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Il credente si eleva umiliandosi, l’egoista si degrada

Vi è una curiosa corrispondenza al rovescio fra l’orientamento esistenziale e morale del seguace di Cristo e di colui che segue gli appetiti e le brame della carne: il primo si umilia per poter essere elevato da Dio, il secondo si degrada nell’illusione di realizzare un ulteriore innalzamento del proprio ego ipertrofico. Gesù Cristo ha sintetizzato superbamente questo paradosso con le parole: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? (Matteo, 16, 24-26). Concetto che Egli ha espresso in maniera ancor più lapidaria, dicendo: Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi (Matteo 19, 30).

La degradazione dell’uomo moderno è di un tipico particolare, in quanto è, sovente, una auto-degradazione volontaria: egli sa che la strada che ha imboccato, inseguendo i propri desideri più sfrenati, lo porterà sempre più in basso, e che, di abiezione in abiezione, egli si renderà spregevole, alla fine, ai suoi stessi occhi; nondimeno, non fa nulla per trattenersi, anzi, corteggia egli stesso i fantasmi che lo tentano, e si lascia condurre per mano, perfettamente cosciente di ciò che sta facendo, verso l’abisso da cui non si ritorna. Perché lo fa? Per vedere fin quanto in basso si può scendere; e, in effetti, rimane egli stesso sorpreso di constatare che, alla discesa, teoricamente non c’è mai fine. La fine giunge, semmai, per ragioni pratiche e contingenti; ma, se agli esseri umani fosse dato in sorte di non dover fare i conti, presto o tardi, con le conseguenze delle loro scelte, senza dubbio essi finirebbero per scoprire come la scala che porta verso il basso ha bensì un principio, ma non ha una fine.

Se c’è un uomo che impersona pienamente questa ansia di auto-degradazione dell’uomo moderno, costui è il poeta Arthur Rimbaud, al quale si deve l’aforisma (ingiustamente) celebre: Si deve essere assolutamente moderni, una di quelle frasi che sembrano celare chissà quale profondo messaggio e che non celano, invece, un bel nulla, se non la banalità di una "saggezza" da quattro soldi, buona per sfruttare la direzione del vento, in questo caso della modernità e della fiducia in essa, ma che al primo cambiare del vento, si rivelerà per quello che realmente è: una bolla di sapone, piena solo di aria. Non per nulla Rimbaud, l’angelo del male, adopera quella espressione in quello che molti considerano il suo capolavoro, Une Saison en Enfer (Una stagione all’inferno), scritta nel 1873, di ritorno in Francia, dopo la rottura con Paul Verlaine, che, per lui, aveva lasciato moglie e figlio e si era rovinato irrimediabilmente la reputazione. E giustamente lo scrittore ceco Milan Kundera, nel romanzo L’immortalità, fa notare l’estrema, fondamentale ambiguità di quella espressione, dal momento che il concetto di modernità è di per stesso quanto mai relativo, muta continuamente con il mutare del tempo, e potrebbe significare domani l’esatto contrario di quel che significa oggi.

In effetti, Rimbaud ha disceso con zelo e perseveranza, un gradino dopo l’altro, in perfetta coscienza e lucidità, la scalda che conduce alla degradazione di se stesso: dalla droga alla sodomia, dalla sfida sprezzante a tutte le convenzioni sociali del suo tempo, Dio, patria, famiglia, fino a un’oscura carriera di trafficante d’armi e, forse, di schiavi, nel cuore dell’Africa, non si può certo dire che gli siano venute meno la coerenza o la forza d’animo nel percorrere, senza mai deflettere, dal cammino intrapreso.

Ha osservato la critica letteraria irlandese Enid Starkie (1897-1970), fra i maggiori studiosi della poesia simbolista e d Rimbaud in particolare, nel suo volume Jean-Arthur Rimbaud (titolo originale: Arthur Rimbaud, London, Faber & Faber, 1973; traduzione dall’inglese di Carla Rossi e Marco Amante, Milano, Rizzoli, 1981, pp. 380-381):

Sempre smanioso di progredire rapidamente, senza aspettare di porre fondamenta solide: istantaneamente doveva sorgere l’edificio, quasi per magia. Ed effettivamente in tutte le cose faceva affidamento più sul potere degli incantesimi magici che non sui propri sforzi. Non appena concepita un’idea, bisognava che avesse realizzazione immediata. Percepiva il fine, ma mai i mezzi per raggiungerlo e non avrebbe imparato mai la moderazione e la pazienza. […]è interessante immaginare che cosa sarebbe potuto diventare se avesse saputo lasciare che i suoi splendidi talenti germogliassero lentamente, che venissero a piena maturazione nella giusta stagione; che cosa avrebbe potuto diventare se avesse saputo accettare umiliazioni e incomprensioni, come Baudelaire, il quale disse: "Mes humiliations on été des graces de Dieu". Mentre l’orgoglio e l’arroganza di Baudelaire erano così forti che non riuscì mai ad imparare niente dai propri insuccessi. Gli mancava quella dote che è uno degli ingredienti vitali del grande genio: l’umiltà, la semplicità.

Gli psicologi potrebbero pensare che la sua impazienza fosse, fino a un certo grado, indizio di un arresto nello sviluppo e che, sotto questo aspetto, rimanesse un bambino fin al suo ultimo giorno. Tutte le volte che una cosa attirava il suo interesse o la sua fantasia, s’immaginava che quella fosse l’unica tra le tante che aveva desiderato, la sola capace di chiarire tutto il resto, che l’avrebbe compensato delle delusioni precedenti. Per un certo periodo vi si dedicava con l’interesse appassionato di cui la sua natura era capace, ma ben presto l’abbandonava , quando l’interesse svaniva. Quante volte, dalla Somalia, scrisse ai suoi: "Non ho trovato quel che m’aspettavo! Non resterò qui a lungo". Quanti progetti non accarezzò, a quanti non mise  mano, per poi portarne ben pochi a compimento! […]

Non gli riuscì di accettare limitazioni imposte dall’esterno e non imparò mai ad auto-disciplinarsi. Fino all’ultimo giorno il suo carattere rimase in uno stato di rivolta generica: si ribellava contro tutto, contro le condizioni sociali, contro la religione accettata, contro ‘arte e contro tutto quel che è inerente alla vita. Questo desiderio fanatico di libertà, derivato anch’esso dall’orgoglio, prendeva forme morbose nelle sue manifestazioni estreme. Non tollerava la mano d’un uomo sulla sua spalla e preferiva distruggere se stesso. è tragico che abbia appreso – ma troppo tardi – che la libertà non è un diritto che si acquista nascendo, ma al contrario è una merce che, come tutto in questo mal costrutto mondo, si deve pagare, e a un prezzo assai alto, fatto di servitù personali e amare umiliazioni. Non si è liberi di essere completamente se stessi se non si compra questo diritto a furia di sottomissioni e concessioni penose, se non si lotta faticosamente per conquistare le cime più alte, dove c’è aria da respirare. Troppo tardi Rimbaud decise di comprarsi la libertà: il prezzo era ormai salito a livelli ben più elevati che in precedenza. Poi, durante gli anni migliori della maturità, quando avrebbe potuto assaporare una certa misura di libertà, si mise a comprarla febbrilmente – come faceva con tutte le cose – al prezzo altissimo d’una servitù dolorosa, di patimenti crudeli.

Al tempo della lotta tragica espressa in "Une Saison en Enfer", aspirava a una religione nella quale perdersi completamente, ma non era disposto a pagarla a prezzo d’una qualsiasi alienazione della propria libertà personale. Preferì soffocare quella sete del suo cuore e pateticamente la considerò una vittoria. Nei "Demoni" Dostoevskij descrive un personaggio che si uccide allo scopo di provare la sua completa indipendenza da Dio: il modo d’agire di Rimbaud non è molto diverso, soltanto che il suo suicidio è spirituale e non fisico. 

In seguito al trauma che lo stordì da ragazzo, Rimbaud rimase incapace di accettare la vita come la trovò: considerò intollerabili le condizioni di essa e la detestò perché era diversa da quel che l’aveva creduta, da quel che l’aveva sperata. Non voleva, e in realtà non poteva, accettare la normale natura umana, le debolezze altrui, le loro meschinità miserabili. Privo di tolleranza e di pietà, non vedeva nulla di patetico in quel loro non riuscire a vivere secondo un ideale qualsiasi: suscitavano soltanto il suo disgusto. Solo verso quei negri primitivi, che vivevano quasi l’esistenza istintiva e paziente delle bestie da soma, provò qualche sentimento di dolcezza e di simpatia. Non aveva neppure una traccia della comprensione di Baudelaire verso le semplici condizioni umane, e, salvo rari casi proprio al chiudere della sua giornata terrena, neppure l’ombra della sua autentica tenerezza verso i relitti della vita. Delle "grandeurs et mières de l’bomme" (grandezze e miserie dell’uomo) di Pascal non vide che le "misères". Non seppe sopportare la felicità banale della quale sembravano contentarsi coloro che lo circondavamo e si allontanò da tutte quelle cose che rendevano la vita bella  o dolce per gli altri: la tranquillità, l’amore, il semplice lavoro quotidiano. Distrusse in se stesso tutte queste cose, per rimpiangerle poi quando era troppo tardi, e nulla gli rimase su cui edificare. Mai l’esperienza arricchì la sua vita: dall’esperienza non ricavò che cicatrici e scottature.

In questo ritratto psicologico di Rimbaud c’è tutto, o quasi tutto, ciò che contraddistingue il carattere faustiano e demoniaco dell’uomo moderno in quanto tale, compresa l’attrazione per l’occulto, la magia, l’esoterismo, tutte cose che il poeta francese coltivò da giovane, insieme all’alchimia. L’uomo moderno è superbo, incapace di umiltà e di compassione, impaziente, irrequieto, ambizioso: quello che vuole, lo vuole subito; e non vuole questa o quella cosa: vuole tutto. Questa è la sua natura, creata da una aspettativa esagerata nei confronti della vita. Inevitabile il contraccolpo, sotto forma di delusione esistenziale: come diceva il pittore Paul Gauguin: Essendo la vita quello che è, si sogna la vendetta. In sostanza, la rabbia disperata dell’uomo moderno nei confronti della vita nasce dalla sua mancata accettazione; e tale mancata accettazione nasce, a sua volta, da una sopravvalutazione dei poteri dell’uomo, siano quelli della magia, come s’illudeva Rimbaud, oppure quelli della scienza, come s’illudono i vari Odifreddi: in ogni caso, da una fondamentale mancanza di umiltà. È la superbia il peccato capitale dell’uomo moderno, una superbia che ha del demoniaco, perché non accetta limiti, né indugi, né ritardi di sorta, e che è protesa a fare dell’uomo, il pratica, il dio di se stesso. E un dio non ha pazienza, un dio vuole che tutto sia immediatamente così come egli desidera che sia: ecco perché Rimbaud non ha pazienza nemmeno con se stesso, smettere di scrivere poesie a diciannove anni, quando gli altri incominciano, e, per "punirsi" di  non aver saputo creare la Parola Nuova, assoluta, definitiva, capace di rivelare il mistero del Tutto, va a seppellirsi nell’angolo più disgraziato dell’Africa e si atteggia a piccolo padreterno, magari anche benintenzionato, di quelle popolazioni derelitte. Il suo ego ipertrofico aveva bisogno, comunque, di sentirsi dio, e se non poteva essere dio a Parigi, come poeta, dove lo avevano rifiutato come un lebbroso, lo sarebbe stato in qualche landa dimenticata dei "barbari", come mercante dai traffici quanto meno loschi. O Capaneo, dice Dante ne girone dei superbi, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito (Inf., XIV, 63-64)…

Nell’uomo moderno vi è questo tratto caratteristico, una superbia assoluta, sconfinata, prometeica, carica di rabbia e d’arroganza, che tende a incattivirsi mano a mano che le sue mete si rivelano irraggiungibili e i suoi trionfi, illusori e deludenti. In pratica, di lui si potrebbe dire, come di Rimbaud, che non impara nulla dall’esperienza, perché invece di trasformare le sue cicatrici in saggezza ed esperienza, ripete incessantemente le stesse dinamiche e gli stessi errori, andando incontro agli stessi fallimenti. L’uomo modero si sente intimamente un fallito, perché non è riuscito a conquistare l’Olimpo, né a  a strappare il fuoco agli dei; però, per superbia, non lo vuole ammettere, e quindi la sua delusione si trasforma in ira e in sordo rancore, cosa che fa di lui un essere potenzialmente pericolosissimo, carico di distruttività latente, pronta a manifestarsi contro gli altri o contro se stesso. E, proprio come per Rimbaud, si può osservare che la sua superbia lo porta a escludere che possa esistere un Dio che possieda le qualità che a lui mancano, la pazienza e la misericordia; un Dio paziente, per lui, è un controsenso; e invece il Dio dei cristiani è proprio questo: un Dio immensamente paziente e immensamente misericordioso.

Stringe il cuore il pensiero di quanto bene avrebbe potrebbe fare, e quanta gioia avrebbe potuto ricavare dalla vita, un uomo così intelligente, così abile in alcuni aspetti dell’esistenza, così intensamente desideroso di assoluto, come lo era Rimbaud, e come lo sono tanti suoi epigoni odierni, confrontando quelle possibilità meravigliose con il fatto reale del dolore che un tale genere di uomo "demoniaco" ha inflitto ed infligge a se stesso, oltre che ai suoi simili e a tutte le altre creature. E tutto perché un tale tipo d’uomo è disposto, sì, a degradarsi, per vedere fin dove si possa scendere, ma non è capace di umiliarsi davanti a Dio, per farsi docile strumento della Sua volontà…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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