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30 Marzo 2018Una civiltà la cui essenza è basata sulla tecnica non può essere che irreligiosa, nemica del sacro e, quindi, radicalmente e irremissibilmente anticristiana: lo vide con chiarezza un autore che pure non era cristiano, o il cui cristianesimo si mescolava ambiguamente con elementi neopagani in un improbabile sincretismo antimoderno, Ernst Jünger (Heidelberg, 1895-Reidlingen, 1998), del quale ci siamo già altra volta occupati (cfr. Ernst Jünger, testimone inquieto del nostro tempo, e Ernst Jünger e il soldato, pubblicati, rispettivamente il 21/06/2007 e l’01/03/2011, sul sito di Arianna Editrice, e poi ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia).
Si resta colpiti dall’acutezza e dalla lucidità di questa intuizione, tanto più che venne formulata in un’epoca storica, la prima metà del Novecento, in cui la potenza eversiva della tecnica non era ancora evidente a tutti, anche perché si trattava ancora di una tecnica meccanica e non elettronica. In confronto alla profondità di questa analisi, da parte di chi cattolico non lo era, appare quasi incredibile che un così gran numero di teologi e filosofi cattolici, per non parlare del clero e dei fedeli, abbiano salutato il Concilio Vaticano II, in pieni anni ’60 del XX secolo, come una pace finalmente stipulata fra la Chiesa e il mondo, quel mondo moderno la cui essenza si definiva, sempre di più, come la tecnologia. Sembra quasi impossibile che quasi nessuno di loro abbia saputo vedere la radicale antinomia esistente fra il mondo della tecnica e il mondo dello spirito, fra il mondo dell’operaio, come lo chiamava Jünger per indicare la diffusione capillare della mentalità tecnica fra le masse, e il Vangelo, che fa appello alla persona in quanto tale, e che, appunto in quanto tale, non può assolutamente consentire al predominio della tecnica, pena la propria totale abdicazione. In altre parole, Gesù fa appello all’uomo in quanto uomo, mentre l’"operaio", cioè l’individuo massificato e infeudato alla struttura tecnologica globale, nonché alle pratiche e ai riti quotidiani della tecnica, è necessariamente chiuso a un simile appello, per lui non esistono che "valori" di tipo tecnico, mentre lo spirituale non può che rimanere escluso ed essere negato in maniera totale. Per Jünger la tecnica, nelle condizioni storiche del mondo moderno, è molto di più che una modalità dell’intelligenza umana applicata alle scoperte scientifiche e ai processi produttivi: essa è una forma del pensiero e della vita che tende a diventare totalizzante, e che implica una mobilitazione totale di ogni forza, di ogni energia, di ogni intelligenza, di ogni risorsa, per servire i propri fini, che non sono più quelli dell’uomo, come in teoria dovrebbe essere, ma che sono diventati quelli della tecnica stessa; e che tale mobilitazione, nella società di massa, prende la forma specifica dell’"operaio", ossia del cittadino inquadrato, irreggimentato e addestrato secondo le modalità che sono proprie della tecnica. Tuttavia, il nuovo tipo umano prodotto dalla civiltà della tecnica, che vede il tramonto non solo del mondo borghese, ma del concetto stesso di civiltà come finora lo abbiamo adoperato, questo nuovo tipo umano che egli chiama l’"operaio", non è solamente un individuo alienato e irreggimentato dalla tecnica; è qualcosa di simile al "soldato" prodotto dalle trincee della Prima guerra mondiale: un individuo costretto a ripartire da zero e a trovare in se stesso le risorse per sopravvivere e, forse, per fondare un nuovo ordine di cose, una nuova organizzazione sociale e una nuova visione del mondo.
Vale la pena di rileggersi una pagina profetica di questo grande scrittore e pensatore tedesco, che tratta tale specifica questione (da: E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma; titolo originale: Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, Stuttgart, Ernst Klett, 1981; traduzione di Quirino Principe, Milano, Longanesi & C., 1984, pp.144-146), tanto più notevole se si pensa che la prima edizione de L’operaio è del 1932: un anno prima che Hitler andasse al potere e sette anni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale):
Questa nostra rassegna dell’ambito in cui si compie la distruzione sarebbe incompleta se non individuassimo anche l’assalto che viene sferrato contro le forze del culto. La tecnica, ossia la mobilitazione del mondo attuata dalla forma dell’operaio, in quanto distruttrice di ogni fede in generale è anche la più decisiva forza anticristiana che mai sia entrata in scena. Lo è in tale misura da accogliere in sé l’elemento anticristiano come una delle sue più autentiche qualità subalterne; con la sua mera esistenza, essa nega. Esiste una grande differenza tra gli antichi iconoclasti e incendiari di chiese, e l’alta quantità di astrazione in virtù della quale una cattedrale gotica può essere considerata un puro e semplice punto di mira nell’area topografica di combattimento da un artigliere della guerra mondiale.
Là dove affiorano i simboli della tecnica, lo spazio viene svuotato di tutte le forze di altra natura, di tutti i mondi spirituali gradi e piccoli rimasti in esso. Gli svariati tentativi, compiuti dalla Chiesa, di parlare il linguaggio della tecnica, rappresentano soltanto un mezzo per accelerare il suo decimo, per facilitare un esteso processo di secolarizzazione. Perciò in Germania i veri rapporti di forza non sono ancora emersi alla superficie, poiché dominio apparente della borghesia li maschera alla vista. Ciò che si è detto sul rapporto del borghese con la casta dei guerrieri vale anche per il suo rapporto con le Chiese — a queste forze egli è certamente estraneo, e tuttavia ha con esse dei legami; ciò lo mostra in un rapporto di mutuo soccorso con tali forze. Al borghese manca una sostanza sia guerresca che religiosa, a parte l’apparente religione del progresso. L’operaio, il tipo umano, è invece lontano dalla zona delle antitesi di tipo liberale; la sua caratteristica non è quella di non avere alcuna fede, ma quella di avere un’ALTRA fede. A lui è affidata la riscoperta della grande realtà in cui vita e culto s’identificano: una realtà che, a parte alcuni esigui territori periferici e alcune vallate montane, gli uomini che vivono nel nostro spazio hanno completamente perduto.
In questo senso, si può azzardare un’ipotesi: fra gli spettatori di un film o di una gara motociclistica si nota già oggi una religiosità più profonda di quella ancora percepibile dietro i pulpiti o dinanzi agi altari. Se questo avviene già al livello più basso e più ottuso, in cui l’uomo reagisce in modo puramente passivo alla nuova forma che lo condiziona, dobbiamo presagire che altri giochi delle parti, altri sacrifici, altre insurrezioni si stiano avvicinando. Il ruolo che la tecnica volge in questa vicenda è qualcosa di paragonabile all’opera dei primi missionari cristiani i quali si presentavano ai duchi germanici avendo a disposizione elementi di cultura e di educazioni ereditati dalla civiltà dell’impero romano. Un nuovo principio agisce mediante la creazione di nuove realtà, di forme originali ed efficaci — e queste forme operano in profondità, poiché sono legate a quel principio da un rapporto esistenziale. Non esiste una differenza essenziale tra profondità e superficie.
Dobbiamo citare, inoltre, il fatto che la guerra ha demolito la vera e propria religione popolare del XIX secolo, ossia l’adorazione del progresso, e la citazione è opportuna, poiché in quel crollo si rispecchia il doppio volto della tecnica.
La tecnica, infatti, appare nello spazio borghese come organo del progresso, operante in un quadro di compiutezza razionale ed etica. Perciò essa è strettamente legata ai criteri di valutazione propri della conoscenza, della morale, dell’umanitarismo, dell’economia e della comodità. Il lato marziale della sua testa di Giano bifronte mal si adatta a questo schema. Ma è incontestabile che una locomotiva, e non una carrozza ristorante, può muovere una compagnia di soldati; e che un robusto motore, e non un’automobile di lusso, può far muovere un carro armato; che lo sviluppo del traffico pone più rapidamente a contatto non soltanto i buoni ma anche i cattivi europei. In modo analogo, la produzione artificiale di preparati a base di azoto è utile sia all’agricoltura che all’industria degli esplosivi. Tutte queste circostanze possono essere trascurate fino a quando non veniamo a diretto contatto con la loro realtà.
Poiché è innegabile l’uso di mezzi progrediti, "frutto della civiltà", nelle azioni di combattimento, sembra che il pensiero borghese voglia scusarsene. Accade così che esso tenta di usare l’ideologia del progresso per mitigare il corso delle vicende belliche, e presenta la violenza delle armi come un incidente deplorevole e del tutto eccezionale, come un mezzo per addomesticare barbari non civilizzati dal progresso. Soltanto all’umanità civile, soltanto alla mentalità umanitaria spetta di diritti l’uso di quei mezzi, e soltanto quando esiste necessità di difesa. Il loro uso ha come fine non la vittoria ma la iterazione dei popoli, che devono essere accolti in quella comunità umana cui va riconosciuto il più alto grado di civiltà e di buona educazione…
Il seguito del ragionamento di Jünger, benché molto interessante, non ha a che fare con il nostro assunto: che la tecnica è di per se stessa nemica dello spirituale e che dove essa s’insedia, la spiritualità è destinata ad essere eliminata, perché essa pretende di controllare ogni spazio e non potrebbe sopravvivere senza occupare sia fisicamente che idealmente e psicologicamente ogni singola sfera della realtà sociale. In altre parole, la Weltaschauung della tecnica è di per sé totalitaria, e perciò intollerante di ogni altra Weltanschauung: pensare che ci sia posto sia per essa che per una religione, e specialmente per la religione cristiana e per la Chiesa cattolica, è una pia, anzi, una funesta illusione. Del resto, lo aveva già detto Gesù Cristo: nessuno può servire due padroni: o sarà fedele al primo e disprezzerà il secondo, oppure sarà fedele al secondo e disprezzerà il primo. E il fatto che sia la civiltà cristiana, sia la civiltà moderna (o, se si preferisce, l’anti-civiltà moderna: perché anche Jünger vedeva in essa dei segnali di radicale rottura con tutto ciò che normalmente s’intende per "civiltà" e, semmai, elementi di prossimità con la "civilizzazione", nel senso spengleriano del termine) siano un prodotto dell’Occidente, più precisamente dell’Europa, e che è stata la civiltà europea a dilatarsi, anche geograficamente, sino a diffondere il proprio modello a livello globale, implica che non c’è posto, nemmeno in senso puramente fisico, per una coesistenza delle due civiltà. Se sopravvivesse anche solo parzialmente una delle due, l’altra non sarebbe pienamente sicura della propria vittoria: da ciò l’inevitabilità di una lotta a morte fra di esse, come due organismi che non possono tollerarsi a vicenda in un habitat che è troppo angusto per ospitarli e nutrirli entrambi.
Particolarmente acuta è l’osservazione di Jünger, formulata verso la fine degli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30 del Novecento, cioè poco meno di un secolo fa, che gli svariati tentativi, compiuti dalla Chiesa, di parlare il linguaggio della tecnica, rappresentano soltanto un mezzo per accelerare il suo decimo, per facilitare un esteso processo di secolarizzazione. Incredibile ma vero, trenta anni più tardi, dopo eventi epocali come la Seconda guerra mondiale, il crollo del fascismo e del nazismo, l’instaurarsi del comunismo in mezza Europa e in quasi la metà del mondo, la Guerra fredda, la decolonizzazione, la corsa allo spazio, il dilagare della tecnica e dello stile di vita consumista in tutto l’Occidente, alcuni alti esponenti della Chiesa cattolica fecero la bella pensata di procedere a un disarmo unilaterale, di smantellare la parte difensiva e apologetica dell’ideologia cristiana e, in nome del "dialogo" e del pluralismo, tipici valori liberali, in se stessi per nulla cristiani, semmai potenzialmente o esplicitamente anticristiani, abbracciare il mondo, aprirsi alle religioni non cristiane e alle confessioni cristiane non cattoliche, mettere al centro la "persona" laicamente intesa, i suoi "diritti", la sua aspirazione a "realizzarsi", apparentemente senza vedere che ciò porta dritto verso l’autodistruzione del cattolicesimo e della Chiesa. E diciamo "apparentemente" perché siamo convinti che le teste pensanti del Concilio, a cominciare da Karl Rahner e dagli stessi pontefici allora regnanti, Giovanni XXIII e Paolo VI, erano perfettamente coscienti di quel che facevano, e vedevano con assoluta chiarezza quel che sarebbe accaduto: un processo che avrebbe condotto, dopo una serie di effimeri successi e di trionfi apparenti, verso la dissoluzione, o meglio, l’auto-dissoluzione della dottrina cattolica, e, quel che più conta, della visione cattolica del mondo e della vita, con il senso della trascendenza, del bisogno umano della Redenzione da parte di Dio, e della indispensabile mediazione di Gesù Cristo per la salvezza del mondo.
Si è trattato, in altre parole, di una congiura, di una cospirazione vera e propria, ai danni della Chiesa e ai danni dell’opera di Redenzione di Gesù Cristo nei confronti dell’umanità. Non è certo un caso che i settori più "avanzati" della Chiesa, quelli che con più forza vollero il Concilio e quelli che, dopo di esso, più spinsero affinché venisse pienamente attuato il suo "spirito", cioè la definitiva secolarizzazione del cattolicesimo e la riduzione della Chiesa cattolica a una specie di grande organizzazione filantropica non governativa, siano stati quelli della Germania e degli altri Pesi più prossimi all’Europa protestante: i quali, vedi un po’, erano e sono anche quelli maggiormente interessati dalla diffusione della civiltà della tecnica. Si potrebbe perfino ipotizzare che lo scisma luterano sia stato il braccio armato di una parte dell’Europa in cui la nascente civiltà della tecnica non sopportava più le "pastoie" della civiltà e della morale cristiana: una per tutte, la condanna dell’usura e quindi un intralcio oggettivo allo strapotere del nascente sistema finanziario mondiale. Rahner, Schillebeeckx, Küng, Lehmann, Kasper, Schönborn, Marx, e l’elenco potrebbe continuare: sono in gran parte tedeschi o fiamminghi gli autori della "svolta antropologica" che, dal Concilio a oggi, instancabilmente ha lavorato e continua a lavorare per condurre al fatale abbraccio della Chiesa con il "mondo", che è, nella fattispecie, il mondo della tecnica, cioè un mondo senz’anima, dominato dalla logica dell’efficienza e del progresso, inteso in senso non umanistico, ma radicalmente anti-umano. Con i risultati che vediamo ogni giorno e che, senza dubbio, vedremo sempre più spesso e sempre più largamente diffusi. Fino al punto di dover udire un papa, o colui che ha il titolo di papa, affermare, alla vigilia di Pasqua, che l’inferno non esiste, che il Giudizio non ci sarà e che l’anima non è immortale…
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