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Che cos’è la libertà religiosa?

Due, a nostro avviso, sono gli errori teologici di fondo del Concilio Vaticano II, le cui velenose conseguenze stanno giungendo a maturazione nella neochiesa dei nostri giorni: la pretesa di poter "approfondire" e quindi "meglio comprendere" il senso della Rivelazione cristiana, e la scelta del disarmo unilaterale verso i nemici – perché di nemici si trattava e si tratta, alla faccia del politicamente corretto -, sia esterni sia, ancor di più, interni, vale a dire gli eretici (una parola tabù, caduta completamente in disuso).  Entrambi gli errori, che sono le due facce di un unico errore, cioè il modernismo, hanno in sé i germi delle due malattie che stanno distruggendo il cattolicesimo: il soggettivismo della coscienza rispetto alla oggettività della dottrina, e un sedicente "dialogo" con l’altro che si risolve, in ultima analisi, e dietro la maschera della "tolleranza" (tipico atteggiamento volterriano, cioè illuminista, cioè dichiaratamente anticristiano) in agnosticismo e indifferentismo di fronte alla Verità. Entrambi gli errori erano più che prevedibili, erano perfino annunciati, dal momento che entrambi erano già contenuti, in nuce, nel discorso di apertura del Concilio, tenuto da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962. Infatti, dopo un’aspra rampogna (4, 2) contro i profeti di sventura, e una vera e propria dichiarazione di fede nello storicismo, poiché i profeti di sventura non imparano nulla dalla storia, che è maestra di vita (ma quando mai?), si passa a una dichiarazione di fede nel progresso, definendo il momento presente particolarmente fausto e propizio per lo svolgimento del Concilio: il che equivale a inscrivere immediatamente un grande papa, come Pio XII, fra i detti profeti di sventura, dato che anche lui aveva pensato alla eventualità di convocarlo, ma vi aveva rinunciato, ben sapendo quanto il momento fosse, invece, pericolosissimo, proprio per l’infiltrazione massonica nei livelli più alti della Chiesa. E dopo lo storicismo e il progressismo, l’affondo, molto ben dissimulato dietro una cortina fumogena di belle parole: il Concilio non viene convocato per motivi dottrinali, ma solo pastorali; nulla vi è da discutere quanto alla dottrina, ma solo da renderla più comprensibile  ai "tempi nuovi" (6, 5):

occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale.

Insomma: da un lato si rassicura che  che nulla verrà minimamente modificato di ciò che pertiene al Deposito della fede; dall’altro, si introduce l’ambiguo concetto del modo di annunziare le verità della fede, che può e deve cambiare col mutare dei tempi (secondo quanto è richiesto dai nostri tempi), e che, in particolare, deve tener conto delle esigenze, delle aspettative, della particolare psicologia e sensibilità dell’uomo moderno (come se il Vangelo non fosse rivolto agli uomini di tutti i tempi e indipendentemente dal tempo). In pratica, il secondo concetto neutralizza e fagocita il primo.  E così, pian pianino, un passetto dopo l’altro, ci si accinge a mutare la dottrina, facendo sembrare che a cambiare sia solo il modo di annunciarla. 

Ancora più sconcertante l’annunzio che è finito il tempo in cui la Chiesa combatteva l’eresia; tanto più stupefacente, in quanto si ammette che il temo delle eresie non è finito per niente, anzi, essa è più viva che mai, in molteplici forme (7,2):

Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando. Non perché manchino dottrine false, opinioni, pericoli da cui premunirsi e da avversare; ma perché tutte quante contrastano così apertamente con i retti principi dell’onestà, ed hanno prodotto frutti così letali che oggi gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle, soprattutto quelle forme di esistenza che ignorano Dio e le sue leggi, riponendo troppa fiducia nel progressi della tecnica, fondando il benessere unicamente sulle comodità della vita. 


La cosa più incredibile, di questo bislacco ragionamento – il pericolo dell’errore c’è, eccome; però non vale la pena di combatterlo e condannarlo, basta usare la misericordia – è la sua giustificazione: ossia che oggi gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovare quelle dottrine le quali contrastano così apertamente con i retti principi dell’onestà. Spontaneamente? Vale dire, in base a una visione laica e agnostica, e non a una visione spirituale e religiosa, non in base alla visione cristiana della vita. A parte la temerarietà di questa asserzione, che a noi pare del tutto infondata proprio sul piano del giudizio storico (nonostante l’asserita necessità di imparare ciò che la storia insegna), è proprio la consequenzialità logica che viene meno: si ammette che le dottrine erronee esistono, ma non si chiarisce se si sta parlando della dottrina cattolica o delle varie "dottrine" umanitarie; e si conclude che il pericolo non è poi tanto grave e che si può affrontarle con le armi della misericordia invece che quelle del rigore: si dà torto a millenovecento anni di Magistero e di prassi della Chiesa cattolica e si proclama che, d’ora in poi, la Chiesa non vuol più opporsi all’errore, ma fronteggiarlo con una non meglio definita misericordia". Ma una misericordia che accetta l’errore come un dato di fatto, come una realtà con la quale si deve "dialogare", e, fondamentalmente, accettare, non è la misericordia cristiana: non è la misericordia di Gesù Cristo, attestata dai Vangeli. Gesù Cristo era misericordioso con i peccatori pentiti, non già con la diffusione dell’errore; al contrario: aveva parole di fuoco contro i seminatori di scandali, augurando loro di legarsi una pietra al collo e di gettarsi nel mare. In queste parole di Giovanni XXIII sono già presenti le deviazioni e le deformazioni della neochiesa odierna: un falso concetto della libertà, un falso concetto del dialogo, un falso concetto della misericordia; e, cosa più grave di tutte, un falso concetto dell’amore. Il vero amore del prossimo non è lasciare che costui perseveri nell’errore; il vero amore è cercare di portarlo verso la Verità, per il suo bene e nel suo interesse, anche a costo di farsene un implacabile nemico.

Ma la neochiesa non la vede così. Per la neochiesa, figlia del Concilio e in particolare della Nostra aetate e della Dignitatis humanae, le altre religioni e le altre verità meritano lo stesso rispetto dovuto al Vangelo, per cui non se ne parla nemmeno di mettere in pratica le parole di Gesù Cristo: Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo; nossignori, quel che il cristiano "maturo" e "moderno" deve fare, è rispettare tutte le fedi e accettare tutte le altre verità (relativismo), perché, come ha detto Bergoglio senza mezzi termini (intervista a Scalfari), il proselitismo è una solenne sciocchezza. Stesso discorso per gli errori interni alla religione cattolica: non è il caso di parlare di eresie, si tratta solo di "errori", e la sola risposta verso di essi è un atteggiamento misericordioso; perché la verità è che i cattolici progressisti, compreso Giovanni XXIII, si vergognavano e si vergognano più che mai del passato della Chiesa, un passato nel quale gli eretici venivano combattuti apertamente e l’eresia veniva considerata, anzi, in maniera ancor più severa dei nemici esterni, perché era considerata l’equivalente di un inquinamento deliberato della Verità: come se dei malintenzionati avvelenassero l’acqua dei pozzi in mezzo al deserto, condannando alla morte tutti i viaggiatori che si trovino in cammino entro un ampio raggio attorno a quell’unica oasi. E, se si vuole andare alla radice di questo nuovo orientamento, che emerge dal discorso dell’11 ottobre 1962, si rifletta su queste parole di Karol Wojtyla, rilasciate al giornalista Vittorio Messori, a trent’anni di distanza dal Concilio (da: Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994, pp.171-17; le parole evidenziate sono nel testo):

IL CONCILIO VATICANO II È STATO UN GRANDE DONO PER LA CHIESA, per tutti coloro che vi hanno preso parte; è stato un dono per l’intera famiglia umana, un dono per ciascuno di noi. […]  Sulla base dell’esperienza conciliare scrissi "Alle fonti del rinnovamento". All’inizio del libro affermavo che voleva essere un TENTATIVO DI ESTINGUERE IL DEBITO contratto da ogni vescovo nei riguardi dello Spirito Santo, partecipando al Concilio. Sì, il Concilio ebbe in sé qualcosa della Pentecoste: indirizzò l’episcopato di tutto il mondo, e quindi la Chiesa, proprio sulle vie  lungo le quali occorreva procedere al termine  del secondo millennio. […] IL CONCILIO ERA UN’OCCASIONE SINGOLARE PER ASCOLTARE GLI ALTRI, MA ANCHE PER PENSARE CREATIVAMENTE. […] Sì, dunque, già durante la terza sessione mi trovai nell’équipe che preparava il cosiddetto Schema XIII, il documento che sarebbe poi diventato la Costituzione pastorale "Gaudium et Spes"; potei in tal modo partecipare ai lavori estremamente interessanti di questo gruppo, composti dai rappresentanti della Commissione teologica e dell’Apostolato dei laici. […] Molto devo in particolare a padre Yves Congar e a padre Henri De Lubac.  […] Il Concilio fu UNA GRANDE ESPERIENZA DELLA CHIESA, oppure — come allora si diceva — il "SEMINARIO DELLO SPIRITO SANTO". Al Concilio lo Spirito Santo parlava a tutta la Chiesa nella sua universalità, che era determinata dalla partecipazione dei vescovi del mondo intero. […] Ciò che lo Spirito Santo dice costituisce sempre una penetrazione più profonda dell’eterno Mistero, e insieme un’indicazione della strada da percorrere agli uomini che hanno il compito di trasferire tale Mistero nel mondo contemporaneo. Il fatto stesso che quegli uomini vengano convocati dallo Spirito Santo e costituiscano, durante il Concilio, una particolare comunità che insieme ascolta, insieme prega, insieme pensa e crea, ha un’importanza fondamentale per l’evangelizzazione, per quella NUOVA EVANGELIZZAZIONE CHE PROPRIO CON IL VATICANO II HA AVUTO IL SUO INIZIO. Tutto ciò è in stretto collegamento con una nuova epoca nella storia dell’umanità e anche nella storia della Chiesa. […]

… il Concilio Vaticano II si distingue dai concili precedenti per il SUO PARTICOLARE STILE. Non è stato uno stile difensivo. Neanche una volta nei documenti conciliari s’incontrano le parole "anathema sit" (sia scomunicato). È stato uno STILE ECUMENICO, caratterizzati da grande apertura al dialogo, che il papa Paolo VI qualificava come "dialogo della salvezza". Tale dialogo non doveva limitarsi soltanto all’ambito cristiano, ma aprirsi anche alle religioni non cristiane, e raggiungere l’intero mondo della cultura e della civiltà, compreso quello di coloro che non credono. La verità, infatti, non accetta alcun limite. È per tutti e per ciascuno. E se tale verità viene realizzata nella carità (cfr. Ef 4, 15), allora diventa ancor più universalistica. Proprio questo è stato lo stile del Concilio Vaticano II, lo spirito in cui s’è svolto.

A parte il debito dichiarato verso Congar e De Lubac, due dei più audaci progressisti protagonisti della svolta conciliare, la cosa che più lascia sconcertati in questo discorso è la fiera rivendicazione che lo "stile" del Concilio non è stato uno stile difensivo, e che neanche una volta nei documenti conciliari s’incontrano le parole "anathema sit" (sia scomunicato). Wojtyla non sembra sfiorato dalla possibilità che ciò sia stato un colossale errore, nonché un enorme fraintendimento della fede e del Vangelo: qualcosa di molto simile a lasciar pascolare tranquillamente i lupi feroci in mezzo al recinto delle pecorelle. Anche lui sembra pensare, come tanti teologi e preti della neochiesa odierna, in maniera perfettamente laica, che la libertà religiosa consista nel credere in ciò che si vuole, sia fuori che dentro la Chiesa; che tutte le opinioni e credenze sono lecite, purché in buona fede; che nessuno deve esser anatema. Strano, perché san Paolo dice chiaramente (Gal 1, 6-8): Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro Vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal Cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema! E non è proprio ciò che dicono i neopapi…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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