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Nella divina foresta spessa e viva

La divina foresta spessa e viva descritta da Dante negli ultimi canti del Purgatorio (XXVIII, 2), una delle creazioni paesaggistiche più belle, suggestive e commoventi del suo genio, sfondo maestoso e perfetto per la mistica processione ispirata al Libro dell’Apocalisse, è una reminiscenza, o una trasfigurazione, della pineta di Classe, presso Ravenna, che Dante poté ammirare, e nella quale era solito passeggiare meditabondo, durante gli ultimi anni della sua vita, mentre era ospite del signore di quella città, Guido Novello da Polenta. Così dicono tutti; così ci è stato insegnato fin dai banchi di scuola; e così ripetiamo a nostra volta, dando la cosa per scontata e non bisognosa di alcuna ulteriore verifica. Peccato che Dante sia giunto alla corte di Ravenna non prima del 1318, o, nel migliore dei casi, del 1317, dove fu raggiunto dai figli Pietro, Jacopo e Antonia; mentre i canti del Purgatorio circolavano già, almeno parzialmente, fin dal biennio 1315-16 e, in ogni caso, nella seconda cantica non vi è traccia di avvenimento storici posteriori al 1313.  E allora, come la mettiamo? Anche ammettendo che Dante non abbia composto i singoli canti del suo poema in perfetto ordine di successione, e che, in particolare, la composizione del Purgatorio, o di una parte di esso, si sia accavallata con la stesura dell‘Inferno, resta alquanto problematico asserire che le foresta del Paradiso Terrestre, così come egli la descrive nei canti finali della seconda cantica, gli sia stata ispirata dalla pineta di Classe, se, a quell’epoca, egli a Ravenna non si era ancora recato. Certo, è sempre possibile che, in qualche tempo imprecisato del suo ventennale esilio, egli si sia trovato comunque a passare di lì, e che abbia potuto vederla, anche prima di essere accolto alla corte di Guido Novello: esistono ampi spazi bianchi della sua biografia, nei quali c’è posto, teoricamente, per ogni sorta di viaggi e di soggiorni, da quello a Parigi, per frequentare i corsi di teologia della Sorbona, e perfino a Oxford, a quello presso il conte di Gorizia, a Tolmino e a Postumia, o presso il patriarca d’Aquileia, a Udine; per non parlare di Treviso, sotto la signoria di Gherardo III (il buon Gherardo, che poi tanto buono pare che non fosse). Ne abbiamo già trattato in alcuni precedenti lavori (cfr., in particolare, il nostro saggio Dante e la Venezia Giulia,  pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 04/05/2006), per cui non torneremo sopra la questione; ma è certo che, per questa strada, è possibile sostenere tutto e anche il contrario di tutto, perfino che il sommo poeta si sia recato, per mare, fino all’estremo Settentrione, presso il Circolo Polare Artico (cfr. il nostro Dante in Islanda, pubblicato, sempre su Arianna Editrice, il 12/12/2011). 

Sia come sia, al di là delle questioni erudite, parecchi artisti sono rimasti incantati e quasi soggiogati dalla bellezza degli ultimi canti del Purgatorio dantesco, e dal fascino promanante da quella foresta, così diversa, vitale ed esuberante, da quella squallida e mortifera descritta nel canto iniziale dell’Inferno, e ad essa diametralmente opposta quanto ai significati allegorici e morali. Nel campo delle arti figurative, ci piace ricordare, in modo particolare, il pittore Amos Nattini (Genova, 16 marzo 1982-Parma, 3 ottobre 1985), che fu celebre illustratore di tutta la Divina Commedia, ma che nella rappresentazione del Paradiso Terrestre, della mistica processione e della figura di Matelda, presso le rive del fiume Lete, ha toccato, forse, i vertici della sua capacità espressiva; e lo scrittore Angelo Conti. Quest’ultimo è una notevole figura di uomo di cultura e di studioso — non ci piace troppo la parola: intellettuale – oggi un po’ (o forse parecchio) dimenticata, ma che ha contribuito, a suo tempo, a dare lustro alla nostra cultura e prestigio alle patrie lettere, coltivando tenacemente il nostro ricchissimo patrimonio spirituale e ideale, meditandolo e facendo conoscere, e soprattutto amandolo e facendolo amare. Nato a Roma il 21 giugno 1860 e morto a Napoli l’8 luglio 1830, storico, filosofo, critico d’arte, medico mancato precocemente chiamato al sapere umanistico, apprezzato e ammirato da uomini come Gabriele D’Annunzio, Aldo De Carolis e Corrado Ricci, scrisse saggi ed articoli nei quali riversò una vena decadentista ed estetizzante che aveva i suoi modelli ideali nell’opera di John Ruskin, l’autore del famoso Le pietre di Venezia, e Walter Pater, conosciuto a livello europeo per il suo romanzo Mario l’epicureo. Direttore delle Antichità e Belle Arti di Roma, fino al 1925, accettò poi la direzione della Reggia di Capodimonte, trasferendosi a Napoli, ove trascorse gli ultimi cinque anni della sua vita.

Scriveva, dunque, Angelo Conti ne La divina foresta (in: P. Lorenzetti-S. Cammelli, Il Convito. Antologia degli scrittori italiani e stranieri, Firenze, Bulgarini, 1954, pp. 748-750):

A Ravenna Dante è come in Assisi San Francesco, come nelle Puglie Federico II, come ne Foro Giulio Cesare: empie di sé lo spazio, fa sentire la sua presenza in ogni luogo. Quando per un istante il suo pensiero ci abbandona, oscurato da una nube di ricordi più lontani, la nostra sola immaginazione si risveglia, come se dinanzi le si svolgesse un fregio fatto d’oro, di gemme e di sangue. Ma il cuor nostro rimane muto dinanzi alla visione di ciò che fu il regno di Teodorico e degli altri imperatori. Ciò che solamente è storia passa come le acque di un fiume, portando via la parte di noi che non può ritornare; rimane invece in una immensità di cielo quello che resterà per sempre nella poesia, che fiorirà eternamente nella vita. A Ravenna la fiumana degli avvenimenti si perde e s’annulla come in un mare, nel nome e nella persona invisibile di Dante.

Debbo a Corrado Ricci l’aver passato a Ravenna una giornata dantesca indimenticabile…

Il cielo annunziava una deliziosa giornata autunnale, e l’amico volle condurci a visitare la "divina foresta". Per via egli ci disse a memoria il canto di Matelda e non so quanti altri brani del divino poema; e quella musica giovò a rendere in noi più intenso e più distinto il ritmo che doveva aiutarci a comprendere il linguaggio della imminente apparizione naturale…

Quando penetrammo fra i tronchi, dopo aver visitato il vestibolo religioso, ci furono intorno il silenzio e la immobilità. Vivemmo alcuni istanti indicibili d’attesa. Andavamo lungo un canale limpido dalle rive fiorite straordinariamente fra steli e cespugli. A quando a quando giungevano stridi lontani di corvi, ai quali altri corvi più lontani rispondevano. S’udiva anche a intervalli la voce del mare confusa col rombo del vento; ma dove eravamo noi non tremava una foglia. Sentivamo soltanto sul nostro cuore un ritmo ampio, un vasto respiro, una musica infinita, e la nostra piccola vita si perdeva in quell’onda invisibile.

Chi entra con puri occhi nella divina foresta, deve aver prima desiderato d’allontanarsi per un’ora dal vano rumore dell’esistenza, d’essere in una solitudine ove non giungano i pensieri comuni e il tumulto dei ricordi. In questo luogo, accompagnato dal duce divino, all’uomo sembra nascere ad una seconda vita. E quando, così disposto, ode il lieve suono delle acque chiare, il sommesso fruscio delle foglie, il rombo lontano del mare e il canto della selva, allora egli vede Matelda divina apparirgli in quel ritmo, sente in ogni luogo la sua presenza, sa d’essere finalmente giunto dove parla e canta la natura immortale, la Vergine che in Grecia si chiama Minerva, e qui si chiama col nome onde l’ha evocata il poeta nostro.

Era limpido il tramonto, e noi andavamo lungo il canale limpido. I fiori, le foglie, i tronchi, le acque, le nubi avevano un colore d’una intensità e d’una ricchezza incredibile; e tutto ciò che vedevamo sembrava un paradiso offerto all’anima degna di contemplarlo. Poiché ci eravamo inoltrati nel folto dei pini, s’udiva più vicino il grido iterato dei corvi, e più distinto il rombo del mare. Improvvisamente passò a fior d’acqua, volando rapido come uno strale, l’uccello pescatore che ha il corpo verde azzurro cosparso d’oro. Poco dopo, penetrando un raggio di sole occiduo, le sponde fiorite scintillarono e le acque divennero tutte d’oro. Un alberello dalle rosse foglie autunnali, in fondo a un sentiero ci apparve nel sole, simile a un candelabro ardente. Le sue foglie, in quella estrema luce del giorno, splendevano come fiamme, e non avevamo quasi il coraggio di andarlo a guardare da vicino: tanto il colore dava il senso dell’ardore. Io pensavo che fosse imminente l’arrivo della processione mistica rappresentata nel Paradiso terrestre lungo le rive del fiume Lete.

Era infatti giunta per noi una divina ora d’oblio; ogni desiderio spento nel nostro cuore, dileguati i ricordi, dimenticata l’esistenza di città lontane, il tumulto in cui più tardi ci saremmo di nuovo andati a confondere; avevamo soltanto gli occhi avidi di luce e l’animo di silenzio. Tutte le cose più umili che ci stavano intorno avevano luce di bellezza. Improvvisamente il sole scomparve, e nella selva, che si spense come una fiamma, i tronchi presero l’aspetto di vecchie colonne allineate nell’ombra d’un tempio immenso. Al ritorno parlammo di Matelda. Nessuno di noi certamente l’aveva veduta; ma tutti sapevamo in qual modo ella potesse apparire alla nostra immaginazione; e il nostro cuore era pieno ancora del suo canto.

Una bellissima pagina di prosa; senza dubbio: bellissima e carica di suggestioni e di reminiscenze, tale da trasportare idealmente il lettore in un altrove assoluto, slegato da ogni cura materiale e interamente rivolto alla contemplazione dell’eterna bellezza. Ma è anche pagina "dantescamente" ispirata? Angelo Conti sostiene che è impossibile vistare la città di Ravenna, senza sentirvi aleggiare la presenza del divino poeta; e che la conoscenza delle terzine degli ultimi canti del Purgatorio permette di apprezzare meglio la bellezza della pineta di Classe, di "leggere" le forme della natura in maniera più spirituale e, per così dire, religiosa. E ciò a dispetto del fatto che Dante, forse, non visitò e non conobbe quel luogo prima di aver scritto la seconda cantica del suo poema, e che, quindi, è solo per una errata associazione mentale che lo "spirito" del grande fiorentino sembra aleggiarvi perennemente. Sarebbe interessante sapere se Angelo Conti avrebbe riportato la stessa sensazione di una immateriale "presenza" di Dante nella pineta di Classe, anche se avesse visitato quel luogo, poniamo, in pieno inverno, con la neve che ricopre ogni cosa e senza alberi fioriti, né voli di uccelli e neppure stormire di fronde.

La divina foresta spessa e viva cantata da Dante è avvolta in un’aura di dolcezza senza tempo e di primaverile freschezza, ignara di bufere e di tempeste, di cieli nebbiosi o anche solo di piogge e di pozzanghere fangose: ed è così che deve essere, perché essa non è una foresta di questo mondo, ma un simbolo, un’allegoria di quella felice condizione che caratterizzava la natura prima del Peccato originale, e dunque è il tentativo di rappresentare qualcosa che, al presente, non esiste, né potrebbe esistere da nessuna parte, nemmeno nel luogo più remoto e incontaminato. Dante ha voluto mostrare com’era il mondo nell’età dell’innocenza, uscito perfetto dalle mani del Creatore, e non una foresta possibile, nascosta in qualche piega della Terra, lontana dalle umane brame e cupidigie. Non esiste, al presente, un luogo del genere, in questo mondo, perché il Peccato originale ha ferito irreparabilmente la creazione e nulla, neppure il Sacrificio del divino Redentore, ha potuto, o potrebbe, cancellare quel luttuoso evento, come se non fosse mai stato. Questa non è la teologia di Dante, è la teologia cattolica; e, se in essa vi è un elemento di pessimismo antropologico, ciò non dipende da Dante, ma fa parte della visione cattolica del reale. La venuta di Gesù Cristo ha ristabilito, sì, il legame di adozione filiale dell’umanità da parte del Padre celeste, ma non ha cancellato la realtà del Peccato; proprio come il Battesimo fa rinascere gli uomini alla grazia di Dio e annulla gli effetti del Peccato originale, il quale coinvolge inesorabilmente tutti gli uomini, ma non ha il potere di sradicare completamente una certa disposizione al peccato, chiamata concupiscenza, che permane, e che, senza l’aiuto costante della grazia, torna a manifestarsi sotto la forma del peccato attuale. Colui che non crede a questo, ma ritiene che il Battesimo liberi completamente e definitivamente la persona dall’inclinazione al male, non è un cattolico, ma una specie di pelagiano; e il pelagianesimo è una gravissima eresia, appunto perché, negando che gli effetti del Peccato originale si ripercuotano su tutte le creature, sostiene che l’uomo, fondamentalmente buono, è capace di pervenire alla salvezza con le sue sole forze.

Lasciamo, dunque, la foresta di Dante al regno della poesia e della teologia, e non confondiamola con questa o quella foresta terrestre. Nessuno scrittore e nessun pittore moderni potranno mai rappresentare adeguatamente le creazioni di Dante, perché la civiltà moderna ha smarrito, anzi, ha negato, tutti i presupposti, intellettuali e spirituali, sui quali si basa la visione del mondo del sommo poeta. La poesia di Dante è allegorica, perché è didattica e teologica: essa vuole insegnare qualcosa, e questo qualcosa è la teologia morale cattolica. Ciò, dal punto di vista moderno, è un controsenso: per i moderni, la poesia è espressione del sentimento e non ha niente a che fare né con la pedagogia, né, tanto meno, con la teologia, dal momento che la civiltà moderna ha espulso la teologia dalla propria concezione del reale. E ciò per una ragione precisa: perché ha respinto l’idea della ragione illuminata dalla grazia, e ha rivendicato l’esercizio di una ragione che si fa norma a se medesima…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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