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30 Ottobre 2017Kierkegaard: una mente veramente superiore. Non si finisce, leggendolo e rileggendolo, di ammirare la sua intelligenza poderosa, la sua vastità di orizzonti, la sua audacia speculativa. E mentre lui consumava la vita nella provinciale cittaduzza, lassù, poco conosciuto e poco apprezzato perfino nella sua Danimarca, anzi, addirittura osteggiato e dileggiato sui giornali satirici, dato in pasto all’opinione pubblica come un originale, presuntuoso e un po’ svitato, a Berlino, capitale filosofica dell’Europa, il ciarlatano Hegel teneva le sue affollatissime e applauditissime lezioni, discutibile maestro di una intera generazione, e spargeva dappertutto i semi pestilenziali del suo delirio idealista, i cui pessimi frutti — in Feuerbach e poi in Marx, per esempio — non avrebbero tardato a oscurare il già tetro cielo della civiltà moderna, affrettando la sua discesa nel vortice dell’auto-dissoluzione.
Uno dei punti più interessanti della sua lucida analisi della crisi dell’uomo moderno è trattato in Aut-Aut e riguarda la perdita del senso del tragico e, per contro, l’irruzione della disperazione nella vita delle singole persone. Il tragico antico consisteva nel senso del destino e della sofferenza, mentre l’essenza vera della tragedia moderna risiede in un intimo contrasto fra determinazione e libertà: determinazione dell’essere nostro relativo, libertà, quale rassegnazione al proprio stato (Andrea Mario Moschetti, L’unità come categoria; vol. II, Situazione e storia, Milano, Marzorati Editore, p. 79). Ed ecco il passaggio-chiave del ragionamento di Kierkegaard sull’evoluzione dal tragico antico al tragico moderno (da: S. Kierkegaard, Aut-Aut, in Samlede Vaerker, I, Copenaghen 1920, parte I, 3; traduzione di Cornelio Fabro, nella sua Antologia kierkegaardiana, Torino, Società Editrice Internazionale, 1952, pp. 5-6, ristampato con il titolo: Il problema della fede, Brescia, La Scuola, 1978):
Oggi […] si considera l’individuo responsabile senz’altro della sua vita. Allora se l’individuo si perde, non si è più nella sfera del tragico ma del male. Bisognerebbe credere che la generazione, alla quale anch’io ho l’onore di appartenere, sia un’accolta di dei. E tuttavia le cose non stanno così; quella pienezza di forze, quel coraggio che vuol essere l’artefice della propria felicità, è un’illusione, e mentre il nostro tempo perde il tragico, guadagna la disperazione. […]
Per ortogonale che possa essere ciascun individuo, egli è comunque figlio di Dio del tempo, del suo popolo, della sua famiglia, dei suoi amici: è qui solamente ch’egli ha la sua verità e se in tutta questa relatività egli vuol essere l’assoluto, diventa ridicolo. […] L’individuo svincolato dal seno materno del suo tempo, e ciò non senza difficoltà, vuol esser assoluto in questa immensa relatività. Se invece abbandona questa pretesa e si rassegna ad essere relativo, ecco che "eo ipso" egli possiede il tragico; anche se fosse l’individuo più felice, io direi ch’egli è felice quando ha in sé il tragico. Il tragico ha n sé una mitezza infinita.
L’uomo moderno è caratterizzato da una falsa idea che ha elaborato di sé stesso: quello di una completezza, di una coesione, di una stabilità, di una assolutezza, ch’egli è ben lungi dal possedere o dall’aver mai posseduto; meno che meno nel contesto della civiltà moderna, che nasce, appunto, da una rivolta deliberata contro la Tradizione. Ora, l’uomo moderno che si gonfia d’orgoglio, che s’inebria della sua intelligenza e della sua scienza, che va in delirio davanti alle meraviglie del progresso, è quello stesso che vorrebbe farsi il dio di se medesimo e che, in tal modo, si spoglia, ma solo illusoriamente, della propria finitezza, della propria limitatezza, della propria relatività; che si scorda, per così dire, d’essere sempre in situazione, ossia determinato, in maggiore o minor misura, da tutta una serie di circostanze, oltre che dalla propria condizione fondamentale di creatura, vale a dire di ente di secondo grado, che deve il proprio esistere ad altro da sé: a Dio.
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