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6 Ottobre 2017La crisi che sta vivendo la nostra civiltà è, in primo luogo, una crisi etica: vale a dire una estrema difficoltà nel riconoscere il bene e nel metterlo in pratica, distinguendolo nettamente dal male. È anche l’effetto di una crisi intellettuale: una crisi che si manifesta nel dilagante relativismo, che è, a sua volta, una delle maniere con le quali la società contemporanea, essenzialmente edonista e individualista, si adopera per rimuovere dal proprio cammino tutto ciò che può significare rinuncia o sacrificio, specie se di lungo periodo e specie se finalizzato al vantaggio futuro della famiglia, del gruppo, della comunità, della società o dell’umanità tutta, e non all’interesse immediato del singolo. In questo senso, se vogliamo sperare di oltrepassare la crisi attuale, dobbiamo attrezzarci sia sul piano intellettuale che su quello morale. Sul piano intellettuale, per ripristinare l’idea del bene come valore assoluto ed evidente, sottraendolo alla palude del relativismo, che stempera i valori e tende ad appiattirli, o a minimizzarli, o a neutralizzarli, appunto rendendoli relativi e, se possibile, soggettivi. Sul piano etico, ripristinando il concetto della obbligatorietà dell’azione buona e della illiceità dell’azione malvagia: altrimenti non usciremo mai dal paradiso delle chiacchiere e non daremo alcun contributo valido e sostanziale alla ricostruzione di un autentico tessuto morale nella nostra società, partendo, naturalmente, dalla società fondamentale e primaria, che è la famiglia. La famiglia naturale, ben s’intende, ossia la famiglia formata da un uomo e una donna, aperti alla procreazione; e non certo la sedicente famiglia formata da due uomini, o da due donne, magari con bambini in varia maniera procurati, compresa la pratica obbrobriosa del cosiddetto utero in affitto. Pertanto, le questioni che vogliamo mettere a fuoco sono due: primo, che cos’è il bene; secondo, come lo si può attuare.
Che cos’è il bene? Precisiamo subito: non il bene relativo, ma il bene vero, cioè il bene assoluto. Qualcuno potrebbe rispondere che codesto bene, con la B maiuscola, è Dio, e che solo Dio è capace di esso; e il discorso sarebbe chiuso. A noi uomini non resterebbe altro da fare che accontentarci d’individuare, di volta in volta, quelle forme di bene relativo, contingente, imperfetto, che meglio si adattano alla nostra situazione, che meglio rispondono ai nostri bisogni. Nella perigliosa e, sovente, confusa navigatio della nostra vita terrena, dovremmo quindi considerarci soddisfatti se almeno fossimo capaci di vedere quel che, nella situazione data, in presenza di questi e questi altri bisogni o necessità, nostri ed altrui, e di queste e queste altre difficoltà, delle quali tener conto, si adatta di più o di meno al caso nostro. Un po’ poco, ma bisogna imparare a far di necessità virtù, e accontentarsi del possibile, in mancanza del meglio. Ecco: questo è già un modo di veder le cose in senso relativista; perché il relativismo, prima ancora di essere una posizione filosofica, è uno stato d’animo, un sentimento. Il relativista parte già rassegnato: non c’è nulla di certo, nulla di assoluto, ma solo cose relative; le conclusioni cui giunge per via di ragionamento, sono già inscritte nella sua prospettiva iniziale. In fondo, egli trova ciò che aveva deciso di trovare; e arriva là dove aveva già deciso di giungere. Il problema è proprio questo: che il relativista non arriva da nessuna parte: gira in tondo e ritorna sempre al punto di partenza; non trova nulla, nemmeno un centimetro quadrato sul quale posare il piede con fiducia: con quel minimo di fiducia e di certezza, senza il quale non vale neanche la pena di costruire, non diciamo una casa, ma una baracca sgangherata, e, del resto, a ben guardare, forse non vale neanche la pena di vivere. Gli animali, infatti, riescono ad accettare un’esistenza nella quale niente è sicuro, tutto è costantemente precario e minacciato; ma gli esseri umani, no. Se davvero arrivano alla convinzione che nulla di certo esiste e che di nessun verità ci si può fidare, essi perdono la voglia di vivere. Dopo di che, è perfettamente inutile martellarli e ricattarli in continuazione sul piano psicologico, per costringerli a compiere delle azioni etiche; è inutile che certe pubblicità televisive ci vengano scagliate addosso, nelle ore dei pasti, colpendoci allo stomaco, per commuoverci con delle frasi come: Sono un papà, e vi chiedo di ascoltarmi per aiutare tutte quelle famiglie che… dando un contributo per la ricerca sulla malattia X o sulla malattia Y. È inutile, perché non si arriverà mai a nulla, se non, appunto, per via di estorsione morale. In una società relativista, le persone perdono l’amore per la propria stessa vita; figuriamoci se resta loro il desiderio di farsi carico dei problemi altrui.
E allora, partiamo da una recisa affermazione: il bene esiste; il bene è riconoscibile; il bene è attuabile. Che esista il bene, il bene in quanto tale, non si può dubitare, nemmeno sul piano logico: noi tutti ne abbiamo la nozione istintiva, sappiamo che c’è, sappiamo anche cos’è; e sappiamo che, se la società esiste, se non è ancora implosa, ciò avviene perché la grande maggioranza delle persone lo sanno, lo conoscono e cercano di praticarlo. Ma il bene è Dio, abbiamo detto; ogni altro bene è un bene umano, e perciò approssimativo. Vero. Ma Dio, noi possiamo conoscerlo, almeno quel tanto che basta per capire qual è la differenza fra il bene e il male. Abbiamo la via filosofica e abbiamo la Rivelazione; l’una è propedeutica all’altra: entrambe portano a Dio. A Dio si arriva sia con la ragione, sia con la fede; ma è con la fede che s’incomincia a conoscerlo. Tuttavia, anche la via razionale è sufficiente per capire che Dio è amore, e quindi è il Bene. Ne deriva che ogni altro bene è tale, se si conforma all’amore di Dio e alla giustizia di Dio; non lo è, se non vi si conforma, o se vi si oppone. Le vie razionali per arrivare a Dio sono, in definitiva, le cinque prove classiche di san Tommaso d’Aquino; la via della fede è quella del Vangelo. Non c’è contraddizione, ma consequenzialità fra l’una e l’altra. A un certo punto, però, è necessario un "salto": questo sì. A un certo punto, anche il filosofo più razionalista deve deporre gli strumenti della sola ragione e affidarsi a qualcosa di diverso, qualcosa che non è da meno, ma da più della ragione: qualcosa che bisogna esperire, per comprenderla. La fede, infatti, non è un’esperienza oggettiva, riproducibile in laboratorio: è un’esperienza reale, concreta, ma unica e personale; nessuno può fare esperienza della fede attraverso l’esperienza di un altro; ciascuno deve rivolgersi a Dio e cercare in Lui le risposte alle sue domande. E allora si accorgerà che le risposte ci sono e che non sono contrarie alla ragione; sono, semplicemente, superiori a ciò che la ragione può arrivare a comprendere. La ragione che non riconosce alcun limite, che non accetta alcuna misura, è una malattia della ragione stessa, una forma di hybris, un delirio di onnipotenza. La sana ragione è consapevole delle proprie possibilità, ma anche dei propri limiti, perché è consapevole del proprio statuto ontologico: che non è assoluto, ma relativo, appunto in quanto umano. Gira e rigira, si torna sempre allo stesso punto: o l’uomo si riconosce quale creatura, e allora accetta di poter fare molte cose, ma non tutte, e, in particolare, di non essere dio; oppure non si riconosce creatura, e allora pretende di essere lui dio, oppure scivola negli abissi della disperazione, oppure entrambe le cose insieme: diviene un dio depresso e disperato, che vorrebbe auto-distruggersi e distruggere, portandolo via con sé, il mondo intero. Per la stessa via, arriviamo anche a capire che, riconoscendosi creatura, l’uomo può trovare il proprio posto nel mondo, e accettare anche la propria provvisorietà, la propria mortalità; altrimenti, sarà un eterno infelice, sempre inquieto, sempre agitato, sempre fuori parte, sopra o sotto le righe. Mai pacificato, mai rasserenato, mai realizzato.
Ora, se Dio è il bene, allora noi possiamo capire cosa è bene e cosa è male, perché da Lui ci viene la norma infallibile. Noi, umanamente parlando, non possiamo vedere né fare il bene (assoluto), ma possiamo vedere e agire bene. Vedere bene: discernere il bene dal male; agire bene: fare ciò che è buono e giusto ed evitare ciò che è malvagio e ingiusto. Se la morale naturale fosse la nostra unica guida, certo ci troveremmo sovente in imbarazzo; e tuttavia, la morale naturale, data a ogni essere umano insieme al dono della ragione, è già sufficiente per vivere la vita buona. Per vivere la vita buona nella verità, la ragione naturale non basta: ci vuole la Rivelazione. Entrambe sono alla nostra portata, solo che noi lo vogliamo davvero. Certo, è necessaria una partecipazione, diciamo pure uno sforzo, da parte nostra, sia per l’una che per l’altra. Nulla ci viene dato, nella vita, interamente gratis, di ciò che ha un valore: solo le cose che non valgono nulla si possono ottenere gratis, senza impegno e senza sforzo. Se poi noi preferiamo dichiarare che il bene è incomprensibile e che la vita etica è impossibile, perché nessuno sa cosa sia realmente il bene, e ciascuno è libero d’interpretarlo a suo modo, allora faremmo prima a dir che non abbiamo voglia d’impegnarci, né intellettualmente, né eticamente; che non ci piacciono sforzi e sacrifici: e saremmo anche più sinceri. Il relativismo è, molto spesso, la maschera che indossano gl’ignavi per nascondere la loro ignavia: è comodo essere relativisti, perché ci si auto-dispensa dall’umile fatica quotidiana di cercare la verità. Umile, perché non dà soddisfazioni, non dà riconoscimenti, non porta vantaggi personali e non riceve applausi da parte di chicchessia; fatica, perché si tratta di una strada indubbiamente faticosa, controcorrente, incompresa e denigrata dai più.
Pertanto, alla nostra prima domanda, che cos’è il bene?, possiamo rispondere: il bene è ciò che maggiormente si avvicina al volere di Dio; il Bene assoluto è Dio stesso; il bene che noi possiamo riconoscere, è quel bene che si conforma al Bene divino, comprendendo sia l’amore, sia la giustizia. Non c’è amore senza giustizia, né giustizia senza amore; e il bene ha bisogno di entrambe.
Alla seconda domanda, come lo si può attuare?, rispondiamo in maniera analoga: deponendo la nostra volontà e facendoci tutt’uno con il volere di Dio. Non come voglio io, ma come vuoi Tu: queste parole, pronunciate da Gesù nell’orto degli olivi, durante la sua Passione interiore, contengono il nocciolo della questione. Creature deboli e imperfette, abbiamo bisogno di una norma, di una bussola, di una stella polare per agire in senso etico: ebbene, la nostra stella polare sia la volontà divina, così come la ragione ce l’ha fatta intravedere, e la Rivelazione ce l’ha mostrata più da vicino. Non ce l’ha mostrata in astratto, ma in concreto: la Verità non è un’idea, ma una Persona, la Persona di Gesù Cristo. Lo ha detto proprio Lui, parlando di Se stesso: Io sono la via, la verità e la vita. Non ha detto: io vi mostro la via, la verità e la vita; ma ha detto: io sono la via, la verità e la vita. E ha detto anche: Chi ha visto me, ha visto il Padre. E come puoi tu dire (rivolto all’apostolo Filippo): mostraci il Padre e ci basta? Non credi tu che io sono nel Padre e che il Padre è in me? E ancora, sempre sullo stesso tema: Nessuno può arrivare al Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio ha voluto rivelarlo. E ancora: le parole che vi ho dette, non le dico da me, ma il Padre che è con me, compie le sue opere. Non è vero, allora, che basta interrogare la propria coscienza per trovare la risposta a qualsiasi interrogativo morale e per compiere l’azione giusta, ossia l’azione buona, in qualsiasi circostanza (anche se il papa Francesco ha detto esattamente questo, nella famosa intervista a Eugenio Scalfari, pochi mesi dopo la sua elezione, nel 2013). Ci vuole dell’altro: se bastasse interrogare la propria coscienza, allora non ci sarebbe stato bisogno dell’Incarnazione del Verbo, né della Passione e nemmeno della Resurrezione di Cristo, e tutta la sua opera redentrice si ridurrebbe a una sorta d’insegnamento etico, come quello di Socrate o di altri saggi, Buddha, Confucio, Lao-Tzu, eccetera: se possuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria, come dice il padre Dante.
Il problema più grande che sorge a livello etico non è che gli uomini non riconoscano il bene, come affermava Socrate, ma che, pur scorgendolo, non lo sanno, non lo vogliono seguire, e ciò per una ragione semplicissima: che il bene è poco remunerativo, in termini di moneta umana. Non rende, non funziona; al contrario, praticare il bene espone a numerose e, a volte, pericolose forme di diffidenza, incomprensione, ostilità, perfino odio e persecuzione. E qui entra in gioco il mistero del male. Il male non è solo un’assenza, ma è un’efficienza; il male esiste, tanto quanto esiste il bene: non è solo la mancanza del bene, ma è una realtà di per sé sussistente, che si accanisce contro il bene ovunque lo scorge e ovunque gli sia possibile. I buoni non devono vedersela solo con la fatica di praticare il bene, ma anche con la sofferenza di sopportare il male, spesso da parte di coloro dai quali si aspettavano aiuto e conforto, da coloro dai quali contavano di essere sostenuti e consigliati, e che si rivelano, invece, dei veri e propri persecutori. Siamo qui davanti a un mistero, abissale, terribile, impenetrabile: mysterium iniquitatis. Insomma, fare il bene non è solo una fatica, ma è un pericolo, e il premio che se ne ricava è l’ingratitudine dei beneficati. Se si dovesse fare il bene solo in vista dei vantaggi, nessuno lo farebbe, e l’opinare diversamente sarebbe considerata una forma di patologia mentale, una sorta di masochismo e di ricerca dell’auto-distruzione. Però, attenzione: quello che viene distrutto, in tali casi, non è il nostro vero io, ma l’io posticcio, l’io superficiale, infantile, capriccioso, incontentabile, che non si appaga mai di nulla e vuole sempre, brama e spera qualcos’altro, qualcosa di più. Che un simile io venga messo in croce, non è un gran male, anzi: è la nostra liberazione. Liberati dal suo fardello, finalmente cominceremo a vedere le cose nella giusta prospettiva. Che non è la nostra, impastata d’egoismo, limitata e imperfetta, ma quella di Dio.
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