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Tornare a Dio per poter amare la vita

Se ci troviamo in presenza di una persona veramente pessimista, di un pessimista cronico e non di un pessimista occasionale, la sensazione che proviamo è un misto di tristezza, abbattimento e indefinibile disagio, e non desideriamo altro che di liberarci della sua presenza, aspettando con impazienza che se ne vada, oppure andandocene noi, magari con la prima scusa plausibile. C’è una ragione precisa per tutto ciò: il pessimismo cronico — che è cosa diversa, ovviamente, dalla depressione, essendo uno stato d’animo che si sovrappone permanentemente al carattere, e non una patologia specifica — è, puramente e semplicemente, contro natura; e tutto ciò che è contro natura suscita, nelle persone normali, una reazione di orrore, disgusto, rifiuto, per quanto la nostra parte razionale possa tentare di sdrammatizzare la situazione e per quanto la nostra pare affettiva possa provare un certo grado di compassione nei confronti di quella persona. Sì, lo sappiamo bene: sia l’espressione "contro natura" (che implica il concetto opposto, "secondo natura"), sia la parola "normale" (che evoca immediatamente l’aborrita parola "anormale"), suscita il prurito in tutte le persone politicamente corrette: pazienza. A loro non ci rivolgiamo, perché è inutile discutere con una persona che ha venduto il proprio cervello all’ammasso e che si crede intelligente solo perché riflette il pensiero dominante, credendosi, però una persona autentica, come il cane di Pavlov potrebbe credere di aver fame veramente allorché gli viene la saliva in bocca, anche se noi sappiamo che è solo un riflesso condizionato, prodotto dall’accostamento del suono di un campanello con l’arrivo puntuale della sua razione di cibo.

Ora, se il pessimismo è un atteggiamento esistenziale contrario alla natura, e noi tutti lo sentiamo istintivamente, ciò significa che l’atteggiamento opposto, ossia l’ottimismo, è secondo natura; e le cose, in effetti, stanno proprio così. La vita ha bisogno dell’ottimismo per potersi propagare; se le creature viventi non ne fossero dotate in misura sufficiente, la vita si estinguerebbe, perché la loro riproduzione si farebbe sempre più incerta, precaria e contrastata. Di fatto, al livello degli esseri umani, o meglio, al livello della civiltà occidentale moderna (perché altre civiltà, quella islamica ad esempio, non ne sono afflitte), è proprio questo che sta accadendo: stiamo assistendo a una sorta di estinzione di massa, a un suicidio biologico della nostra civiltà, per disamore verso la vita, il quale a sua volta provoca un crollo demografico: e tutto questo è una conseguenza del dilagare di una visione della vita sempre più cupa e tetra, sempre più marcatamene pessimista. Perciò, o noi troveremo la maniera di invertire la tendenza e di far re-innamorare della vita le nuove generazioni, partendo dai bambini, oppure possiamo preparare il testamento non solamente per noi stessi come individui, ma come esponenti della nostra intera civiltà. Precisiamo che ottimismo, qui, riveste un significato non già di tipo filosofico, o, comunque, intellettualmente elaborato, bensì il significato più generico che si possa immaginare: sta semplicemente per "atteggiamento favorevole alla vita", ossia l’atteggiamento di chi si alza, la mattina, pensando che, sì, vale la pena di mettersi in gioco, iniziando una nova giornata e affrontando anche i suoi eventuali imprevisti e contrattempi; di chi, guardando fuori dalla finestra, quando il mondo incomincia a destarsi, e la luce a diffondersi sulla terra, prova un senso istintivo di benessere, di conforto, e non già un senso di disgusto, di fastidio, d’irritazione o di tristezza.

Osservava a questo proposito lo psicologo francese André Missenard (1901-1989), che aveva particolarmente approfondito tale aspetto della problematica esistenziale (in: A. Missenard, Verso un uomo migliore; titolo originale: Vers un homme meilleur… par la sciernce expérimentale de l’homme, Paris, Librairie Istra, 1970; traduzione dal francese di Cecilia Festa, Roma, Paoline/SAIE, 1973, pp. 154-155):

La vita in comunità non è sopportabile e nemmeno possibile che con un mimo di "amore del prossimo", per parlare come i cristiani, e di senso della responsabilità. Responsabilità tanto più grande quanto più elevata è la funzione nell’organismo. Forse si potrebbe parlare di "grazia di stato" — aspetto della legge della sopravvivenza per necessità dell’adattamento — perché se l’uso non crea l’organismo, come credeva Lamarck, per lo meno lo sviluppa.

La perennità della vita implica l’ottimismo, persino la gioia di vivere, testimonianza psichica del buon funzionamento dell’organismo, dato che tutte le attività vitali sono delle fonti di diletto, anche le più animali. E si capisce come i credenti che "stanno al gioco" accettino con gioia l’esistenza rendendo grazie al creature. Il pessimismo, rifiuto dell’accettazione lieta della vita, è contro natura. In mancanza di una pena morale o affettiva, generalmente temporanea, esso può essere provocato da qualche sofferenza fisica che attesta un cattivo stato dell’organismo e in ragione della dipendenza del psichico dal fisico, il diletto o anche la semplice compiacenza nella sofferenza attesta il disordine organico. Quando questo pessimismo è una disposizione congenita, senza causa apparente, probabilmente ha per origine qualche malformazione nervosa o cerebrale, innata o accidentale, e poiché è contro natura, deve eliminarsi con la selezione. Di fatto, i veri pessimisti — d’altronde meno numerosi di quelli che affettano di esserlo… – sono poco fecondi, dati che non prendono nessun gusto alla vita e non hanno alcuna gioia a trasmetterla. Le popolazioni primitive divenute infelici per un mutamento troppo brutale delle condizioni di vita ancestrali, si sono rapidamente estinte.

La felicità implica l’attività vitale – la "vita traboccante fino all’orlo" — come diceva pateticamente Guyau che la lodava quando essa lo abbandonava nella pienezza dell’età — e vi è più felicità nella ricerca che nel possesso. Prima di tutto perché il desiderio, come il ricordo, abbellisce tutto, e anche perché il possesso lascia un’impressione di vuoto provocato non tanto dall’eventuale disillusione quanto dalla fine dell’azione. "Da lontano è qualcosa e da vicino è niente". Ed è proprio per questo che bisogna che l’oggetto bramato e giudicato accessibile sia tuttavia lontano ed elevato. È così vero che la ragione d’essere della vita é la ricerca, che dei moribondi si aggrappano alla vita quando desiderano fare ancora qualcosa, mentre coloro che hanno rinunziato ad ogni progetto e ad ogni responsabilità, si lasciano morire.

Beninteso, se la vita felice implica l’azione, bisogna tuttavia che essa resti nei limiti normali, perché quando lo sforzo eccessivo genera la sofferenza, la felicità risiede più nel possesso che nella ricerca: ma ogni sforzo doloroso fino a questo punto è contro natura.

E invero, al di là di ogni esagerato psicologismo — Jean-Marie Guyau celebrava la "vita traboccante fino all’orlo" perché essa lo stava abbandonando, ma la stessa cosa accadeva a Leopardi, il quale invece celebrava la morte come la sola cosa buona concessa all’uomo dalla natura matrigna — resta un fatto certo e incontestabile: che la vita chiama la vita, non la morte; e che se la vita invoca o corteggia la morte, ciò significa che qualche fattore anormale è penetrato dentro di essa e ne ha inquinato le sorgenti, deviando la natura dal suo fine naturale, che è quello riproduttivo.

Ora, prendendo come soddisfacente la definizione data da Missenard del pessimismo, cioè il rifiuto dell’accettazione lieta della vita, dobbiamo domandarci per quale ragione esso si presenta sempre più frequentemente ai nostri dì, sia nella vita delle persone comuni, sia nelle teorizzazioni di pesatori, scrittori, artisti; solo così, infatti, potremo pensare a quali vie battere per cercar d’invertire la tendenza e per ristabilire la normale tendenza sociale verso l’ottimismo, senza la quale una società è condannata ad esaurirsi biologicamente. Evidentemente, c’è qualcosa nel nostro sistema di vita, che "produce" sempre più individui scontenti dell’esistenza, non solo della loro esistenza particolare, ma dell’esistenza in generale; di persone le quali ritengono che l’esistenza non sia affatto un bene e che guardano alla vita come a un pesante fardello, che sarebbe meglio deporre alla prima occasione, anzi, che sarebbe stato meglio non caricarsi mai sulle spalle. Infatti, all’origine del crollo demografico della nostra società vi è anche la diffusa convinzione che mettere al mondo dei bambini sia una responsabilità troppo grande, non per i genitori — così, almeno, si sente dire — ma proprio per i bambini stessi: che non è giusto, cioè, scaraventare i nascituri "innocenti" in un luogo così brutto e malefico come il mondo in cui viviamo. L’atto di mettere al mondo una prole, nella nostra società, è divenuto, così, agli occhi di molte persone, un atto d’irresponsabilità e di egoismo, laddove, fino a un paio di generazioni fa, e cioè in una società sana (= naturalmente orientata verso la vita), esso era considerato come l’atto supremo di responsabilità e di amore verso le generazioni future.

Bisognerebbe vedere, innanzitutto, se la motivazione addotta da quelle persone nell’astenersi dalla riproduzione sia realmente sincera, o se non esprima, almeno in parte, un tentativo di mascherare la loro paura di fronte a una responsabilità che sentono come superiore alle loro forze; bisognerebbe cioè vedere se, per quanto esse dicano di essere preoccupate per la sorte futura dei nascituri, la loro vera preoccupazione non riguardi loro stesse e il timore di non essere all’altezza di rivestire il ruolo di genitore, con tutto ciò che questo comporta. Tuttavia, ammettiamo che esse siano perfettamente sincere: resta il fatto che la loro preoccupazione è palesemente sproporzionata, perché il futuro è sempre un interrogativo aperto e vi sono state epoche della storia, anche più drammatiche della presente, nelle quali, nondimeno, le persone non si lasciavano paralizzare dal dubbio di non avere il diritto di mettere al mondo dei figli. Perfino nelle peggiori congiunture e calamità, quali guerre, carestie e catastrofi naturali, i bambini sono sempre venuti al mondo, magari all’ombra delle macerie fumanti. Ciò non dimostra che, in passato, le persone fossero incoscienti e irresponsabili, mentre oggi sono diventate scrupolose e giudiziose; a meno di cadere nella più vieta tautologia autoreferenziale, tipica dei progressisti, secondo i quali solo l’epoca moderna rappresenta una civiltà degna di questo nome, mentre tutte le epoche precedenti apparterrebbero ad un oscuro medioevo, impastato d’ignoranza e superstizione. Al contrario, un giudizio spassionato dovrebbe mostrare quanto sia improbabile che la civiltà moderna, sola fra tutte, abbia compreso quale sia il reale valore della vita, smettendo, appunto, di fare figli, mentre tutte le altre civiltà, da quella dell’antico Egitto fino a quella cristiana medievale, non l’avrebbero saputo giudicare, perpetuando una sorta di paradossale illusione collettiva, ossia trasmettendo ai posteri una cosa indegna di esistere: la vita umana. Se questa interpretazione, che poi è quella specifica della modernità, fosse valida, se ne dovrebbe dedurre che la storia umana altro non è stata che il perpetuarsi di un tragico fraintendimento; e che le generazioni umane, l’una dopo l’altra, si sarebbero passate il testimonio della vita solo perché non erano capaci di guardare in faccia l’arido vero, come diceva Leopardi, né sapevano farsi la domanda del pastore errante dell’Asia, e cioè: se la vita è sventura, perché da noi si dura?

Dicevamo che il futuro è sempre un punto di domanda e che, nondimeno, tutte le generazioni del passato hanno sentito come cosa naturale l’impulso a mettere al mondo una prole, che contiuasse la loro opera sulla terra. Tutte le generazioni hanno sentito il desiderio di prolungarsi nei figli e nei nipoti e hanno detto "sì" alla trasmissione della vita, vita della quale non si sentivano le padrone, ma semplicemente il tramite necessario affinché la catena vitale non s’interrompesse. Vi era, quindi, un atteggiamento non d’irresponsabilità, né, tanto meno, di superbia, ma sostanzialmente di umiltà, nel dire sì alla vita, da parte dei nostri avi; umiltà che, forse, la civiltà moderna ha perduto, insieme alla naturale benevolenza verso i bambini e la vita nascente. Si direbbe che la civiltà moderna, nata da un’affermazione assoluta dell’ego, sia dominata dalla gelosia: la gelosia dei vecchi nei confronti dei giovani, visti, forse, come la prova vivente del fatto che la vecchiaia e la morte continuano a esistere, nonostante tutti i progressi della tecno-scienza, e le inconsce illusioni d’immortalità da essa suscitate. Il giovane, il bambino, ricordano all’adulto e al vecchio che il tempo trascorre inesorabile e che la fine lentamente si avvicina: pensiero intollerabile in una civiltà materialista, che rifiuta la consolazione dell’aldilà e gioca tutte le sue carte in una partita terrena. Ecco, dunque, la probabile origine dell’angoscia che paralizza il naturale istinto riproduttivo degli uomini e delle donne moderni: la totale perdita della speranza in una vita ulteriore, dopo l’abbandono del corpo fisico. Giungiamo pertanto alla verosimile conclusione che la civiltà moderna è la sola che non vede più la vita come un valore auto-evidente, e quindi la riproduzione come un atto naturale e necessario, perché essa è la sola, nell’arco della storia, che ha voltato le spalle alla trascendenza e ha preteso di edificar se stessa nella sola immanenza. Dunque, per tornare ad amare la vita, si deve tornare a Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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