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Modernità: bisogno di sicurezza e gusto del rischio

I bisogni sono anche, per ciò stesso, dei diritti? Prendiamo il caso della sicurezza: è nell’istinto degli esser umani il bisogno di sentirsi al scuro. Ciò promuove automaticamente quel bisogno al rango di un diritto? Il diritto è un bisogno che è stato riconosciuto come legittimo dalla società e, di conseguenza, garantito, nel senso che la società si impegna a farlo rispettare e adotta le misure e le strategie che a ciò sono necessarie. Esiste, pertanto, un ragionevole diritto alla sicurezza? Per rispondere a questa domanda, riteniamo che sia indispensabile operare un distinzione preliminare fra veri bisogni e bisogni artificiali. I veri bisogni sono quelli dei quali l’essere umano non può fare a meno, ai quali non potrebbe rinunziare senza pregiudicare se stesso e la propria sopravvivenza. Ora, nessuno può essere costretto a pregiudicare la propria sopravvivenza; se ciò, in casi particolarissimi, può venirgli richiesto, si configura comunque non come un obbligo ma come una richiesta e, quindi, come una libera scelta. Nessuno chiese ai cartaginesi di sacrificarsi fino all’ultimo uomo, al termine della terza guerra punica, né ai berlinesi di farsi uccidere tutti, allorché i sovietici irruppero nella capitale tedesca: vi sono momenti e situazioni nei quali il cittadino sente spontaneamente di dover sacrificare tutto, anche la vita, per un bene collettivo di ordine superiore, che coincide con un imperativo morale più che con una pretesa, più o meno forzata ed arbitraria, delle pubbliche autorità. D’altra parte, una delle caratteristiche essenziali della modernità – forse addirittura la sua caratteristica essenziale – è proprio la mescolanza e la confusione deliberata che si opera fra i veri bisogni e quelli artificiali, creati dal sistema pubblicitario e mediatico per alimentare la legge incessante dell’offerta e del consumo: mescolanza talmente sistematica e talmente inestricabile che l’uomo stesso, il soggetto dei propri bisogni, stenta alquanto a riconoscere quelli veri da quelli non veri. Il meccanismo consumista è fatto e studiato in maniera tale che un numero crescente di persone si auto-convince di non poter fare a meno della soddisfazione di una serie di bisogni che, in realtà, non sono tali, bensì capricci passeggeri e perfettamente futili. Al tempo stesso, l’ignoranza di se stessi è talmente profonda, che non pochi finiscono per non saper più "leggere" e riconoscere i bisogni veri che il loro essere reclama, sicché li trascurano o perfino li ignorano: con lo stupefacente risultato che si vedono persone le quali, prive del necessario, inseguono il superfluo, e, mentre si negano l’essenziale, pretendono di concedersi molte cose superflue. Potremmo anzi dire che questo strano spettacolo fa parte del paesaggio umano abituale della nostra società: ed è strano solo se guardato con gli occhi del paradigma precedente, quello pre-moderno, fondato sulla sobrietà e, quindi, sulla soddisfazione dei bisogni veri, e di quelli soltanto; mentre nel paradigma attuale, fondato sullo spreco, la cosa appare come assolutamente naturale. La lingua moderna ha perfino creato una parola truffa che svolge la funzione di occultare la natura futile e inautentica dei bisogni artificiali: tale parola è esigenza. Quando qualcuno incomincia a parlare delle proprie esigenze, si può esser certi che vuole auto-convincersi che i suoi capricci sono delle cose molto serie, dei bisogni perfettamente autentici e, quindi, perfettamente legittimi, che nessuno ha il diritto di contrastare o limitare, perché ne andrebbe – niente di meno – della sua realizzazione come persona. E chi potrà essere mai così crudele, così ottuso, così reazionario, da voler deliberatamente ostacolare la realizzazione del signor X o della signorina Y? Non sia mai. Anche se ci sarebbe un bel discorso da fare proprio sul concetto del "realizzarsi", che è divenuto sorgente, anch’esso, di molte e volute ambiguità (quante cose sembrano chiare ed evidenti, nella cultura moderna, che invece, guardate da vicino, non sono né chiare, né evidenti!); ma la cosa ci porterebbe troppo lontano, per cui lo faremo, semmai, un’altra volta.

Ora possiamo domandarci se il bisogno di sicurezza sia un bisogno vero e, perciò, se si configuri, in linea di massima, come un diritto sociale. Diciamo in linea di massima, perché dal riconoscimento di un autentico bisogno non scaturisce necessariamente un diritto sociale. Per esempio, se in una famiglia molto povera ci sono, poniamo, dieci bocche da sfamare, ma sul tavolo c’è pane solamente per tre o quattro, il bisogno di nutrirsi, che è un bisogno vero, perché assolutamente primario, deve arrendersi davanti a un triste dato di fatto: non c’è pane a sufficienza per tutti; e, siccome coi fatti non si deve mai litigare, ecco che il diritto al pane scivola – purtroppo, in quel caso – nel limbo dei meri desideri. Non è superfluo ricordare questo fatto, e cioè che a ciascun bisogno non sempre corrisponde, di necessità, il corrispondente diritto, perché una delle ragioni dello stato di perenne sofferenza e frustrazione in cui versa la società moderna, e anche la psicologia dell’uomo moderno, è l’aspettativa irrealistica, e la relativa pretesa, di veder prontamente non solo riconosciuto, ma anche soddisfatto ogni singolo bisogno; mentre la realtà ci insegna che la possibilità di soddisfare i bisogni, anche i più legittimi, non scaturisce dal nulla, non è una conseguenza meccanica e necessaria di una legge o di una volontà espressa dal corpo sociale, ed è sempre limitata, parziale, imperfetta, anche se l’ambito delle sue possibilità dipende da svariati fattori di ordine pratico e organizzativo, oltre che morale e culturale, ed è quindi suscettibile di ampliarsi o restringersi, a seconda delle circostanze storiche. 

Dunque, ci vogliamo chiedere se il bisogno di sicurezza sia un bisogno vero e quindi se si possa configurare anche come un diritto. Considerandolo attentamente, finiremo, crediamo, per cogliere la sua natura ambigua e difficilmente afferrabile. Da un lato, stentiamo a riconoscerlo come un bisogno essenziale, nel senso in cui lo sono la soddisfazione della fame, della sete o della stanchezza, perché l’uomo non potrebbe vivere a lungo senza bere, senza nutrirsi e senza riposare per ritemprare le forze, e tuttavia osserviamo che molti uomini, se costretti, riescono a sopravvivere anche nel caso di una pressoché totale mancanza di sicurezza. I sopravvissuti di un naufragio, su di un’isola deserta e selvaggia; gli abitanti di una città assediata e continuamente bombardata, i quali, quando escono dai rifugi antiaerei, non sanno neppure se ritroveranno le loro case, le loro strade, i loro quartieri; le persone che hanno improvvisamente perso il lavoro, o che sono state inaspettatamente lasciate dal marito o dalla moglie, o quelle che vengono colpite da una grave e fulminea malattia: tutti costoro si trovano gettati in situazioni di precarietà, angoscia, insicurezza, in seguito al venir meno delle normali coordinate della loro vita precedente. In pratica, l’essere umano si sente sicuro, relativamente e ragionevolmente sicuro, quando può fare affidamento su una serie di sicurezze fondamentali: di ritrovare la propria casa quando torna dal lavoro; di ritrovare le persone care; di ritrovare il proprio lavoro, il mattino dopo; di sapere che il mondo, fra qualche ora o fra cinque minuti, sarà lo stesso di sempre, lo stesso che egli conosce e al quale si è abituato. L’aria stralunata delle persone che sopravvivono a un violento terremoto, o a un crudele bombardamento aereo; l’aria stravolta dei sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki si spiega, oltre che con la sofferenza fisica e morale, anche con lo shock psicologico di chi ha fatto la brutale scoperta che nulla, nella vita, è realmente garantito una volta per tutte: neppure l’esistenza fisica di una città, o di una montagna, o del corso di un fiume; ma che tutto, da un momento all’altro, potrebbe essere cancellato, spostato, radicalmente modificato.

Appare perciò evidente che noi tutti abbiamo, istintivamente, un profondo bisogno di sicurezza; ma, nello stesso tempo, che potremmo adattarci anche a vivere in assenza delle più elementari sicurezze, se vi fossimo costretti. Pertanto è inevitabile concludere che la sicurezza è un desiderio, più che un bisogno: se si trattasse di un vero bisogno, non potremmo vivere senza poterlo soddisfarle, impazziremmo o moriremmo. Un essere umano non può vivere senza cibo e senza sonno, ma può vivere nella più grande insicurezza: vive male, senza alcun dubbio, ma vive. Ora, sono proprio queste le condizioni nelle quali si trova a dover vivere, sempre più spesso, l’uomo moderno: e non per effetto di circostanze particolari ed eccezionali, ma per effetto di circostanze ordinarie e abituali. Potremmo anzi affermare che uno dei caratteri specifici della modernità è proprio l’abituale e sistematica mancanza di sicurezza, dovuta sia alla scomparsa dei vecchi punti di riferimento (e questo è tipico di ogni nuovo paradigma rispetto a quello che lo ha preceduto), sia alla sua stessa organizzazione materiale, tecnologica e produttiva. Esplicite o implicite, le regole della società moderna prevedono che un lavoratore non abbia affatto la sicurezza di conservare il proprio lavoro, ma di poterlo perdere in qualsiasi momento, e non per sua colpa, magari all’età di quaranta o cinquanta anni; oppure che un pensionato, dopo una vita di lavoro, possa perdere tutti i suoi risparmi, non per una sua particolare imprudenza, ma per una operazione d’investimento sbagliata da parte della sua banca, alla quale aveva affidato il suo denaro. Questi sono solo due esempi, ma potremmo farne moltissimi altri, a cominciare da quelli afferenti la sfera più preziosa e immediata della nostra vita: l’incolumità fisica. Nella società moderna, il fatto che una comitiva di 200 pensionati, di ritorno da una settimana di vacanze ai Caraibi – il sogno di tutta la loro vita – precipiti con l’aereo e che periscano tutti; il fatto che le persone, quando escono di casa al mattino, non abbiano la certezza di tornare alla sera, perché potrebbero perire di una morte violenta, stritolate sotto le ruote di un autotreno, o dilaniate dalle schegge di un ordigno (si pensi agli attentati di mafia), o uccise da un rapinatore ottenebrato da sostanze stupefacenti, o da un terrorista, o da un pazzo dimesso con troppa leggerezza da una struttura psichiatrica, tutto questo è entrato a far parte del nostro normale (si fa per dire) orizzonte psicologico ed esistenziale. A rigore, ogni volta che usciamo di casa e salutiamo nostra madre o nostra moglie, dovremmo pensare che quella, forse, è l’ultima volta che le vediamo, e ciò non solo se il nostro Paese si trova coinvolto in una guerra, o se è colpito da qualche catastrofe naturale, ma anche in un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi, in assenza di segnali d’allarme di alcun tipo. E che dire di un bambino che in casa sua, a pochi metri dai suoi genitori, bene al caldo e al riparo da ogni spiffero d’aria, navigando su internet può essere ipnotizzato e risucchiato in un gioco elettronico che lo rende dipendente e gli provoca danni psicologici assai gravi, o, peggio ancora, può trovarsi irretito in un rapporto morboso e, forse, mortale, con qualche spietato pedofilo dalle tendenze sadiche, che si cela dietro il volto fittizio di un "amico" in un social network? Tutta la vita moderna si è fatta pericolosa, perché  il pericolo è diventato parte integrante di essa, sia in senso fisico che in senso psicologico e morale. Attenzione: un certo grado di precarietà e d’insicurezza ha sempre connotato l’esistenza umana, anche nelle società più stabili e bene organizzate; ma il tratto distintivo di quella moderna è dato dalla precarietà eretta a norma ineludibile. Di più: la precarietà, e quindi la relativa insicurezza, sono diventate un valore; un valore alla rovescia, ma pur sempre un valore. Nietzsche, in un celebre aforisma, esaltava la vita "pericolosa", così come Marinetti, nel Manifesto del Futurismo, esaltava il gusto del pericolo: concetti che ritornano continuamente nel cinema, nella letteratura e nei testi delle canzoni dei nostri giorni. L’uomo moderno da un lato è angustiato, nevrotizzato, atterrito dalla mancanza di sicurezza in cui si svolge la sua vita, al punto da non voler più fare figli per non gettarli in un simile incubo; dall’altro, forse per reagire, forse per assuefazione, incomincia a provare il gusto dell’insicurezza, e s’inventa sempre nuove maniere di mettere a repentaglio la propria vita, ad esempio con gli sport pericolosi. Gettandosi da un aereo a quattromila metri di quota e poi aprendo il paracadute solo all’ultimo momento, in modo da provare le sensazioni di colui che pare destinato a sfracellarsi, egli, probabilmente, non solo vuole esorcizzare la paura della morte, ma vuole anche sentirsi vivo, riaffermare i diritti della vita in un contesto che la mette continuamente in forse, che la offende, la minaccia, la mortifica. Al livello estremo di questo atteggiamento di protesta contro l’insicurezza e contro la morte, troviamo lo "sport" della roulette russa, come si vede nel film Il cacciatore, di Michael Cimino, dove un reduce dal Vietnam gioca la propria vita accettando scommesse sulla probabilità che il prossimo proiettile della sua pistola, inserito a caso nel tamburo, gli trapasserà il cervello, oppure no.

Il problema fondamentale dell’uomo moderno è che egli ha scordato chi è; o forse non lo ha mai saputo. Dante sapeva chi era, ma già Petrarca non lo sapeva più; con Pirandello, arriviamo alla frammentazione e alla totale dissoluzione dell’io: ciascuno è se se stesso, centomila altri e, alla fine, nessuno. Egli pertanto deve decidere se vuole giocare col rischio o se vuole recuperare il proprio bisogno di sicurezza e trasformarlo, se non in un diritto, il che sarebbe velleitario, in una legittima aspirazione, da perseguire con impegno e coerenza. Per esempio, mettere su una famiglia significa trasmettere ai suoi componenti, e specialmente ai bambini, quel senso di protezione che viene dalla ragionevole sicurezza di non essere piantati in asso. Un genitore non può promettere a suo figlio: Tu non morirai, e neppure: Io non morirò, ma può promettergli: Fino a quando sarò in vita, non ti lascerò solo. È di questa sicurezza che noi tutti abbiamo bisogno. E questo, sì, è un bisogno vero…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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