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1 Dicembre 2017Un uomo, e specialmente un pensatore, si giudica dalla sua capacità di riconoscere una grande idea, cioè di riconoscerne la grandezza: non necessariamente di accettarla, e, al limite, nemmeno di capirla sino in fondo; ma riconoscerla, sì. Perché davanti a una grande idea, qualsiasi uomo e qualsiasi pensatore hanno l’obbligo di sentirsi piccoli: è la sola maniera in cui un uomo possa mostrare di avere una statura decente, cioè di non essere un nano. Un uomo che non sa riconoscere una grande idea, quando ce l’ha davanti, e che pretende di trattarla dall’alto in basso, come se lui fosse molto più grande di essa, fa vedere al mondo quanto è piccolo e meschino: firma con le proprie mani la sua condanna all’insignificanza. Il cristianesimo è un’idea grande; grandissima. Inoltre, è l’elemento fondamentale su cui è stata costruita la civiltà europea. Può anche non piacere, e può, naturalmente, non essere accettato nella sua dimensione di Rivelazione divina, di verità soprannaturale; qualsiasi europeo degno di questo nome, però, anzi, qualsiasi abitante del nostro pianeta che conosca un po’ di storia e di filosofa, deve togliersi il cappello di fronte a questa idea, e riconoscerne sia la grandezza, sia il debito che l’umanità, ma in special modo gli abitanti del nostro continente, hanno nei suoi confronti. Se sono quello che sono, ciò dipende in larga misura dal fatto del cristianesimo. Chi non riconosce questo debito e chi disprezza la sua grandezza, dimostra con ciò stesso di essere piccolo: infatti, la piccolezza di pensatori come Bertrand Russell si vede dalla supponenza, ma anche dalla estrema, perfino imbarazzante superficialità, con cui hanno criticato il cristianesimo e affermato di essere fieri di non sentirsi in alcun modo eredi di quella tradizione. Il che, per un europeo, è un non senso: sarebbe come se dicesse di non riconoscersi erede dell’arte greca o del diritto romano; con la differenza che il cristianesimo ha modellato assai più in profondità la nascita dell’Europa, di quanto non abbia fatto la civiltà greco-romana.
Uno di questi uomini piccoli è stato anche Immanuel Kant, specie con La religione entro i limiti della sola ragione, del 1792. In pratica, il nucleo dell’illuminismo è in parte la ripresa di una serie di idee cristiane, in parte un qualcosa di nuovo; e se si avvicina alla grandezza, almeno a livello d’intenzioni, nella prima parte, precipita nella piccolezza nella seconda. Ciò che prende dal cristianesimo è l’idea della fratellanza universale, e anche il suo corollario di libertà ed eguaglianza. Di suo, sviluppa l’idea della infallibilità della scienza, un’idea che si deve a Cartesio, Bacone, Galilei, cioè agli autori della rivoluzione scientifica di un secolo prima; e la rielabora in una completa ideologia del progresso, tanto fiduciosa quanto ingenua. In pratica, l’illuminismo abolisce la vecchia religione di salvezza, il cristianesimo, specialmente nella sua forma cattolica, per sostituirla con una nuova: la religione del progresso, che è, nello stesso tempo, la religione dell’umanità. E siccome l’uomo illuminista si sente portatore d’una volontà di rinascita universale, ascrive ogni merito alla ragione e la divinizza, mentre, abolendo il vecchio dio, la immanentizza: perciò il suo razionalismo è anche un naturalismo, e il suo naturalismo è una forma di razionalismo. Nemmeno in questo, a dire il vero, l’illuminismo è una filosofia veramente originale, perché si limita a riprende una serie di idee del giusnaturalismo del secolo precedente: la ragione è naturale e la natura è ragionevole; dunque, anche la divinità deve essere razionale nel governo del mondo, e ragionevole dal punto di vista degli uomini che la vogliono comprendere. Razionalizzando la natura, il giusnaturalismo crea le premesse di un tipico mito illuminista: la bontà originaria dell’uomo e la convinzione, del tutto assurda, che solo la società lo rende cattivo e infelice; per cui, per restituire agli uomini bontà e felicità, bisogna sottrarli all’influenza malefica di quella stessa società che pure gl’illuministi vogliono riformare, e che dicono essere nata da un patto fra gli esseri umani, ovviamente razionale e ragionevole, e non da una volontà d’ordine superiore.
Quanto alla componente "cristiana" dell’illuminismo, cioè l’idea della fratellanza universale, essa muove da una prospettiva diversa da quella del cristianesimo: gli uomini non sono tutti fratelli perché sono figli dello stesso Dio ma perché dotati della stessa ragione: da ciò l’ingenua esaltazione del cosmopolitismo e da ciò un filantropismo tanto velleitario quanto foriero di possibili sviluppi di segno opposto; perché, se gli uomini sono fratelli nella ragione, sono però anche abbastanza ragionevoli da sentirsi patrioti, nel momento in cui la loro patria diviene il motore della diffusione universale della nuova religione di salvezza: ed è così che gli illuministi francesi passano disinvoltamente dal cosmopolitismo ante 1789 al feroce nazionalismo post 1789. Il nazionalismo francese non nasce con Giovanna d’Arco; con lei era nato il patriottismo, che è un’altra cosa, ossia il senso della propria identità e dalla coscienza delle proprie radici; ma il nazionalismo, ossia l’idea di una superiorità della propria nazione sulle altre, e di un suo diritto/dovere ad espandersi per portare a tutti i popoli i "lumi" della sua idea superire, è figlio dell’illuminismo, e aveva già fatto e prove generali sull’altra sponda dell’Atlantico, con quella guerra civile inglese nelle Tredici colonie che è passata alla storia come la Rivoluzione americana (preludio al corollario di ogni nazionalismo trionfante: il genocidio degli "inferiori" e dei "selvaggi", in questo caso i Pellerossa, mentre, per i rivoluzionari francesi, il "barbaro" da sterminare sarà il contadino della Vandea, come un secolo prima, per gli artefici della "gloriosa rivoluzione inglese", il contadino cattolico irlandese.
Scriveva dunque Kant, nel 1797, nella Appendice ai Principi metafisici della dottrina del diritto, § 8 B (in: Kant, Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, UTET, 2010, pp. 561-563):
Il sacerdozio che non si propaga punto in modo carnale (il cattolico), possiede, per grazia di Stato, terre e sudditi attaccati a queste terre, che appartengono a uno Stato spirituale (detto la Chiesa), al quale i laici sono dati come in proprietà, per la salute delle loro anime, così che il clero, a guisa di uno Stato particolar, ha una proprietà che si trasmette legalmente da un secolo all’altro e che è sufficientemente documentata da bolle papali. Si può ora ammettere che, come tentano di fare gli increduli della repubblica francese, l’onnipotenza dello Stato temporale, abbia il diritto di sopprimere senza riguardo questo rapporto del clero coi laici: il che è come togliere colla forza il proprio agli altri?
La questione è questa: se la Chiesa possa appartenere allo Stato o lo Stato alla Chiesa come cosa sua, perché due poteri supremi non possono essere, senza contraddizione, sottomessi l’uno all’altro. Ora è per se stesso EVIDENTE che solo la COSTITUZIONE DELLO STATO (POLITICO-HIERARCHICA) può sussistere per sede stessa; perché ogni costituzione civile è di QUESTO MONDO, visto che essa è un potere terrestre (di uomini), che si manifesta, con tutte le sue conseguenze, nell’esperienza. I credenti, il cui REGNO è nel Cielo e NELL’ALTRO MONDO, debbono, in quanto si accorda loro una costituzione che si riferisce a un tal mondo (HIERARCHICO-POLITICA), sottomettersi alle sofferenze del secolo, sotto la potenza suprema degli uomini di questo mondo. Non vi è dunque posto altro che per la costituzione civile.
La religione (nella sua manifestazione), come credenza nei dogmi della Chiesa e nel potere dei preti, quali aristocratici di una tale costituzione religiosa, anche quando essa sia monarchica (papale), non può essere da nessun potere civile né imposta né tolta al popolo; e non si deve nemmeno (come si pratica nella Gran Bretagna riguardo alla nazione irlandese) escludere dai servizi pubblici, e dai vantaggi che ne risultano, i cittadini per causa di una religione diversa da quella della Corte.
Ma quando certe anime credenti e pie, allo scopo di ottenere con preghiere, indulgenze ed espiazioni (per mezzo delle quali i servitori della Chiesa, i preti, promettono loro il guiderdone nell’altra vita), la partecipazione alla grazia, istituiscono una fondazione a perpetuità, per mezzo della quale certe terre debbono divenire, dopo la loro morte, una proprietà della Chiesa, e lo Stati divenga vassallo della Chiesa su questo o quel PUNTO o anche COMPLETAMENTE, allora una fondazione di quel genere che si considera fatta a perpetuità, non può avere in nessun modo un tale carattere, e lo Stato può, quando egli lo vuole, sbarazzarsi da quel peso che gli è stato imposto dalla Chiesa. Infatti la Chiesa stessa è un istituto fondato unicamente sulla fede, e quando l’illusione generata da questa opinione si dissipa agli occhi del popolo più istruito, scompare con essa la temibile potenza del clero che vi si fondava sopra, e lo Stato si impadronisce con pieno diritto della proprietà che si attribuiva la Chiesa, vale a dire delle terre che le erano state donate per testamento. Però coloro che godono i feudi dell’istituzione tollerata sin allora hanno il diritto di essere indennizzati per il resto della loro vita.
Persino le fondazioni in perpetuo per i poveri e le case d’istruzione, se hanno un certo carattere determinato dal fondatore secondo la propria idea, non possono essere fondate a perpetuità e gravare indefinitamente il suolo; ma lo Stato deve avere la libertà di adattarle ai bisogni del tempo. Nessuno deve meravigliarsi che sia difficile realizzare sempre una tale idea (per esempio che i fanciulli poveri debbano, alla insufficienza dei fondi caritatevolmente consacrati al servizio della scuola, supplire con l’accattonaggio del canto); poiché colui che fa una fondazione per bontà d’animo, senza dubbio, ma anche un poco per amor della gloria, non vuole che un altro la modifichi secondo le sue proprie idee, perché egli spera che il suo ricordo rimanga in essa eternamente. Ma ciò non cambia la natura della cosa stessa e il dirotto dello Stato, anzi il suo dovere, di modificare ogni istituzione che è contraria alla conservazione e al progresso dello Stato; ed è per questo che nessuna istituzione deve essere considerata come fondata in perpetuo.
Kant non capisce e nemmeno vede la grandezza del cristianesimo che, per lui, rappresenta solo una superstizione del passato; del resto, non gli dedica alcuna particolare attenzione, perché, come filosofo, ha cose più importanti di cui occuparsi, che di quisquilie come la ricerca della "verità". La verità è la cosa in sé, il noumeno, che per Kant è al di là delle possibilità della ragione; ma siccome ciò che si trova oltre la ragione agli illuministi non interessa, nemmeno il principe dei pensatori illuministi se ne dà pensiero, A lui interessa, tutt’al più, un cristianesimo "ragionevole"; che potrebbe essere, al massimo, quello di Lutero, ovviamente espurgato di ogni residuo metafisico; ma il cattolicesimo, proprio no. Per giunta, il cattolicesimo è tutt’uno con la Chiesa, e la Chiesa è il problema numero per lo Stato illuminista, cioè lo Stato organizzato secondo ragione, ovviamente con l’obiettivo di portare la felicità ai cittadini. Ora, dal momento che a Kant interessa sopra ogni cosa il progresso e il rafforzamento dello Stato come strumento di bene universale (si prenda nota di questa ascendenza kantiana di Hegel, col suo superstatalismo, anzi, con la sua statolatria, anche perché da quest’ultimo deriva la statolatria marxista, che altro non è se non una eresia hegeliana), la Chiesa, per lui, è quella cosa fastidiosa che si frappone fra lo Stato e i suoi nobili fini filantropici. In pratica, tutto quel che Kant ha visto e capito della Chiesa è che si tratta di una costituzione spirituale dominata da un’aristocrazia di preti che, sfruttando la credulità e l’ignoranza popolare, hanno creato uno Stato nello Stato, che va rimosso. A lui la Chiesa interessa, in negativo, esclusivamente come problema di ordine pubblico: il suo pensiero si esercita nel trovare una soluzione radicale alla impossibile coesistenza di questi due Stati, dei quali, per lui, uno solo è legittimo, essendo impegnato nella felicità "quaggiù", mentre l’altro è abusivo, perché, essendo impegnato nella felicità "lassù", non dovrebbe possedere alcun bene materiale. In pratica, Kant non fa altro che pescare nel repertorio del giurisdizionalismo e dell’assolutismo illuminato per trovare gli strumenti giuridici, già belli e pronti, coi quali giustificare le spoliazioni e le confische dei beni ecclesiastici da parte dello Stato: offre il suo ingegno al servizio del principe e giustifica la soppressione di ogni istitutivo ecclesiastico nella sfera secolare, qualora il principe lo voglia. Il suo non è nemmeno un pensiero originale, perché si tratta di cose già dette e ridette da Hobbes, poi da Locke e infine da Voltaire, Diderot e dagli enciclopedisti; di suo ci mette solo il rozzo e maligno commento sui giacobini francesi che fanno bene a procedere con mano pesante contro la Chiesa, perché lo Stato, confiscando i beni ecclesiastici e sopprimendo congregazioni religiose, non fa altro che rientrare in possesso del proprio patrimonio e riaffermare ciò che è suo. In realtà, Kant sa bene che le cose non stanno così e se, nel corso dei secoli, la Chiesa ha accumulato quel patrimonio, è stato proprio per colmare il vuoto lasciato dall’autorità statale, e perdurato durante i secoli del feudalesimo; ma deve arrivare alla conclusione desiderata: che lo Stato, nell’ordine giuridico, è depositario di ogni diritto, mentre la Chiesa è solo una usurpatrice e un residuo del passato medievale, destinato a sparire quando i popoli saranno progrediti. Non si può dire che Kant abbia capito molto del cristianesimo. Lo guarda, l’annusa, lo ausculta come un selvaggio fa con un orologio di cui ignora il meccanismo…
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