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La sola Verità per cui merita di vivere e morire

Ogni tanto qualche amico ci domanda che ne è dei nostri studi filosofici e perché non scriviamo più, se non raramente, articoli e saggi di filosofia. Sanno che la filosofia è sempre stata al centro dei nostri interessi e che di ogni cosa ci ha sempre affascinato il lato filosofico, più che quello storico, o scientifico, o psicologico, sebbene ciascuno di questi abbia la sua importanza e a ciascuno di essi abbiamo dedicato parte delle nostre energie e delle nostre ricerche. Ora, però, essi hanno notato che gli scritti di filosofia, un tempo centrali nel nostro lavoro, adesso ci escono dalla penna, per così dire, con il contagocce. In effetti, proviamo una sorta di ritrosia a dedicarci a quegli studi che per tanti anni ci avevano entusiasmato e ai quali attribuivamo il valore di una clavis universalis per sollevare il velo del mistero e gettare uno sguardo veritiero sulle cose e sul mondo. In compenso, come essi hanno notato, scriviamo sempre più spesso, e ormai quasi esclusivamente, su questioni di teologia e di fede, oppure di storia della religione. E un motivo c’è, che spiega il crescere di questo nuovo interesse — nuovo, si fa per dire; l’interesse è vivo e presente da moltissimo tempo — e il progressivo affievolirsi del precedente.

Per spiegare il fatto, ci serviremo di un episodio storico, affrettandoci a precisare che, con questo esempio, non intendiamo affatto suggerire una analogia fra noi e uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi. Dunque: era il 6 dicembre 1273 e un sacerdote, un frate domenicano, stava celebrando la santa Messa, con il fervore di sempre: san Tommaso d’Aquino, chiamato il doctor angelicus, tanto la sua opera speculativa, filosofica e anche teologica, era considerata universalmente una specie di dono divino, per la sublime altezza cui quella mente eccelsa aveva saputo innalzarsi nello studio delle cose terrene e di quelle ultraterrene. Fino a quel momento, nella sua vita operosissima, tutta dedicata all’insegnamento e alla composizione di una vastissima opera di pensiero, fra cui spicca come una gemma ineguagliabile la Summa theologiae, egli aveva goduto di una buona salute e aveva mostrato una perfetta efficienza. Quel giorno, però, mentre sta celebrando l’ufficio divino, qualche cosa di misterioso e inesprimibile deve essere accaduto; la sua anima deve aver fatto un’esperienza mistica, estatica, tale da cambiare per sempre tutto il suo modo di vedere le cose e di porsi di fronte alla vita. Sta di fatto che, da allora, egli decide di interrompere bruscamente sia l’insegnamento, sia la scrittura delle sue opere e si raccoglie tutto in se stesso. I suoi confratelli tetano di fargli cambiare opinione, ma sena alcun risultato. Si sa solo che al suo padre spirituale, Reginaldo da Piperno, ha detto: Non posso riprendere le cose di prima, perché tutto quello che ho scritto è come paglia, in confronto a ciò che mi è stato rivelato. Ora, l’unica cosa che desidero è che Dio, dopo aver posto fine alla mia opera di scrittore, ponga termine presto anche alla mia vita. La sua preghiera viene esaudita solo pochi mesi dopo: all’abbazia di Fossanova, dove aveva fatto sosta sulla via di Lione, per recarsi al concilio, secondo il volere del papa, una breve malattia lo porta in fin di vita. Prima di chiudere gli occhi, riceve la santa Comunione e confessa a Reginaldo: Ho scritto e insegnato tanto su questo sacramento e sugli altri sacramenti, secondo la mia fede in Cristo e nella santa romana Chiesa, al cui giudizio sottopongo tutta la mia dottrina. Poi si addormenta nelle braccia del Signore: è il 7 marzo 1274, e Tommaso non ha nemmeno compiuto cinquant’anni.

Per avere un indizio su quel che può essere accaduto tre mesi prima, mentre stava celebrando la santa Messa, bisogna tener presente che egli incominciava sempre la sua giornata con la preghiera e con la santa Messa; e che, mentre scriveva le sue opere, ispirate ad una logica rigorosa, degna di Aristotele, ogni qualvolta s’imbatteva in una difficoltà concettuale, posava la penna, si recava in chiesa e, in ginocchio, abbracciava il tabernacolo supplicando Gesù Cristo, fio alle lacrime, di rivelargli ciò che la sua mente non riusciva a comprendere in maniera adeguata. Appare perciò abbastanza probabile che l’esperienza vissuta da Tommaso in quel 6 dicembre del 1273 sia consistita in una visione di Gesù Cristo, il quale gli ha mostrato lo splendore della Verità con una chiarezza così nitida, così cristallina, così luminosa, da fargli apparire come dei poveri balbettamenti, appunto come "paglia", tutte le cose che egli aveva sino ad allora pensato, scritto e insegnato. E quando si può contemplare la Verità divina, senza filtri e senza mediazioni, ma così, a tu per Tu con Colui che è la Verità stessa, il lavoro dell’intelligenza umana, per quanto, nel suo ambito, possa essere considerato eccelso e perfino geniale, si rivela per ciò che è realmente: un goffo tentativo di comprendere, con concetti e parole inadeguati, stentati, ciò che è evidente in se stesso, per chi possiede la grazia di coglierlo spiritualmente. Come dice Dante nell’ultimo canto della Divina Commedia (Par. XXXIII, 58-93):

Qual è colüi che sognando vede, / che dopo ‘l sogno la passione impressa / rimane, e l’altro a la mente non riede, // cotal son io, ché quasi tutta cessa / mia visïone, e ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa. // Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla. // O somma luce che tanto ti levi / da’ concetti mortali, a la mia mente / ripresta un poco di quel che parevi, //e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente;  // ché, per tornare alquanto a mia memoria / e per sonare un poco in questi versi, / più si conceperà di tua vittoria.  // Io credo, per l’acume ch’io soffersi / del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, / se li occhi miei da lui fossero aversi. // E’ mi ricorda ch’io fui più ardito / per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi / l’aspetto mio col valore infinito. // Oh abbondante grazia ond’ io presunsi / ficcar lo viso per la luce etterna, / tanto che la veduta vi consunsi! // Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna: // sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. // La forma universal di questo nodo / credo ch’i’ vidi, perché più di largo, / dicendo questo, mi sento ch’i’ godo. 

Sì, possiamo bene immaginarlo: qual è l’arista, il quale, dopo aver contemplato, e sia pure per un istante, la Bellezza assoluta, ha ancora voglia di dipingere, scolpire, costruire, comporre musica? E qual è il giurista che, dopo aver contemplato la Giustizia assoluta, si sente ancora l’animo bastante a balbettare oltre, a proposito di giustizia, andando a tentoni in mezzo alle cose umane? Così anche colui che si occupa di filosofia e di teologia, se fa un’esperienza mistica in cui gli appare l’essenza di quelle cose che, fino ad allora, ha studiato, ma vedendole come in uno specchio, sbiadite e confuse, e ora le vede in tutta la loro sfolgorante magnificenza, non ha più alcuna voglia di seguitare con le sue ricerche, ma prova una immensa nostalgia per il momento in cui, slegato dai lacci del corpo, potrà essere immerso interamente in quell’onda ineffabile che è la Verità divina. Di quel che ha visto in quell’istante di rara felicità, non ricorda quasi più nulla; pure, come il sognatore che, al risveglio, ha scordato il contenuto del suo sogno, e tuttavia si sente ancora il cuore pervaso da un’indicibile dolcezza, anche lui sente, avverte, intuisce, che quel che ha visto è il traguardo, il premio e la consolazione di tutte le strade terrene, la meta di ogni cammino, il fine e, lo scopo e il significato di ciascuna vita umana, dalla più umile alla più nobile.

Noi siamo ben lungi dall’aver fatto una esperienza anche solo lentamente paragonabile a quelle dei mistici, e a quella che, molto probabilmente, fece anche Tommaso d’Aquino: il quale era un formidabile pensatore e una mente lucida e razionale, ma era anche un santo e un mistico, e ben sapeva che fra le due facoltà dell’anima, la ragione e la fede, è la prima che deve inchinarsi di fronte alla seconda, e cederle il testimonio, perché è la fede che compie l’ultimo tratto di strada verso Dio, non la ragione da sola. Infatti, se la sola ragione fosse sufficiente per giungere alla Verità, non vi sarebbe stato bisogno che il Verbo s’incarnasse. Come dice ancora Dante (Purg., III, 34-44):

Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone. // State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria; // e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, /
ch’etternalmente è dato lor per lutto: // io dico d’Aristotile e di Plato / e di molt’altri…

Ma c’è un altro motivo, oltre alla speranza di poter contemplare la Verità al di là dei limiti del pensiero razionale (al di là e al di sopra, non contro di esso: perché la fede non è contraria alla ragione, semmai la completa); un motivo, se si vuole, di tipo completamente razionale. Dopo aver dedicato gran parte della nostra vita allo studio della filosofia e a quello della storia della filosofia, principalmente nell’ambito del pensiero occidentale, ma con parecchie e non superficiali escursioni in quello orientale, soprattutto indiano, siamo giunti, per esclusione, o per dir meglio siamo ritornati, di fronte alla Verità di Gesù Cristo, dalla quale eravamo partiti, negli anni dell’infanzia, in grazia dell’educazione ricevuta. E come un uomo che abbia molto viaggiato per terre e mari lontani, e abbia visitato una parte non piccola della superficie terrestre, e sia infine ritornato a casa, dopo moltissimi anni di assenza, divenuto uomo fatto, mentre era solo un ragazzo quando si era spinto fuori della terra natia, e che, alla fine dei suoi viaggi, sia giunto alla conclusione che il paese più bello di tutti era proprio quella dal quale era partito, così è accaduto a noi. Dopo aver visitato molti luoghi dello spirito e dopo aver esaminato numerose costruzioni del pensiero, e dopo averle vagliate attentamente, cercando di scoprirne i punti deboli, perché, esigenti come siamo, non c’interessava se non ciò che è perfetto, puro e privo di qualsiasi imperfezione, e ritenevamo sconsiderato aver tanto viaggiato per poi accontentarci di qualcosa di approssimativo e malsicuro, ma volevamo ritornare solo a patto di aver caricato a bordo le merci più preziose e più belle, ebbene siamo giunti alla conclusione che nessuna delle filosofie e delle religioni da noi studiate, nessuna delle verità nelle quali ci siamo imbattuti, presentava quelle caratteristiche di purezza e perfezione, che noi desideravamo. Nessuna, tranne una: la Rivelazione cristiana e la visione cristiana della vita, secondo l’insegnamento della Chiesa cattolica.

D’altronde, la nostra ricerca non era solo ed esclusivamente di tipo astrattamente intellettuale; nelle sue motivazioni, era dettata da un’ansia di sopravvivenza, non solo per noi personalmente, ma per la società alla quale apparteniamo. Cercavamo, per questa umanità impazzita e abbrutita dagli idoli crudeli della modernità, una via di fuga, una via di salvezza, osservando come il suo cammino conduca inesorabilmente verso l’autodistruzione, e vedendo di ciò continuamente dei nuovi segni rivelatori. Inoltre, nel corso della nostra indagine, ci siamo imbattuti in qualcosa che è nostra ferma convinzione sia un essere reale, spirituale, immensamente malvagio, il quale soffia sul fuoco delle passioni disordinate e spinge senza posa gli uomini a compiere un male che è superiore a quello concepibile sotto il profilo puramente naturale. Della sua diabolica presenza abbiamo colto svariati indizi, uno dei quali è proprio il fatto che gli uomini moderni non ci credono più, mentre i loro avi ci credevano fermamente. Allora ci è apparso chiaro come egli eserciti su di essi una influenza veramente terribile, e come, per mezzo di un pugno d’individui ricchissimi e potentissimi, stia tramando per portare alla rovina l’intera umanità, sia sul piano materiale che su quello spirituale. Occorreva, dunque, trovare una forza potente, benefica, luminosa, capace di contrastare quell’essere e scongiurare un tale destino: e ci siamo accorti di quanta verità vi fosse nel racconto biblico che ci era stato insegnato fin da bambini e che poi, divenuti adulti, solo per orgoglio e un fraintendimento del retto uso della ragione, avevamo considerato alla stregua di un insieme di pie leggende. A quel punto ci è apparso chiaro come solo nella Chiesa cattolica, fedele custode della Rivelazione divina, vi sia tutto ciò che può mettere gli uomini in grado di vivere la vita buona, animata da un soffio di autentica speranza; mentre in tutte le altre fedi e in tutte le altre filosofie non vi sono che favole, orgoglio, crudeltà, inganno, vaneggiamenti, e sia pure, in alcuni casi mescolati a qualche frammento di verità, e in parecchi altri, abbelliti da un sontuoso apparato mitologico.

E tuttavia, il nostro viaggio non è ancora finito. Rientrati nel bellissimo giardino che avevamo lasciato dopo l’infanzia, non vi abbiamo trovato che rovi, cardi e spine; sassi ovunque, e un generale, desolante abbandono. La chiesa, nel corso degli ultimi cinquant’anni, non è rimasta fedele alle consegne di Gesù Cristo: di nova vivanda é fatta ghiotta, come direbbe Dante; e, orgogliosa della sua ragione, e più che mai desiderosa di arrivare ad un accomodamento con il mondo, sta svendendo per un piatto di lenticchie il suo patrimonio millenario. Solo che non ne ha il diritto: la Verità di cui è custode, non è cosa sua, ma esclusivamente di Gesù. Il paradosso è che bisogna far capire ai cattolici quanto è luminosa la Verità cristiana, al cui confronto tutto il resto è come paglia…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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