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Basilio di Cesarea e la scoperta del paesaggio

Chi e quando, nelle letterature dei popoli europei, ha scoperto il paesaggio? Intendiamo dire: non il paesaggio come semplice sfondo, più o meno decorativo, delle vicende umane; non il paesaggio stilizzato, idillico, di Teocrito o di Virgilio; né il paesaggio allegorico e simbolico, proprio dei medievali, come nella Divina Commedia; e neppure il paesaggio idealizzato e stilizzato, di esplicita matrice letteraria, di Petrarca, come nella Ascensione al Monte Ventoso, una delle sue epistole più universalmente conosciute. Chi e quando ha "sentito" il paesaggio come qualcosa che vive di vita propria, che ha una sua dimensione intima, un suo valore autonomo, e che esercita un fascino ben preciso, non un fascino generico e astratto, ma un fascino reale, chiaramente percepibile e quasi, vorremmo dire, misurabile, nel senso che produce un’eco profonda e sincera nell’anima che lo contempla? Chi ha saputo guardare al paesaggio in questo modo, per primo, nell’ambito della civiltà occidentale? Forse il latino Ausonio, con il suo poema Mosella? (cfr. il nostro articolo Nasce con la "Mosella" di Ausonio la moderna poesia del paesaggio, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 09/05/2012). E tuttavia, è innegabile che, nonostante la freschezza e il realismo delle descrizioni, neppure qui il paesaggio vive di vita propria: pur essendo l’oggetto dell’opera, si direbbe che il vero protagonista sia, piuttosto, l’occhio che contempla, e che, contemplando, gode intensamente le sensazioni che da quel paesaggio gli vengono.

A nostro parere, per giungere alla vera "scoperta" del paesaggio, ossia al riconoscimento che il paesaggio può essere un soggetto, oltre che un oggetto, di poesia, bisogna soffermarsi su uno scrittore che a tutto avrebbe pensato, tranne che di essere ricordato per questo: Basilio di Cesarea, asceta, eremita, teologo, arcivescovo controvoglia, massimo difensore del dogma trinitario contro l’eresia ariana, le cui tesi trionfarono al Concilio di Costantinopoli del 381. Proprio da questo improbabile pittore di paesaggi ci è giunta, in una lettera — ma una lettera "vera", non una lettera artefatta e addomesticata, come quella di Petrarca — la prima autentica e sentita descrizione di un paesaggio naturale: non di un giardino, dove la natura è sapientemente disposta dall’uomo, e nemmeno di una campagna, dove il lavoro umano addolcisce le forme e mitiga gli eccessi della natura; ma un paesaggio selvaggio e nello stesso tempo armonioso, affascinante, indimenticabile, che tocca l’anima di colui che lo descrive, e anche quella del lettore che, a tanti secoli di distanza, ha quasi l’impressione di vedersi davanti quel luogo pittoresco, straordinariamente seducente per uno spirito ascetico e contemplativo come quello di Basilio, che, infatti, vi fondò una comunità cenobitica. In verità, Basilio e Ausonio vivono nella stessa epoca, sono contemporanei; e non è impossibile che uno dei due, il greco o il romano, abbia avuto modo di leggere le opere dell’altro, o forse entrambi vicendevolmente. Ma queste sono mere speculazioni, benché non prive di una certa logica: due uomini colti; due scrittori; due cristiani (anche se il cristianesimo di Ausonio, se pure fu tale, dovette essere molto tiepido a paragone dell’ardente fece di Basilio, anche come atteggiamento di vita complessivo), vissuti negli stessi anni, entro i confini del medesimo impero, nonostante le differenze di lingua e cultura, difficilmente possono essersi del tutto ignorati. Sia come sia, ribadiamo che mentre il paesaggio, per Ausonio, è qualcosa di più che un semplice sfondo, ma non è ancora del tutto il protagonista del suo poemetto, almeno non nel senso che sia visto nella sua perfetta autonomia, ma, piuttosto, come l’occasione perché l’autore faccia il suo bravo sfoggio di erudizione geografica e naturalistica, in Basilio invece, anche se predominano ancora le impressioni soggettive dell’autore, il paesaggio è perfettamente vivo e realistico, sembra uscire dagli schemi letterari abituali ed emerge davanti a noi in tutta la sua fresca grazia, non priva di una certa qual primitiva austerità.

Si tratta della lettera che Basilio, nel 358, indirizza al suo grande amico Gregorio Nazianzeno per convincerlo a raggiungerlo, la numero 14 del suo epistolario, che qui presentiamo nella traduzione di Ettore Bignone (in: Giuseppe Rosati, Scrittori di Grecia. Testi, traduzioni, commenti, vol. 3, Il periodo ellenistico, Firenze, Sansoni Editore, 1972, 1985, pp. 539-540):

Debbo ormai migrare verso il Ponto, ove forse, con il voler di Dio, avrà fine il mio peregrinare. Perché, rinunziato a stento alle speranze che avevo posto in te, anzi più che speranze sogni, se debbo dire il vero (perché io approvo chi dice che le speranze sono sogni d’uomo desto) venni qui al Ponto, per cercarvi quella vita che all’anima mia si confà. E qui Iddio mi ha fatto trovare il luogo secondo il cuor mio. Quello che tante volte nella fantasia ci siamo creato, nel gioco dell’immaginazione, nel riposo dell’anima, ecco io l’ho qui dinanzi a me: è divenuto realtà. Un alto monte coperto da una spessa selva, tutto scosciante a settentrione di vive acque, fresche e limpide. A piedi del monte una pianura declive fecondata dalle acque che scendono dalla montagna. Una foresta di vari alberi di ogni specie, cresciutavi spontaneamente, per opera della natura, la cinge e difende, quasi di un baluardo. Sappi che poca cosa mi sembra sia al suo paragone anche l’isola di Calipso, che Omero sembra aver ammirato più di un altro luogo per la sua bellezza. E veramente poco vi manca ad essere un’isola; perché da ogni parte questo luogo è recinto. Due profondi burroni lo limitano da due parti; di fianco il fiume che scroscia giù dai dirupi è esso pure quasi un baluardo continuo e difficile da varcarsi. Dall’altra parte il monte, che lungamente si stende per curve convalli, ricongiungendosi ai burroni, interclude gli accessi dalla pianura. Un solo adito vi è; e ne siamo noi signori.

Sopra un giogo che s’erge in una vetta elevata è il luogo ove abitiamo; tutto il piano si stende di là al mio sguardo e il corso del fiume pure: veduta che non mi dà minore gioia che lo Strimone agli abitanti di Anfipoli. Esso infatti ristagnando con più lento corso, per poco, per quel suo pigro fluire, non cessa d’essere fiume; questo invece, più rapido fra quanti ne conosco, per breve spazio si frange contro il dirupo; e poi, di lì riversandosi, si getta turbinoso in una voragine. Una veduta bellissima offre a me e ad ognuno che lo contempli; agli abitatori del luogo utile vantaggio; ché nutre una indicibile quantità di pesci. Debbo ancora io dirti le soavi emanazioni che sorgono dalla terra; le aure che spirano dal fiume? Come dirti l’abbondanza dei fiori, o dei musici uccelli? Altri li potrà esaltare; io non ho agio di volgervi l’anima. Di questo luogo quello che mi è più caro è che, essendo atto a produrre ogni genere di frutti, porge a me il frutto più caro di ogni altro: la pace del cuore. non solo perché mi sono liberato dai turbamenti e dagli strepiti della città, ma anche perché non vi giunge alcuno se non qualche cacciatore. Ha infatti abbondanza di animali selvaggi; ma non dei vostri orsi e leoni; sì invece torme di cervi e capre selvagge e lepri e simili animali. Sappimi comprendere e scusami di essere venuto qui. Anche Alcmeone, quando trovò le Echinadi, pose fine ai suoi errori.

Anche se non mancavano i richiami letterari al luogo idilliaco della tradizione classica — l’isola di Calipso nell’Odissea, le isole Echinadi nel Mar Ionio, davanti alla foce del fiume Aspropotamo, intrecciate con il mito dell’eroe Alcmeone, perseguitato dalle Furie per avere ucciso la propria madre Erifile – il paesaggio di monti, boschi e vallate descritto da Basilio in questa splendida pagina di prosa narrativa non è di matrice letteraria: egli non "vede" le cose attraverso il prisma della poesia, ma è la poesia che gli offre dei termini di confronto con le cose, restando peraltro inferiore all’originale. Un processo inverso a quello di Petrarca, il quale, nel salire le pendici del Monte Ventoso, non ci dice quasi nulla del paesaggio, ma si perde nella rievocazione di topoi letterari, come il Monte Emo (oggi Monte Botev, la cima più alta della Penisola Balcanica: 2.376 m.s.m., in Bulgaria), scalato da Filippo V di Macedonia, dal quale, secondo il racconti di Tito Livio, il re macedone disse d’aver visto sia il Mare Adriatico che il Ponto Eusino (Mar Nero); oppure tira fuori dal sacco Le Confessioni di sant’Agostino, e si mette a leggerle, proprio sulla cima; oppure, ancora, paradossalmente, non ci dice quel che ha visto, ma ciò che non è riuscito a vedere a causa della distanza, come la catena di Monti Pirenei. Nello stesso tempo, pur descrivendo il suo rifugio di Annesi, nel Ponto (Anatolia settentrionale) come un luogo solitario e selvaggio, di difficile accesso e frequentato solo da qualche raro cacciatore di cervi, capre selvatiche o lepri, gli conferisce molte delle caratteristiche del paradeisos, del luogo paradisiaco ove l’anima inquieta trova la pace, quasi una copia del Giardino dell’Eden e, in qualche modo, una anticipazione del paradiso vero e proprio, che attende le anime sante dopo la fine della vita terrena.

Tuttavia, se la descrizione del vorticoso e spumeggiante fiume Iris ha qualcosa di pittorico e di pittoresco, cioè di romantico, l’elenco preciso degli animali selvatici che vi abitano ha un sapore realistico, specie a causa del confronto con la fauna presso Tiberina, in Cappadocia, nella quale son presenti anche animali feroci (i vostri orsi e leoni), che fuga del tutto ogni sospetto di abbellimento e di stilizzazione letteraria (cfr. il nostro precedente articolo: Quando orsi, lupi e gazzelle scorrazzavano per i boschi dell’isola di Eubea, basato su un brano di Dione Crisostomo, e pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 04/09/2012). Anche il confronto tra il fiume descritto nella lettera e lo Strimone (l’odierno Struma) ci introduce in un’atmosfera realistica, perché Basilio descrive con precisione di geografo il lento corso del fiume che bagna Anfipoli e lo confronta con quello, assai rapido, del fiume che scorre nella sua proprietà del Ponto. L’abbondanza meravigliosa di fiori profumati, frutti, pesci e uccelli canori potrebbe, di nuovo, far sorgere il sospetto che si tratti di una invenzione di topoi poetici, sempre sul solco del biblico Giardino dell’Eden. Ma subito dopo si sente che Basilio sta parlando, o meglio, scrivendo, con tutta la sincerità di un’anima religiosa; non si permetterebbe d’inventare, su cosa di tale serietà. Lui non è andato laggiù, nel Ponto, in cerca di un buen retiro, d’un luogo ove coltivare pigramente l’otium letterario e gli studia humanitatis, come un Cicerone o un Petrarca; no: è andato fin laggiù per trovare un luogo di silenzio e solitudine in cui poter pregare e incontrare Dio. Vi è andato, cioè, con animo di asceta, di mistico e di eremita, non di erudito o di cultore delle belle lettere. È un contemplativo che desidera la pace del cuore e che sente d’averla trovata, dopo aver volto le spalle alle tentazioni e ai rumori della città: Di questo luogo quello che mi è più caro è che, essendo atto a produrre ogni genere di frutti, porge a me il frutto più caro di ogni altro: la pace del cuore. Fin da principio, del resto, Basilio si era rivolto a Dio e Dio gli aveva parlato attraverso quel luogo: E qui Iddio mi ha fatto trovare il luogo secondo il cuor mio. Ecco: qui si sente che Basilio parla da cristiano, non — come direbbe Gerolamo — da ciceroniano; non sta giocando al gioco delle belle lettere, sta facendo terribilmente sul serio. La sua anima è assetata di Dio, come la cerva dei rivi delle acque, come canta il salmista. Ed è la serietà dell’anima cristiana che gli consente di cogliere il lato spirituale del paesaggio, non la sensualità dell’anima pagana, sempre pronta a far capolino dalle favole dei poeti classici.

È la stessa cosa che accade a Giotto, il primo pittore medievale che sa cogliere l’autonomia del paesaggio, e che lo sa vedere non come semplice sfondo dell’azione umana. Si osservi, nel Sogno di Gioacchino, nella Cappella degli Scrovegni a Padova, il paesaggio di aride rupi, nel quale le capre vanno a brucare qualche stentato ciuffo d’erba: il paesaggio, pur sullo sfondo, prende vita, vive di un’esistenza sua propria. Ed è la visione cristiana che gli ha conferito quella autonomia, perché in essa lo splendore e la sapienza di Dio rifulgono in ogni cosa, anche nei sassi, nelle rupi e nei ciuffi d’erba di un brullo paesaggio, spogliato di qualsiasi ornamento artificioso. L’arte cristiana non ha bisogno di creare paradisio artificiali, perché tutta la natura è un riflesso del paradiso terrestre, sia pure offuscato dalla ferita del Peccato originale. E ciò vale anche per la poesia cristiana. Basilio sa vedere nel paesaggio più cose di quante ne sapevano vedere Omero, Teocrito, Virgilio o Ausonio, perché le vede con l’occhio dell’anima e coglie in esse un riflesso della magnificenza divina. Tuttavia, chiederà qualcuno, quali garanzie abbiamo sulla "sincerità" di Basilio, sul fatto che non proietti sul paesaggio il riflesso del suo mondo interiore? Nient’altro che le sue parole. Le si confronti con quelle di Petrarca, nell’Ascensione al Monte Ventoso: là dove il poeta umanista procede, di frase in frase, di balza in balza, gonfio del proprio io, che misura rispetto a se stesso tutte le cose che incontra, qui abbiamo un uomo, un cristiano, che si è spogliato del suo io e che cerca veramente Dio, non a parole, non con sospiri e lamenti. Chi cerca realmente Dio, non lo dice: lo cerca nel silenzio; e lo trova. Chi dice di cercare Dio, ma in realtà coltiva e nutre sempre di più la pianta del proprio io, si vanta della propria ricerca, ostenta le proprie pene e non trova un bel nulla. Il vero cristiano sa veder le cose nella loro bellezza, come san Francesco nel Cantico delle creature; l’umanista travestito da cristiano non sa spogliarsi neanche un attimo di sé, quindi non vede altro…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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