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Giuseppe Zaffonato, un arcivescovo nella tempesta

Monsignor Giuseppe Zaffonato (Magré di Schio, Vicenza, 29 agosto 1899-Arzignano, 28 agosto 1988) è stato arcivescovo di Udine, succedendo a monsignor Giuseppe Nogara, comasco, dal 19 maggio 1956 al 29 settembre 1982, dopo essere stato vescovo di Vittorio Veneto. Tre lustri che videro mutare radicalmente il volto della società friulana, da agricola e tradizionale a industriale e moderna, ma che videro anche un radicale cambiamento della Chiesa stessa, determinato dall’evento del Concilio Vaticano II e dalle sue conseguenze. È quindi particolarmente interessante seguire la vicenda di questo uomo di Chiesa, che si può considerare paradigmatica di quella di tanti altri vescovi di quegli anni, i quali si trovarono alle prese sostanzialmente con gli stessi problemi, anche se, ovviamente, coniugati in differenti contesti socio-culturali. Nel caso dell’arcidiocesi di Udine, l’ondata progressista all’interno della Chiesa coincise con il ridestarsi di una forte coscienza locale del clero friulano, che, oltre a voler essere più vicino alla gente, fra l’altro con la traduzione della Bibbia in lingua friulana, volle anche interpretare, sino allo sbocco politico (con il Movimento Friuli) le istanze autonomistiche di quel popolo, rimaste deluse dalla soluzione "triestina" dell’autonomia regionale del Friuli-Venezia Giulia. Questo fu l’aspetto particolare della crisi che dovette fronteggiare monsignor Zaffonato, anche con momenti di dura contrapposizione fra lui e la stragrande maggioranza del suo clero, e che dovette riuscirgli particolarmente amaro, visto il sincero attaccamento e l’apertura che aveva sempre mostrato per i problemi e le condizioni dei suoi sacerdoti, restando però sul piano pastorale e senza fare sconti quanto alla disciplina ecclesiale. L’aspetto generale fu la contestazione e la crisi spirituale che svuotò i seminari all’indomani del Concilio e che trasformò anche quella terra, fino ai primi anni ’60 ricchissima di vocazioni religiose, in una terra sempre più povera di sacerdoti, come tutte le altre dell’Italia settentrionale: conseguenza, senza dubbio, anche del tardivo, ma sempre più deciso decollo dell’economia industriale nella regione, che introdusse anche lì il modello consumista e modificò radicalmente il modo di porsi delle famiglie e dei fedeli nei confronti del fatto religioso.

Monsignor Zaffonato ebbe anche la disavventura di scivolare in alcuni grossi incidenti finanziari che crearono un buco allarmante nei conti della sua diocesi, tanto da costringere il pontefice Paolo VI a intervenire personalmente, in pratica facendo commissariare la gestione finanziaria a partire dalla fine del 1967, cioè per gli ultimi cinque anni della sua cura vescovile. Tali incidenti furono divulgati, e forse ingranditi, dalla stampa e, probabilmente per analogia con il crescente malumore dell’opinione pubblica nei confronti della classe dirigente democristiana, incrinarono in maniera molto grave, e definitiva, la sua immagine pubblica: danno non solo irreparabile, ma in un certo senso immeritato, se si considera che la cura pastorale della vita cristiana e degli aspetti morali della realtà sociale era sempre stata al centro delle sue preoccupazioni, insieme alla promozione della cultura e all’incremento del culto mariano: tanto che non si era ufficialmente insediato e già indirizzava, il 25 marzo 1956, la prima delle sue numerose lettere pastorali. Su quei fatti, forse, non sarebbe male un’autocritica da parte della stampa e del sistema dell’informazione pubblica, così come sarebbe auspicabile che accadesse per la campagna di delegittimazione che colpiva, sempre in quegli anni e nei successivi, alcuni dei maggiori esponenti della vita politica, specie democristiani, più tardi rivelatisi migliori e più onesti di quel che allora venne fatto credere al pubblico. Resta il fatto che monsignor Zaffonato si trovò a reggere un grossa arcidiocesi in un momento di decisiva trasformazione del tessuto economico e sociale italiano, col passaggio da una società rurale ad una pienamente industrializzata, e con l’oda lunga della contestazione giovanile, segno di un gravissimo scollamento generazionale. E se a Firenze monsignor Florit (un friulano) dovette vedersela con don Milani, monsignor Zaffonato dovette vedersela con don Placereani, ispiratore del movimento politico autonomista, ma con forti componenti di protesta sociale.

Per delineare la figura e l’opera di questo uomo di Chiesa, ci piace riportare alcuni passaggi essenziali della sua biografia compilata da don Sandro Piussi per il Dizionario Biografico dei Friulani (dal Nuovo Liruti on line, vol. 3, L’età contemporanea, 2011):

Il suo episcopato fu improntato essenzialmente al’attenzione pastorale e all’incremento per la vita cristiana a tutti i livelli, soprattutto parrocchiale. (…) Nessun periodo anteriore può documentare uno sviluppo di opere così intenso: dalle chiese nuove, alle chiese restaurate, alle case della gioventù, alle scuole per la dottrina cristiana. (…) Celebrò anche un particolare congresso mariano, che conobbe largo consenso. Durante il suo episcopato le parrocchie furono incrementate fino a 438 unità. Le vocazioni erano in aumento: il numero dei preti, pur ritenuto ancora inadeguato, salì a 785. Dal 26 al 28 settembre 1961 celebrò il IV sinodo diocesano, articolato in tre aspetti: quello comunionale tra clero e fedeli; quello disciplinare, in relazione soprattutto ai parroci e ai cooperatori; quello soprannaturale, relativo allo sconfortante orizzonte di un rilevato crescente formalismo devozionale fatto di tiepide convenzioni religiose, le cui cause furono ravvisate ne razionalismo, nel positivismo, nel marxismo. Tra il 1956 e il 1968, con le due visite pastorali, Z. aveva visitato tutti i paesi della vasta arcidiocesi. Grazie alla sua generosità, all’intelligenza pratica, ad un’eccezionale dose di comunicativa e di dialogo, alla parola calda e vibrante, era a suo agio con ogni espressione sociale. Oltre alle settimane sociali e agli incontri con gli amministratori della cosa pubblica, Z. compì numerosi viaggi tra il 1956 e il 1963 per visitare gli emigrati friulani in Europa e in Argentina. Aveva una predilezione soprattutto per i sacerdoti, cui seppe stare vicino in svariati modi e con concrete sovvenzioni. Z. partecipò al Concilio Vaticano II, contribuendo con alcuni interventi al dibattito redazionale di documenti, in particolare della Presbyterorum ordinis. (…) Gli anni Sessanta furono caratterizzati dal risveglio deal rose veglio dell’identità friulana a livello sociale e anche ecclesiale. Mons. Francesco Placereani ne fu l’anima e il promotore: nel 1958 aveva iniziato a tradurre in friulano i Vangeli che presentò ad Aquileia nel 1970, mentre l’anno dopo fu la volta del messale, cui l’arcivescovo di Gorizia mons. Pietro Cocolin concesse l’imprimatur. (…) Nel 1964 Placereani inaugurò a Udine il primo dei corsi di teologia per laici. Anche per sua iniziativa, il 9 gennaio 1966 nasceva il partito politico Movimento Friuli, verso il quale parte del clero mostrava un evidente propensione. (…) L’attività di Z. subì un arresto quando il 5 dicembre 1966 fu colpito da un grave infarto, da cui si riprese. Al dinamismo stesso delle attività finalizzate alle opere pastorali, che aveva contrassegnato il suo episcopato, possono essere attribuite le cause di quella sovraesposizione finanziaria che gravò sulla diocesi e che portò, nel novembre del 1967, a incrinare l’immagine di Z., non senza ricadute sulla stessa immagine ecclesiale. La sua figura venne, infatti, pregiudicata da un grave dissesto finanziario, in cui fu implicato personalmente un suo stretto collaboratore. (…) Nel 1967 venne presentata la lettera aperta "Mozione del Clero per lo sviluppo sociale del Friuli", sottoscritta dalla grande maggioranza dei preti friulani. Il documento chiedeva interventi concreti da parte dell’autorità politica e, precedendo di un anno le elezioni regionali, faceva il bilancio della prima legislatura a statuto speciale. La "Mozione" ebbe l’adesione quasi plebiscitaria del clero: 560 sacerdoti su 700. (…) Il 23 ottobre Z., riuniti, insieme con i dirigenti democristiani, i promotori della "Mozione", diffidava questi ultimi dal dare corso a qualsiasi iniziativa. Il 2 dicembre comunicava il blocco dell’iniziativa, in conseguenza del negativo atteggiamento della CEI. I promotori del documento non si adeguarono alle direttive del vescovo e fecero conoscere il testo alla stampa e alle autorità. Ciò produsse una spaccatura tra l’indirizzo episcopale e il gruppo della "Mozione". È in quest’orizzonte che scaturì la corrente detta "Glesie furlane", che riuniva la parte del clero più regionalistica. Da allora in poi l’incidenza di Z. apparve latitante. Tra gli anni Sessanta e Settanta il Seminario risentì delle formidabili ripercussioni dei radicali sommovimenti culturali, in cui aperture conciliari e tensioni sociali si intrecciavano come espressione di una società cosciente di essere in via di trasformazione. Z. assistette al profondo travaglio che ne agitava e ne scardinava la vita, senza che la sua azione di guida intercettasse efficacemente le attese e promuovesse una condivisa maturazione ecclesiale. Il vescovo si orientò piuttosto verso una compattazione formale, cercando vie di mediazione tra conservatori e progressisti scaturenti dalle virtù di dedizione sacerdotale. Restano memorabili nella sua azione pastorale, oltre al sinodo diocesano, i due congressi eucaristici: quello diocesano, il terzo, dal 7 al 10 settembre 1960, e quello nazionale, dall’11 al 17 settembre 1972.il cui motto "Unus panis, unum corpus" riprendeva quello suo episcopale "In unitate spiritus", e che culminò con la visita a Udine di Paolo VI.

Ecco qui: siamo in presenza di un vescovo che arriva nella sua diocesi (dopo aver già dato buona priva di sé nel precedente incarico, a Vittorio Veneto, dove è ricordato con stima e affetto) e subito si dà da fare per parlare alle anime, per stabilire un dialogo con le famiglie, per rianimare e ravvivare la vita cristiana, per sollecitare la coscienza dei fedeli ad essere coerente col Vangelo. E, nello stesso tempo, costruisce chiese, restaura le vecchie, amplia il seminario, la sua biblioteca, rafforza le associazioni cattoliche, promuove la cultura, incrementa il culto mariano. Le vocazioni aumentano, la diocesi sfiora gli 800 preti: una cosa inaudita, anche per l’Italia di allora. Organizza un sinodo diocesano per trattare non solo i rapporti fra clero e fedeli, dei quali comprende l’importanza, e fra parroci e cooperatori, ma anche la questione del soprannaturale, e, in particolare, per individuare la crisi di fede che sta penetrando nella società del "benessere", individuandone giustamente le cause nella cultura razionalista, positivista e marxista (questo potrà far sorridere, oggi; ma si ricordi che Pio XII aveva solennemente scomunicato i comunisti e, allora, le indicazioni del Papa erano ascoltate e rispettate, anche se non gradite a tutti quanti, purché in linea col Magistero perenne). Un vescovo che visita tutte le parrocchie della vasta diocesi, tutti i paesi e le frazioni, una per una, e ciò per due volte; che sa parlare alla gente, con ogni genere d’interlocutore, colto e incolto; che stabilisce relazioni con gli amministratori pubblici; che visita anche i friulani emigrati all’estero, fino in Argentina; che ama i suoi sacerdoti al punto che la sua porta è sempre aperta per loro, e sa intervenire in caso di speciali bisogni o necessità. Queste le sue caratteristiche, che tutti, anche i meno benevoli, gli riconoscono. Poi…

Poi arriva il Concilio. Anch’egli vi partecipa, naturalmente, come tutti i vescovi; ma resta una figura marginale, come la stragrande maggioranza; non sanno che i giochi sono già decisi in partenza e che una piccola minoranza di progressisti, che si teneva pronta da molto tempo, ha colto la palla al balzo per spingere i lavori in una direzione ben diversa da quella immaginata dai più. Sta di fatto che, all’epoca, è difficilissimo rendersi conto di quel che sta realmente accadendo; solo il vescovo Lefebrvre, e anche lui non subito, ne avrà, a un certo punto, la netta percezione. Impensabile, del resto, immaginare che la massoneria ecclesiastica sia diventata così forte e audace da progettare d’impadronirsi del vertice della Chiesa e da mutarne gl’indirizzi fondamentali; e nemmeno lui, Zaffonato, lo immagina. Crede, come tutti gli altri, che ogni cosa andrà a buon fine; che una nuova e fruttuosa stagione sia cominciata, una specie di seconda giovinezza per la fede cattolica, da troppi segnali rivelatasi ormai languente. Il Concilio sembra la grande occasione per un rilancio, per una nuova partenza, carica di promesse. Intanto, però, le cose si complicano, e per due ragioni: primo, il salire dal clero di una sorda protesta, che prende forma nella politicizzazione di una gran parte di esso e nella nascita del Movimento Friuli; secondo, una serie di errori nella gestione finanziaria, dovuti, probabilmente, al fatto che monsignor Zaffonato è, sì, un uomo che sa pensare in grande e che possiede un notevolissimo dinamismo progettuale, ma, talvolta, pensa anche troppo in grande (come quando, a Vittorio Veneto, aveva progettato la costruzione di una grande santuario mariano, mai realizzato, che avrebbe dovuto addirittura cambiare il volto della città), e inaspettatamente rivela una mancanza di realismo, una sopravvalutazione della propria capacità di gestione. Ed ecco sopraggiungere la doppia umiliazione: il clero, il suo clero, che, compatto, lo sfida, non accetta le sue indicazioni, e rende pubblica la lettera che lui aveva chiesto non venisse divulgata; e il tracollo finanziario della diocesi, che costringe il papa in persona a intervenire, inviando un incaricato di sua fiducia a ripianare il debito. La prima umiliazione viene dai sacerdoti; la seconda dai fedeli, perché da quel momento la sua credibilità è irrimediabilmente compromessa proprio sul piano etico, quello a cui aveva dedicato tutte le sue cure. Fra gli udinesi viene coniato un crudele neologismo, il verbo zaffonare, e non c’è studente di scuola media o superiore che non l’adoperi per dir rubare. Ma sono gli anni della grande contestazione, quando i figli si ribellano ai padri e gli studenti ai professori; e non solo si ribellano, ma, con le armi dell’ironia e del disprezzo, li spogliano di qualunque dignità e autorevolezza, li delegittimano al motto: Disonora il padre. Il vescovo non sfugge a tale sorte: viene moralmente lapidato, è come se gli avessero fatto un processo e lo avessero condannato per direttissima. Ma se lo meritava, poi? Non era sempre stato sollecito del bene delle anime, non si era sempre prodigato, sul piano morale e anche su quello materiale, per le sue pecorelle?

Il Piussi dice che, davanti allo scardinamento della vita sociale e morale prodotto dall’avvento della modernità, Zaffonato non seppe far sì che la sua azione di guida senza che la sua azione di guida intercettasse efficacemente le attese e promuovesse una condivisa maturazione ecclesiale. Parole sibilline e un po’ pilatesche. Che cosa avrebbe dovuto fare che non avesse già fatto e non seguitasse a fare? Se più di 500 preti di una diocesi si ribellano al loro vescovo, e non per ragioni inerenti la sfera spirituale e religiosa, ma su questioni politiche e disciplinari, che cosa potrebbe o dovrebbe fare, il loro pastore? Immaginiamo che gli undici apostoli si fossero ribellati all’autorità di san Pietro: in che modo questi avrebbe potuto intercettare efficacemente le attese e promuovere una condivisa maturazione ecclesiale? Queste sono solo parole. Era colpa dei professori se gli studenti del ’68 non volevano più ascoltare le loro lezioni, occupavano le aule e pretendevano il "sei politico"? O era colpa dei padri di famiglia se i loro figli non riconoscevano più la loro autorità, li deridevano e volevano fare ogni cosa a modo loro, peraltro continuando a farsi bellamente mantenere da papà e mamma? La verità è che vi sono dei momenti storici nei quali la ragione non serve a nulla, e non servono neppure i buoni esempi; tali sono i tempi di rivoluzione, nei quali l’unica cosa che vale è il richiamo alle viscere, all’emotività disordinata. Il dramma, per la Chiesa cattolica — un dramma nel dramma della società italiana — fu che la rivoluzione l’aveva covata, corteggiata, provocata lei stessa: era stato il Concilio ad attuare la rivoluzione, solo che la maggior parte dei padri conciliari non ne aveva avuto il benché minimo sentore. Facciamo solo un esempio, sui cento e mille che potremmo fare: circa la liturgia, la costituzione Sacrosantctum Concilium stabiliva che l’uso della lingua latina salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini (§ 1); e invece, nel giro di pochi anni, essa venne totalmente abbandonata, al punto che oggi parlare della Messa in latino fa sobbalzare d’indignazione i bravi cattolici progressisti, come fosse una cosa orribile, nefanda. In quelle circostanze storiche, non fu il vescovo Zaffonato ad avere particolari colpe; così come non fu colpa sua se il prete progressista di turno, Francesco Placereani, si mise a capo di un’estesa protesta, imbracciando la bandiera dell’autonomismo friulano. Egli ebbe semmai la sfortuna di dover fare i conti non con uno o due sacerdoti disubbidienti, che sfidavano la sua autorità e si rivolgevano direttamente alla stampa e ai mezzi d’informazione per gettare discredito sul loro pastore, ma con la maggioranza del suo stesso clero, a causa di fattori di ordine politico molto specifici, legati alla particolare situazione storica e amministrativa della regione. Ciò lo mise in una posizione insostenibile, aggravata dalla crisi finanziaria diocesana, ma senza sue colpe o responsabilità. Il clero e i fedeli avevano bisogno di un capro espiatorio: ed egli, che, bene o male, rappresentava l’autorità, svolse tale funzione. In realtà, che cosa potevano rimproverargli?

In effetti, è proprio da vicende come la sua che emerge chiaramente quanto il Concilio sia stato un evento rivoluzionario, e non certo in senso positivo, perché la rivoluzione modernista segnò l’inizio di una gravissima crisi d’identità della Chiesa. Quelle virtù pastorali che lo resero popolare e amato come vescovo di Vittorio Veneto e, poi, nei primi anni del suo magistero a Udine, dopo il Concilio divennero, se non proprio dei difetti, dei limiti, che, a parere di alcuni, non gli permisero di intercettare efficacemente le attese e di promuovere una condivisa maturazione ecclesiale. Ma quali attese? Quale maturazione ecclesiale? Per poter piacere a tutti, monsignor Zaffonato avrebbe dovuto mettersi a fare il modernista, parlar sempre e solo dei problemi materiali, come fa il neoclero odierno, e lasciar stare le questioni morali, per non dire quelle soprannaturali? La risposta dipende da ciò che si pensa un vescovo debba essere. Se si pensa che debba essere l’amministratore delegato di una onlus chiamata diocesi, senza dubbio sì: dovrebbe trasformare le chiese, come si fa ora, in dormitori e refettori per i poveri, e promuovere corsi per fidanzati gay. Ma se si pensa, come vuole la sana teologia e lo stesso diritto canonico, che scopo della Chiesa è santificare le anime, allora no…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Torsten Dederichs su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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