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Un clima plumbeo, da regime totalitario

Un giorno, fra molto tempo, quando qualcuno scriverà la storia di questi nostri anni, e specialmente di questa nostra Chiesa, apparirà in bella evidenza quanto sia stata importante la vicenda Viganò, che più di qualcuno, ora, ha forse sottovalutato e considerato alla stregua di uno dei tanti casi di cattiva informazione, di confusione mediatica da parte di una chiesa che ha fatto dei media la propria strategia vincente, insomma di semplice pasticcioneria e dilettantismo. Invece non si è trattato di nulla del genere, ma di una dichiarazione di guerra. Il caso Viganò dimostra che la chiesa del signor Bergoglio, la neochiesa di questi nostri tempi, tutta sorrisi, accoglienza e solidarietà ai migranti, è lo strumento costruito appositamente per distruggere il cattolicesimo e per demolire, pezzo dopo pezzo, con zelo, con assiduità, con metodo, quel che resta della vera Chiesa cattolica, millenaria custode della Verità annunciata e testimoniata da Gesù Cristo. Uno strumento che, spinte le cose fino a un certo punto, ha deciso di lasciar cadere la maschera, forse per noncuranza, forse per vedere se era arrivato il momento di mostrarsi apertamente per ciò che è, senza che la massa dei fedeli sia stata capace di riconoscerlo e di capire, finalmente, cosa sta succedendo sotto i suoi occhi, nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle Conferenze Episcopali e nella Curia romana, e cioè l’attuazione piena e definitiva della rivoluzione modernista.

Noi tutti siamo vittime dell’equivoco romantico secondo il quale una tragedia richiede, per essere rappresentata, dei personaggi d’eccezione. Non ci siamo ancora persuasi, nonostante i numerosi ammonimenti della storia, che una tragedia può essere interpretata da personaggi mediocri, mediocrissimi, e nondimeno definirsi come una tragedia in tutto il significato dell’espressione: una vicenda drammatica, cupa, distruttiva, senza un filo di luce o di speranza, una vicenda priva di lieto fine, che restituisce gli uomini alla loro miseria, infelici, soli, non redenti. Senza dubbio, considerati in se stessi, sia monsignor Viganò, sia il signor Bergoglio, sia lo stesso papa emerito, Joseph Ratzinger — benché quest’ultimo si collochi parecchi gradini più in alto degli altri — sono personaggi sostanzialmente mediocri, per nulla all’altezza della parte che stanno rappresentando in questa tragedia della Chiesa, che si consuma a ritmo sempre più veloce. Un papa che si arrende e si dimette davanti alle difficoltà del suo ufficio; un altro che viene eletto in circostanze oscure e che subito, sin dal primo giorno, fa capire chiaramente di aver tutta l’intenzione di azzerare la tradizione cattolica e di sostituire la Chiesa con una neochiesa modernista e progressista, politicizzata e mondana; un monsignore che dovrebbe curare le comunicazioni fra la Santa Sede e il mondo, e che dà un ben tristo saggio di sé, manipolando con inverosimile cinismo una lettera privata del papa emerito per incensare il papa regnante, e che poi, a pezzi e bocconi, in una squallida altalena di ammissioni e di smentite, finisce per confessare la verità, ma si dimette senza chiedere scusa a nessuno, anzi, quasi con una cert’aria seccata, quasi con aria l’annoiata, perfino un po’ da vittima ingiustamente sacrificata, ma nobilmente disposta a farsi da parte per il bene della chiesa, ma poi viene subito reintegrato in una funzione simile alla precedente dal papa regnante, il quale, a sua volta, non trova nulla di strano, nulla di censurabile, nulla di moralmente riprovevole nel suo modo di agire, non lo biasima per niente, anzi lo complimenta, lo ringrazia e poi, riammettendolo nella cabina di comando delle comunicazioni vaticane, di fatto lo promuove e lo dichiara intoccabile e inattaccabile, insomma lo blinda, facendo sapere al mondo intero che della verità, a lui, non gliene importa nulla; che la sola cosa davvero importante è la fedeltà nei suoi confronti; che lui, la sua immagine, il suo prestigio, la sua popolarità, vengono prima di tutto, passano davanti a tutto, scavalcano e oltrepassano qualsiasi considerazione d’altro genere, comprese quelle di ordine etico, per non parlare della serietà e della correttezza professionali: sono attori mediocri, fatti di una pasta mediocre. Niente a che vedere con la stoffa di cui erano fatti i loro predecessori; di cui erano fatti migliaia e migliaia di umili sacerdoti e di suore sconosciute che hanno dato la vita per amore della Chiesa. Non valgono l’unghia del dito mignolo delle sedici carmelitane scalze le quali, condotte da Madre Thérese de Saint-Augustin, hanno salito coraggiosamente i gradini del patibolo e lasciato la testa sotto la lama della ghigliottina, cantando Veni Creator Spiritus, umili e meravigliose nei loro mantelli bianchi: sedici eroine della fede come la Chiesa, quando non era infettata dallo spirito della modernità e del compromesso con il mondo, ne sapeva produrre a decine, a centinaia, a migliaia, specialmente nelle epoche oscure, nelle ore di persecuzione, e il cui sangue, per usare le parole di Lattanzio, era semente di nuovi cristiani.

Eppure, nonostante questa mediocrità, o forse proprio per quella, la tragedia che la Chiesa, quella vera, sta vivendo, appare, per contrasto, ancora più drammatica. Viene da pensare: a quali mani è appeso il destino della Sposa di Cristo!, anche se poi si scaccia questo pensiero, perché la Sposa di Cristo è nelle mani di Cristo e di Lui solo, e non saranno gli uomini, né grandi, né piccoli — e questi sono veramente piccoli — a modificarlo rispetto ai Suoi disegni, neppure d’un millimetro. E una cosa emerge con più forza, dallo squallore stesso del teatrino della vicenda Viganò: il clima sempre più pesante, addirittura plumbeo, che incombe sulla Chiesa odierna; il clima da totalitarismo becero, smaccato, che non prova nemmeno il pudore di nascondere un poco la sua vera natura. Quando monsignor Viganò leggeva la lettera di Ratzinger, amputata dei passaggi che ne rendevano il suo vero contenuto diametralmente opposto a quello che egli, con inaudita sfrontatezza, ha voluto dargli; quando ha fatto circolare la foto della lettera, con le righe sfuocate ad arte là dove Ratzinger biasima la scelta di aver incluso nella famosa collana di teologia "bergogliana" anche un suo fiero e implacabile oppositore, Hunermann, e si mostra giustamente meravigliato che proprio a lui si chieda uno scritto di presentazione per la collana, non era obbligato a fare né l’una cosa, né l’altra. Le ha fatte per mera arroganza, sicuro che nessuno avrebbe colto il senso della sua spudorata operazione: far emergere una continuità di fondo tra il pontificato di Benedetto XVI e quello di Francesco I, continuità che, dalla lettera del primo, non risulta affatto, semmai il contrario. E in effetti c’è mancato poco che i suoi calcoli si rivelassero giusti: perché fra tutti i giornalisti presenti quando andava in scena questo disgustoso teatrino, questa commedia indecente, uno solo, Sandro Magister, ha colto il puzzo di bruciato e ha fatto quel che richiede il suo mestiere: dire la verità. Tutti gli altri erano disposti a far finta di non aver visto né udito, a far finta di non aver capito quel che bolliva in pentola. Per omaggiare il magnifico, il misericordioso, lo splendido papa Francesco, il papa della gente, il papa migliore della storia. Il che la dice lunga sull’infezione del servilismo filobergogliano, che non riguarda solo la Chiesa, ma anche la società civile, i mezzi d’informazione laici, la cultura dei non cattolici. Quelle stesse testate e quelle stesse televisioni che avrebbero sparato a zero se una simile vicenda fosse accaduta sotto il pontificato di Benedetto XVI; quegli stessi mezzi d’informazione, o piuttosto di disinformazione, che hanno creato il mito del "silenzio" di Pio XII sullo sterminio degli ebrei, ormai sono talmente entusiasti del signor Bergoglio, di come sta facendo il papa, cioè picconando, rottamando e demolendo la Chiesa cattolica e la fede cattolica, che sono più che mai disposti a passargliele tutte per buone, a sostenerlo sempre e comunque, a fare il tifo per lui a prescindere. A prescindere dalla verità, dall’onestà, dalla decenza.

Sbaglierebbe, tuttavia, chi concentrasse l’attenzione su questi ultimi cinque anni, sul malaugurato pontificato di Francesco e sul proliferare di pazzie e di eresie che ogni giorno vediamo, ad opera di persone come Paglia, Galantino, Sosa Abascal, Marx, Schönborn, Kasper, Martin, Spadaro, per non parlare delle decine di preti fuori controllo, i quali, nelle loro chiese, confondono i fedeli con dottrine aberranti e con liturgie pazzesche. Il male, lo sosteniamo da tempo, parte da molto lontano, e, in modo particolare. dal Concilio Vaticano II, o meglio, dall’elezione di papa Giovanni XXIII: è da allora che si è manifestato lo smottamento verso l’apostasia, dapprima abilmente mascherato, e perciò relativamente cauto, poi, a partire da un certo momento, sempre più esplicito e veloce, perfino vorticoso. L’adulazione e il servilismo verso papa Francesco non sono che il punto d’arrivo di una deriva ereticale che potremmo chiamare "papolatria", e che ha dei precedenti illustri negli ultimi pontificati, specialmente quello Giovanni Paolo II, il grande regista dei bagni di folla e della promozione pubblicitaria, teatrale, di se stesso; basti pensare a quella cosa sempre più sconveniente, sempre più ambigua e confusionaria che è la Giornata Mondiale della Gioventù, la quale, di cattolico, e soprattutto di spirituale, possiede ben poco. La neochiesa raccoglie ora quel che ha seminato a partire dagli anni Sessanta del ‘900, dapprima con il culto del "papa buono", poi con quello del "papa dei giovani": un culto molto simile a quello di una qualsiasi rockstar, al punto che non si vede in cosa differisca, nelle sue linee essenziali, a parte la diversa collocazione ideologica, dal culto di personaggi come i Beatles, o i Rolling Stones, o Michael Jackson, o come Madonna (non quella cristiana, ovviamente), e via dicendo.

L’ultimo esempio, ma ne potremmo fare migliaia e migliaia, è rappresentato dalla omelia per le esequie del presentatore Fabrizio Frizzi, tenuta da don Walter Insero, direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Roma e cappellano della Rai. Il quale, nel corso della sua predica, e benché non ve ne fosse alcun bisogno, a un certo puto ha detto: perché, come dice sempre il papa Francesco… Una citazione gratuita, un omaggio devozionale che attesta il perfetto allineamento del celebrante alla "chiesa di papa Francesco"; così come, ai tempi del PCUS, un membro del governo sovietico intonava: perché, come dice sempre il compagno Stalin… Già: una volta c’era la Chiesa cattolica, ora c’è la chiesa di papa Francesco. Una volta si diceva: come dice il nostro Signore Gesù Cristo…; oggi si dice: come dice sempre il papa Francesco… La Chiesa non è più la Chiesa di Cristo; è diventata la chiesa di papa Francesco. Ma anche questa, è solo la punta dell’iceberg. La verità è che si tratta della chiesa dei modernisti, che si son presi la totale rivincita sulla scomunica di san Pio X, nel 1907. Bergoglio non è che l’esecutore dell’ultimo atto della sceneggiata: colui che pianta ufficialmente la bandiera del modernismo sulla cupola di San Pietro a Roma. (Qualcuno pensa che stiamo esagerando? Ebbene, vada a riguardarsi, in rete, le immagini di come appariva la Basilica di San Pietro nel dicembre del 2015, con le figure dei pinguini, delle scimmie, dei leoni, delle tigri, degli squali, dei cannibali proiettate, di notte, in dimensioni cubitali, mediante potentissimi fasci luminosi). E che il male parta da lontano, lo dimostra tutto l’insieme della omelia funebre di don Insero, così come le omelie, funebri e no, di migliaia e migliaia di sacerdoti della neochiesa ex cattolica. Una volta, la santa Messa per un defunto era l’occasione per ricordare, sì, le virtù e le qualità umane e cristiane di costui, ma anche, e soprattutto, per rivolgere il pensiero a Dio; per riflettere che, nell’ora della morte, siamo tutti peccatori e tutti bisognosi del perdono e della misericordia di Dio; che, con le nostre sole forze, nessuno di noi meriterebbe il paradiso, e perciò i vivi devono pregare, e pregare molto, per aiutare l’anima del trapassato che sta per presentarsi davanti alla giustizia del Signore. Ora, invece, moltissimi preti ritengono cosa del tutto normale dedicare i nove decimi della loro omelia a magnificare le qualità del defunto, per ricordarsi di Dio solo nel passaggio finale: come se la loro prospettiva non fosse quella di chi guarda vero l’eternità, ma quella di chi seguita a guardare indietro, verso le cose di quaggiù, persino in presenza della morte. Ed è questo, precisamente, lo spirito del modernismo e della neochiesa: abbassare le cose divine al livello di quelle umane; abbassare e smorzare lo slancio mistico della Chiesa verso i gusti e le abitudini del mondo; trovare un compromesso "accettabile" fra Dio e Mammona, fra ciò che dice il Vangelo e ciò che è gradito agli orecchi di questo secolo.

Ecco: questi atti, questo stile, che possiamo vedere in mille e mille circostanze, e che va avanti ormai da un pezzo, fatto anche di piccoli gesti, se si vuole (per esempio, l’applauso al defunto; oppure la cremazione al posto della inumazione: sempre con il silenzio/assenso del clero) mostrano come la religione cattolica si stia trasformando, sotto i nostri occhi, nella religione, massonica e gnostica, dell’uomo che celebra se stesso. Non vi si parla più di Dio, se non pro forma; vi si parla dell’uomo, delle sue virtù, dei suoi sogni, delle sue aspirazioni, delle sue opere. E si battono le mani all’uomo, invece di pregare Dio in silenzio. Abbiamo defenestrato Dio, il Dio di Gesù Cristo, persino dalla sua casa. Abbiamo trasformato le chiese in templi dell’uomo: dove si mangia e si dorme, con la scusa dell’accoglienza e della solidarietà (come se non vi fossero altri luoghi per mangiare e dormire); in cui si esibiscono le danzatrici sacre del duo Shiva per l’ordinazione di un sacerdote cattolico (cattedrale di Rodez, Francia, ai tempi del vescovo François Fonlupt) o dove si fa entrare, in processione, il dio Ganesha dalla testa di elefante (nella chiesa di Ceuta, Spagna). Ma come stupirsi di tutte queste cose, considerato che Dio non è cattolico, parola di (falso) papa? Questi sono i frutti del Concilio: impossibile ignorarlo. E adesso, solo Gesù Cristo ci potrà salvare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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