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1 Novembre 2017Al principio della Divina Commedia, come tutti sanno, Dante si smarrisce, di notte, in una foresta paurosa; e quando poi, al primo albeggiare, trova la strada per uscirne e inizia la salita di un colle ameno, si vede il passo impedito da tra fiere dall’aspetto terrificante: una lonza (forse una lince, forse una pantera), un leone e una lupa. La tradizione esegetica identifica questi tre animali con i tre vizi capitali dell’umanità: la lonza con la lussuria, il leone con la superbia e la lupa, la più minacciosa di tutte, con l’avarizia, intesa essenzialmente come cupidigia, ossia come smania di accumulare sempre maggiori ricchezze. Dante, con questa allegoria, ha voluto rappresentare la società del suo tempo, sprofondata nel peccato, e mostrare chiaramente quali sono le tendenze peccaminose che distruggono la dimensione morale degli individui e spingono tutto l’insieme della vita sociale verso il precipizio dell’autodistruzione. Per lui, il male che attanaglia l’umanità non è qualcosa di vago, di generico, qualcosa a cui non si sa dare esattamene un nome, un nemico difficile da riconoscere; al contrario, egli dà un nome preciso a ciascun peccato, secondo la teologia morale cattolica, la stessa che dovrebbe fungere da stella polare anche per il credente dei nostro giorni. Si tratta dei sette vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia; fra di essi, che formano l’impalcatura fondamentale dei nove cerchi infernali, Dante individua i primi tre come i maggiori responsabili della profonda decadenza morale degli uomini del suo tempo, e contro di essi vuole mettere in guardia i lettori della Divina Commedia, mostrando le terribili conseguenze di una vita peccaminosa e, al contrario, la perfetta beatitudine riservata alle anime che sanno vivere e morire nella grazia di Dio.
Fin qui, Dante. Ma gli uomini i moderni, sì, pensano di essere migliori dei loro antenati, in tutto, compresa la sfera morale; pensano di aver capito meglio quale sia il senso della vita, di aver compreso più cose, e con maggiore precisione, riguardo al mondo in cui viviamo; e, insomma, di aver molta più voce in capitolo, rispetto a quelli, di qualsiasi cosa si voglia parlare. Non fanno eccezione i cattolici moderni, sia laici, sia consacrati, e tanto meno i teologi moderni, i quali, chissà perché, ritengono di aver meglio penetrato il senso delle Scritture e di aver quindi attinto il "vero" spirito del Vangelo (spirito con la lettera minuscola), grazie alla loro superiore perizia filologica e alla loro capacità di contestualizzare, storicizzare, problematizzare. Qualcuno si è spinto ancora più in là, per esempio quel padre Sosa Abascal, attuale generale dei gesuiti, il quale è arrivato ad affermare, in una intervista rilasciata ad un giornale spagnolo, che non si sa cosa disse realmente Gesù Cristo, perché non c’era alcun registratore che ne registrasse fedelmente le parole: col bel risultato, se esiste una cosa che si chiama logica, che tutto quel che crediamo di sapere su Gesù è puramente ipotetico; che il Vangelo è solo un insieme di congetture, di approssimazioni, e, forse, di falsificazione (ma allora, aveva ragione Dan Brown?); che la Chiesa, per duemila anni, ha spacciato per vero e per certo quel che ha voluto, mentre, in effetti, tutto ciò non era né vero, né certo: non la teologia, non la dottrina, non la morale, e tanto meno quisquilie chiaramente soggette al mutare dei tempi, come la pastorale e la liturgia. È molto consolante sapere, in questi tempi d’incertezza morale di sbandamento spirituale, che un pezzo grosso della Chiesa cattolica ha queste opinioni riguardo al Vangelo; è di vero conforto, per tutti i fedeli, sapere che, per Lui, non sappiamo cosa disse davvero Gesù, e quindi la nostra fede in Lui posa letteralmente sulla sabbia. Dio, che è somma Giustizia, gli renderà merito per aver svolto così degnamente, e con tanta dolcezza e delicatezza, il compito che gli era stato affidato, di custodire il piccolo gregge.
Sia come sia, padre Sosa o no, resta l’interrogativo: il dilemma morale fondamentale in cui versa l’umanità è cambiato, dai tempi di Dante Alighieri, o è sempre lo stesso? La modernità ha prodotto dei mutamenti anche per quel che riguarda la relazione dell’uomo con il peccato? A noi, che non siamo mai stati modernisti, che non abbiamo alcuna simpatia per la modernità e che consideriamo il modernismo teologico, secondo l’insegnamento di san Pio X, una gravissima eresia, anzi, la sintesi di tutte le eresie, la risposta sorge spontanea alle labbra: no, assolutamente no. Semmai, le tendenze peccaminose si sono ulteriormente accentuate, in una misura che lo stesso Dante, che pure era incline al pessimismo, non avrebbe probabilmente immaginato, neppure nelle sue più cupe fantasie. L’umanità, oggi, si è smarrita più che mai nella selva del peccato, in preda a tutti e sette i vizi capitali e specialmente alla lussuria, alla superbia e alla cupidigia. Tuttavia, se dovessimo scegliere delle parole e dei concetti tipicamente moderni, per indicare le tre fiere che minacciano di divorare l’anima dell’uomo moderno, diremmo — senza con ciò pretendere di modificare il quadro delineato dalla teologia morale cattolica di sempre, perché la modernità è una malattia nuova, ma insieme antica, in quanto attinge alle tendenze peccaminose ancestrali, che sono sempre le stesse e non mutano nel corso del tempo, anche se possono mutare le loro forme esteriori — che sono l’edonismo, il materialismo e il libertinismo.
L’edonismo: ovvero l’assolutizzazione del principio del piacere (dal greco edoné), visto come lo scopo ultimo della vita umana: una concezione assolutamente non cristiana, anzi del tutto incompatibile con il cristianesimo, dato che, per quest’ultimo, il fine della vita umana è ben altro: è il conseguimento del Bene, cioè della conoscenza, dell’adorazione e del servizio nei confronti di Dio, e, di conseguenza, dell’amor e verso il prossimo. Finché l’edonismo era insegnato, per così dire, da piccole scuole filosofiche, e predicato da qualche scrittore e pensatore isolato, non è mai riuscito a far breccia nella coscienza della società; è stato appannaggio, casomai, di piccoli gruppi di persone benestanti, le quali, disponendo di tempo e denaro in abbondanza, hanno coltivato i loro vizi privati, senza alcuna pretesa di farne la nuova religione dell’umanità. Le cose son radicalmente cambiato quando, con la tarda modernità, è arrivato anche un diffuso "benessere", o, quanto meno, qualche cosa che veniva spacciato, con successo, per tale: abbagliata dall’improvvisa disponibilità di beni, dal fatto di vedere a portata di mano cose che, prima, la maggior parte delle persone poteva soltanto sognare, la società si è rapidamente convertita al nuovo credo, introiettandolo così a fondo, da farne una parte essenziale della propria struttura psicologica e morale. L’uomo moderno è, in quanto tale, edonista per definizione: non c’è bisogno di fare alcun ragionamento per essere edonisti, dal momento che i bambini, ormai, succhiano lo stile di vita edonista insieme al latte materno, e crescono con la ferma convinzione – appresa non dai libri, ma dall’esempio degli adulti e dall’azione concentrica dei mass media — che il piacere è il solo, vero fine dell’esistenza umana. Un ragazzo, oggi, si meraviglia alquanto se si tenta di spiegargli che, forse, le cose non stanno proprio così: per lui, l’edonismo non è una opinione, una possibilità, una via fra le possibili vie; è, puramente e semplicemente, la realtà dei fatti, la natura stessa delle cose. La vita è fatta per il piacere e il piacere è lo scopo della vita. Per moltissime persone, questa è una realtà tanto evidente, quanto lo è il fatto che si respira per vivere, o che si mangia per sostenere le funzioni vitali dell’organismo. E proprio perché la maggioranza delle persone non sono giunte all’edonismo attraverso un percorso teorico, ma ci sono nate in mezzo e lo considerano come il naturale modo di vivere, è adesso tanto più arduo, tanto più difficile tentare di sradicarlo dalle coscienze, e ricondurre gli uomini a un diverso atteggiamento nei confronti dello scopo della vita umana. Una filosofia si può sempre confutare, ma uno stile di vita non può essere confutato: può solo essere smentito dai fatti; ma ce ne vuole, prima che ciò accada. In pratica, le promesse del consumismo si sono già mostrate fallaci, e il miraggio del benessere è sfumato nello spazio di un mattino — molto meno di una generazione, nel caso del nostro Paese – eppure l’edonismo conserva la sua presa sugli animi: tale è la sua forza d’inerzia, e tale il suo potere d’attrazione, perfino dopo la sua piena e radicale smentita da parte della storia.
Ciò che conferisce tanta forza, diciamo così, passiva, all’ideale di vita edonistico, è il suo intrecciarsi con la visione materialistica del reale. Se tutto è materia e solamente materia, se non ci sono né Dio, né l’anima, né una vita dopo la morte; se non esistono premi e castighi ultraterreni, ma abbiamo da giocarci quest’unica partita, che si gioca fra la nascita e la morte fisica: ebbene, allora non ha senso perder tempo dietro alle chimere del dovere, del sacrificio, del rispetto di sé e degli altri, tanto meno della ricerca della Verità: non c’è alcuna Verità con la lettera maiuscola; ci sono delle occasioni favorevoli, che devono essere colte ogni volta che siano alla nostra portata, mentre, nello stesso tempo, dobbiamo stare attenti a scansare tutte le occasioni di sofferenza, d’insuccesso, di fallimento, perché esse rappresentano il male per antonomasia. La sofferenza e la sconfitta sono sempre il male, il piacere e la vittoria sono sempre il bene: questo dicono, concordemente, l’edonismo e il materialismo. Di suo, il materialismo ci mette una ulteriore sottolineatura in senso crudamente immanentistico: non esiste un bene che non sia anche piacere, e non esiste piacere che non sia piacere dei sensi. Il cosiddetto piacere spirituale, se pure esiste (cosa di cui il materialista dubita, o che nega senz’altro), è pur sempre una conseguenza del piacere sensibile, e si accompagna ad esso: ma, di per sé, non esiste, non vive di vita propria. Siamo tutti corpi, siamo soltanto animali: l’anima non esiste, esiste solo la mente, e la mente è un prodotto del sistema nervoso, cioè del corpo. Quando la macchina del corpo si ferma, si ferma anche la mente, e la vita umana non ha più alcun valore. Ecco perché il materialista è un fervente sostenitore dell’aborto, nel caso che il feto presenti delle malformazioni, e un ardente paladino dell’eutanasia, nel caso che il corpo sia aggredito da malattie inguaribili o da menomazioni gravi, che impediscono il buon funzionamento della consapevolezza. A che serve la vita in simili condizioni?, essi domandano, con aria di sfida. Se lo scopo della vita è il piacere e se non esiste altro piacere che quello fisico è chiaro che un bambino affetto da qualche seria patologia, o un anziano non più cosciente di sé, non hanno alcuna ragione per continuare a vivere: ed eco che i loro genitori e i loro parenti, "pietosamente", com’essi dicono, si arrogano il diritto di far spegnere le macchine, di far cessare il lavoro dei medici — o, come nel caso di Eluana Englaro, semplicemente quello di staccare i tubi dell’alimentazione, e lasciar morire il paziente di fame e di sete. Ma tanto, essi dicono, il paziente non è più cosciente! Non è evidente, dal momento che noi siamo soltanto corpi? È inutile discutere con costoro: hanno già la verità in tasca, sanno tutto, conoscono tutto: sanno anche quel che avviene nel mistero dell’anima di una persona che si trova in coma. Sanno che non ha più alcun senso farla restare in vita. Lasciarla morire, per essi, è un segno di rispetto della sua "dignità". Perché la dignità della vita, per loro, si riduce al fatto di avere un corpo sano, una mente lucida e, quindi, la possibilità di godere ancora dei piaceri dell’esistenza; senza di che, non vale la pena di continuare a esistere. Strano: di solito, i sostenitori della visione materialista sono anche dei progressisti a tutto campo, gente che si straccia le vesti quando si parla dei progetti eugenetici nazisti: e non si accorgono che, pur non essendo nazisti, la loro idea della vita somiglia terribilmente a quella di Hitler. Ma per carità, non provate a spiegarlo a uno di codesti progressisti: si arrabbierebbe moltissimo e probabilmente sporgerebbe querela contro di voi. Perché, se siete stati così impudenti da sbattergli in faccia la verità, il minimo che meritate è di venire ridotti al silenzio a colpi di codice penale. Con il che si vede di che stoffa è fatto il loro sbandierato democraticismo.
Il libertinismo, infine, è, probabilmente, il tratto più caratteristico della deriva morale dell’umanità moderna. Non si tratta, specificamente, né del libertinismo spirituale, teorizzato da certi cristiani, fra i quali Lutero (pecca fortiter, sed crede fortius), né di quello filosofico, ispirato allo scetticismo e all’epicureismo, e neppure di quello sessuale, ma di una sintesi di tutti e tre, che possiamo sintetizzare in questa formula: l’uso sbagliato, perché soggettivo, arbitrario e unilaterale, della libertà umana, senza timor di Dio e, anzi, contro Dio, nella convinzione che solo spezzando le "catene" del soprannaturale l’uomo può trovare ciò a cui egli profondamente aspira, cioè il piacere: e qui il libertinismo si ricollega, e si fonde e si sostiene a vicenda, con l’edonismo e con il materialismo. Di fatto, essi formano una triade inscindibile: l’edonista è anche un materialista, e il materialista è necessariamente un libertino, nel senso che non riconosce altra forma di libertà se non quella che lui stesso, individualmente e soggettivamente, realizza, spezzando ogni legame con la morale tradizionale e con la religione dei padri, proteso all’affermazione esclusiva di se stesso. È quasi inutile sottolineare che questa triade conduce direttamente alla morte dell’anima, nella maniera più rapida e inesorabile: è evidente infatti che se non si ammette altro principio esistenziale al di sopra del piacere, se non si ammette l’esistenza di nient’altro che la pura materia, e se non si accetta alcun limite alla libertà soggettiva, tutto quel che rimane è una vita breve, casuale, che viene letteralmente dal nulla, cioè da un aggregato accidentale d’atomi, e scompare nel nulla della morte…
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