieme a tanti altri, subendo un più duro trattamento da parte dei vincitori (nonché "liberatori"). Si era dunque battuto due volte, prima con le armi (nettamente impari rispetto a quelle del nemico) e poi con la sola arma che gli fosse rimasta: la fierezza. E con ciò si era anche guadagnato il diritto di essere un po’ cinico, negli anni del dopoguerra. Ma noi, che non ci siamo mai battuti sul serio, non abbiamo quel diritto.

Quinto: Perché sacrificarsi e per chi?  Per la verità? e "quid est veritas ?"(…) E siamo  sicuri della "verità"? Neppure Cristo rispose a Pilato. Sì, siano sicuri: la verità è l’essere; quindi, la verità è Dio. Come Lui stesso ci ha insegnato: Io sono la via, la verità e la vita. Gesù non ha risposto a Pilato non perché non avesse parole da dirgli, ma perché quello non l’ascoltava più: e Gesù parlava solo con chi aveva l’animo disposto ad ascoltare. Quella di Pilato, cos’è la verità?, non era stata una vera domanda, piuttosto un’affermazione scettica. Ma Gesù, per testimoniare la verità, che era Lui stesso in quanto fedele esecutore della volontà del Padre, seppe andare sino in fondo, senza riguardo per se stesso e neppure per i suoi: si può immaginare uno strazio più grande di quello di sua Madre, ai piedi della croce? E Lui glielo avrebbe imposto, se non avesse creduto nella verità?

Sesto: Battendoci per l’"onore" nostro o di Dio, saremmo noi  eroici difensori di Termopili o solo patetici don Chisciotte bisognosi di un baccelliere Sansone Carrasco? Non saremmo né eroici difensori delle Termopili, né patetici don Chisciotte; o forse saremmo un po’ l’una e un po’ l’atra cosa. Come le si può nettamene separare? Non vi è qualcosa di eroico in don Chisciotte, e qualcosa di folle nei trecento spartani di Leonida? C’è bisogno di entrambe le cose: eroismo e follia. A meno di voler restare alla finestra mentre gli altri fanno la storia, in attesa di vedere come andrà a finire. Il male della storia è quando gli uomini si scordano che a farla non sono loro, ma Dio per mezzo di loro; e che Dio sa scrivere dritto anche sulle righe storte. Oggi, le righe della storia sono più storte che mai; e così quelle della Chiesa. Ma Dio, che può tutto, non saprà trarre il bene anche dal male?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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