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La santa ira del rettore politically correct

Se i fatti, come sembra, corrispondono alla denuncia presentata dagli studenti, si tratta di un ATTEGGIAMENTO ASSOLUTAMENTE IMPROPRIO E CENSURABILE. L’università è uno spazio di convivenza pacifica e rispettosa di opinioni, culture e fedi religiose. L’università non è luogo di gesti divisivi, né, tanto meno, di imposizione e se ciò è avvenuto nel nostro ateneo non può essere accettato dal rettore, che rappresenta l’ateneo stesso nella sua interezza e nella pluralità delle sue espressioni, che ne costituiscono la ricchezza e la istintività. Valori assolutamente da conservare, difendere, rafforzare ed è a nome dell’intero ateneo che CHIEDO SCUSA a tutti coloro che sono stati feriti nella sensibilità e nella fiducia vero l’università.

Questa nota, dalla quale trasudano allarme, preoccupazione, sacra indignazione e vibrante senso civico offeso, è stata emessa dal rettore dell’Università di Macerata e noi la riprendiamo da Il Resto del Carlino, che l’ha riportata il 16 ottobre 2017, in riferimento a un episodio che sarebbe accaduto il giorno 13. Non sappiamo se le parti evidenziate graficamente siano del giornale o del rettore; del rettore, sicuramente, oltre al tono drammatico e scandalizzato, sono le ripetizioni (l’avverbio "assolutamente" ripetuto due volte in quattro righe), le invenzioni lessicali (la "distintività" è un neologismo a dir poco bislacco), le forzature di senso ("la denuncia presentata dagli studenti" è la denuncia presentata da alcuni studenti e non certo da tutti), il vittimismo ("la ferita" inferta senz’altro alla sensibilità e non, si badi, a coloro i quali si sono "sentiti" feriti), il metodo "giudiziario" quanto meno opinabile, vista la pretesa di rappresentare una istanza moralmente superiore e oggettiva ("se i fatti, come sembra, corrispondono ecc".: da che mondo è mondo, nei sistemi di diritto, per accertare i fatti, si comincia col chiederne conto all’accusato e non ascoltando solo la voce dell’accusatore) e la debolezza del ragionamento stesso ("se i fatti… si tratta di un atteggiamento": dunque, "i fatti" diventano "un atteggiamento", il che non è precisamente la stessa cosa).

Ad ogni modo, all’ignaro cittadino, o allo studente della sventurata università, cui capiti fra le mani questa nota, la pressione arteriosa sale immediatamente di almeno quindici punti e si affaccia la domanda, inquietante, sconvolgente: ma che cosa mai sarà accaduto, in quell’ateneo? Che cosa avrà turbato a tal punto il suo ordinato funzionamento, avrà messo in pericolo la pacifica convivenza, avrà ferito la sensibilità, tanto da esigere le pronte e sentite scuse del suo massimo responsabile? Il riferimento alla pacifica convivenza farebbe pensare a un attacco di estremisti religiosi o di fanatici di chissà quale ideologia: vuoi vedere che anche nella tranquilla, provinciale Macerata è arrivato il vento sanguinoso della Jihad? Mio Dio, che anche nella sonnacchiosa provincia marchigiana sia accaduto qualche drammatico fatto sul tipo di quelli di Barcellona, Berlino, Nizza? No, grazie al cielo pare di no. Ma che cosa, allora? Ah, ecco: forse degli skinhead hanno insozzato i muri con scritte antisemite, oppure hanno insultato uno studente africano, o magari hanno sottoposto ad atti di bullismo un portatore di handicap? No, neppure: niente di tutto ciò. Ma cosa è successo, allora, che ha tanto indignato il buon rettore — per la cronaca, si chiama Francesco Adornato –, facendolo schizzare sulla sua sedia e strappandogli un comunicato così sofferto, così struggente, nel quale egli si mostra così investito del proprio ruolo di difensore del pluralismo culturale, della pacifica convivenza, del rispetto dovuto ad ogni opinione? Beh, ecco: pare si tratti di questo: il 13 ottobre, alle 17,30, cioè nello stesso giorno e nella stessa ora in cui milioni di cattolici facevano la stessa cosa, in Polonia, in Europa e in tutto il mondo, la professoressa di Glottologia, Clara Ferranti, pare proprio che… esitiamo a dirlo… pare proprio che abbia, alzandosi in piedi e chiedendo ai suoi studenti, per rispetto, di alzarsi anche loro… pare proprio che abbia… insomma, che abbia sottratto circa venti secondi della sua lezione, pagata dall’erario statale, per… recitare un’Ave Maria.

Ecco: l’abbiamo detto; ci siamo tolti questo enorme macigno dallo stomaco. La professoressa Clara Ferranti, nel centenario delle apparizioni di Fatima, ha recitato un’Ave Maria. Pare abbia anche invitato a recitarla con lei quanti desideravano farlo, senza imporlo a tutti i presenti. Questi sono i fatti atroci, censurabili, assolutamente inappropriati, sconvolgenti, lesivi della pacifica convivenza, addebitati alla professoressa: senza, peraltro, che il rettore l’abbia chiamata per farsi dare la sua versione dell’accaduto, ma solo sulla base di un’accusa pervenutagli da qualche studente. Questo è lo sfregio inferto alla laica, moderna e civile università maceratese; questa l’invasione di uno spazio consacrato al rispetto delle opinioni diverse; questo il terribile gesto "divisivo" (un neologismo tipicamente catto-progressista, che porta l’imprimatur di papa Francesco, da quattro chilometri di distanza); questo l’affronto ai valori cui si ispira l’ateneo in questione, e che il rettore ritiene di dover tutelare, scagliandosi contro la professoressa, senza neanche degnarsi di chiamarla nel suo ufficio per farsi raccontare da lei come sono andate le cose. Se lo abbia fatto, poi, in un secondo momento, questo non lo sappiamo; ma ci risulta, da quanto dice la stampa, che non lo abbia fatto prima di emettere il comunicato in questione.

Nel quale domanda scusa. A chi domanda scusa? A tutti quelli che sono stati feriti nella loro sensibilità e nella loro fiducia verso l’università. Fiducia che, evidentemente, a suo parare, è stata incrinata dal gesto irresponsabile. E quanti sono, quanti sarebbero, i soggetti che sono stati feriti nella loro sensibilità e nella loro fiducia? Non è dato saperlo. Potrebbe essere stato anche uno solo, per quel che si sa: il solito laicista arrabbiato o, magari, il solito islamista intollerante, al quale non va giù il dato di fatto che l’Italia, per adesso, è un Paese di cultura e tradizione cattolica, dove milioni di persone, diciamo pure la maggioranza relativa, piaccia o non piaccia, sono di fede cattolica. Certo, fra meno di due generazioni le cose cambieranno, perché, con l’attuale tasso di migrazione/invasione/sostituzione di popolazione, e con quello d’incremento demografico dei migranti/invasori/sostituenti la nostra popolazione, l’Italia sarà diventata un Paese a maggioranza islamica. Con gran soddisfazione di Boldrini, Cirinnà, Kyenge, Gentiloni, Mattarella, Renzi, e, soprattutto, Bergoglio, che sarà il più felice di tutti. Almeno, stando a quanto si sbraccia e si scalmana per favorire in ogni modo questa migrazione/invasione/sostituzione di popolazione, e quanto sta mobilitando tutte le risorse della Chiesa, col quotidiano L’Avvenire in testa, per favorire l’approvazione, in Parlamento, della legge sullo ius soli (anche se nessun cattolico un buona fede e di media intelligenza ha capito cosa c’entri lo ius soli con L’Avvenire, con la Chiesa cattolica e con la religione cristiana; ma forse Bergoglio, insieme al direttore del quotidiano, Marco Tarquinio, lo sa perfettamente, beato lui).

Ecco, dunque, l’orribile, censurabile, nefanda iniziativa della professoressa cattolica: avere recitato l’Ave Maria in aula. Terribile, intollerabile. Qualsiasi altra cosa poteva esser digerita, ma questa no. In una scuola superiore di San Donà di Piavea, e ne abbiamo parlato a suo tempo, un professore transessuale, un bel giorno, si è presentato in classe con la minigonna, le calze a rete e i tacchi a spillo, e non solo non è successo niente, ma il buon preside in questione si è affrettato a far sapere alla stampa, con un comunicato — ah, questi comunicati, che goduria: sono meglio delle grida di manzoniana memoria, per quanti li scrivono! — che l’iniziativa del professore (o della professoressa? chi lo sa, fate voi, come vi piace) era del tutto in linea con la politica inclusiva dell’istituto (di nuovo questo neologismo tipicamente bergogliano, e molto, molto politicamente corretto). Nelle chiese di Venezia, invece, e anche di questo abbiamo dato conto, il passatempo preferito di certi migranti/invasori/sostituenti della nostra popolazione, è quello di entrare nel luogo sacro e di sputare sul Crocifisso, oppure di spezzarlo, così, tanto per far sapere come la pensano, qual è la loro idea del pluralismo e del rispetto tra fedi diverse, e che tipo di aria tirerà, quando avranno la maggioranza). E basta andare a spasso per le strade di una qualsiasi città italiana, in un qualunque momento, per vedere quanto sia rispettato il divieto d’indossare pubblicamente il burqa, divieto che nasce da ragioni di sicurezza, in quanto tale indumento nasconde completamente l’identità di una persona, e non da ragioni di tipo religioso, come lo è, in Francia, il divieto del velo a scuola, o il divieto del burkini in spiaggia).

Ma l’università italiana, quella è un’altra cosa. Qualunque professore può dire praticamente qualsiasi cosa, purché resti nel solco del politicamente corretto; può insultare la religione cattolica, può ferire i sentimenti dei suoi studenti, può far propaganda per l’ideologia immigrazionista, o per quella gender, o per quella massonico-radicale, comunque declinata: ma non può, non deve arrogarsi il diritto di recitare una preghiera. Eh, quello no, mille volte no; può anche bestemmiare, probabilmente: ma pregare, no, assolutamente no. Figuriamoci, pregare una preghiera cattolica; figuriamoci pregare un’Ave Maria; figuriamoci un’Ave Maria, nel centenario delle apparizioni di Fatima. E che! Siamo forse ripiombati nell’oscuro Medioevo? Che cos’è questo rigurgito reazionario e sanfedista; come osano rialzare la testa, costoro, i credenti, i cattolici, smentiti dalla storia e della scienza, e ridotti al silenzio dalla nuda realtà dei fatti, dal progresso tecnologico, dalle acquisizioni dello studio comparato delle religioni, dalla sociologia, dall’antropologia, dalla psicologia, dalla psichiatria, dalla psicanalisi? E come osano tornare a biascicar preghiere in un luogo pubblico, in quel luogo pubblico? Inaudito; intollerabile. Nel tempio del sapere laico, della cultura laica, dello Stato laico, recitare una preghiera alla Madre di Gesù Cristo! Davvero, sembra tutto un brutto sogno; sembra di vivere un incubo.

E bene ha fatto, perdio — pardon, volevamo dire: per tutti i diavoli! — il valoroso rettore Adornato, a insorgere, a indignarsi, a battere i pugni sul tavolo, cioè, sulla cattedra; a chiedere scusa, a stracciarsi le vesti, come Caifa nel Sinedrio (pardon, volevamo dire: come Galilei col suo Eppur si muove!, davanti ai bruti ignoranti della santa Inquisizione). Bravo, magnifico rettore: meno male che ci sono ancora uomini di polso, uomini fieri, pronti a combattere per difendere il principio della laicità, della civile convivenza, del pluralismo, del rispetto reciproco fra gli uomini, contro l’orribile minaccia dell’… Ave Maria. Eh, sì: non sono i terroristi islamici che fanno paura; non sono gli assassini i quali, urlando Allah Akhbar, si fanno saltare in aria, ammazzando nel mucchio, donne e bambini compresi: no: sono le professoresse retrograde e superstiziose, che biascicano l’Ave Maria. Che brutta preghiera, l’Ave Maria: sa così di… vecchio, di muffito… sa proprio di… di cattolico, ecco. L’abbiamo detta, la parolaccia. Non avremmo voluto; avremmo preferito evitarlo: ci è stata proprio strappata fuori di bocca. Ebbene, sì: questi cattolici, che gente pericolosa. Se ne vanno in giro a recitar preghiere, a recitare Ave Maria, figuriamoci; e non si rendono conto di quale terribile insulto ciò rappresenti per il mondo di pace e di razionalità che stiamo costruendo, malgrado loro; quale pietra d’inciampo, quale spaventoso regresso, rispetto all’instaurazione dei diritti universali dell’uomo e del cittadino; rispetto alla marcia del Progresso, che è, per definizione, un marciare in avanti e non indietro, verso le magnifiche sorti e progressive.

Senza contare la loro inaudita, imperdonabile faccia tosta: dicono di pregare per la pace, loro! Proprio loro, i credenti di una religione che è intessuta di guerre e di violenze, la quale, nella storia, non ha portato altro che divisioni, odio e intolleranza, e che ha frenato e ritardato la nascita e lo sviluppo del libero pensiero, per secoli e secoli. E adesso dicono di voler pregare per la pace! Ma non lo sanno, non l’ha detto loro proprio nessuno, che a custodire la pace ci pensiamo noi? Che la pace è un’acquisizione della cultura laica, e che, col cristianesimo, con la Croce, con Gesù Cristo, non ha niente a che fare? Non lo sanno che la pace è una faticosa conquista dell’Occidente moderno, dell’Occidente laico, dopo che esso ha spezzato le catene della religione, dopo che si è emancipato da frati, monache, Rosari e Madonne? E ora ci vengono a recitar l’Ave Maria nel bel mezzo di un’aula universitaria? Ma questo non è solamente uno scandalo: è un provocazione, una provocazione intollerabile! Speriamo che a quella professoressa non la facciano passare liscia: l’ha fatta veramente troppo grossa, ed è giusto che paghi. Ringrazi Dio — cioè, pardon, ringrazi la nostra umanità — che non esistono più i metodi della loro Inquisizione, perché la sua iniziativa meriterebbe una punizione veramente esemplare, di quelle che si ricordano per un bel pezzo. Che la smettano con simili provocazioni; che vadano a recitar preghiere in sacrestia, e lascino a noi progressisti la responsabilità della pace. La pace, siamo noi a custodirla, con l’aiuto dei valorosi rettori, solleciti del bene della pacifica convivenza negli atenei nostrani. Dentro di essi, i nostri ragazzi sono al sicuro. Forse non saranno del tutto al riparo dagli spacciatori di droga, o dai molestatori sessuali, e nemmeno dai terroristi islamici. Però saranno ben protetti contro i malvagi recitatori di Ave Maria

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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