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Se i vecchi tralignano, chi insegnerà ai giovani?

È un negozio che frequento da anni, vi si trova di tutto e specialmente libri usati. Ha un doppio ingresso, due porte l’una accanto all’altra, l’una per l’entrata, l’altra per l’uscita; ma, in effetti, non c’è bisogno di questo accorgimento, perché i clienti sono poco numerosi e, dal bancone, si vede benissimo chi entra e chi esce. Ad ogni modo, per istintivo amore dell’ordine, sono sempre entrato dalla parte "giusta": sempre, tranne qualche giorno fa. C’era un vecchio, robusto, seduto su una panca fra i due ingressi, all’esterno, con un grosso cane al guinzaglio, che rivolgeva il muso verso l’"entrata". Un po’ per quello, forse (pur amando gli animali, ho imparato che non si può concedere fiducia a un cane che non si conosce per niente), un po’ perché avevo parcheggiato dal lato dell’"uscita", un po’ perché soprappensiero per ragioni mie, ho imboccato la porta "sbagliata. Non c’erano altri clienti in vista; il piazzale era deserto; nessun pericolo di confusione o d’intralcio. Sulla porta, il vecchio mi apostrofa con aria molto saccente: Quella è l’uscita; si entra per di qua, e mostra, col bastone, l’altra porta, quella dalla parte del cane. Invece di alzare le spalle e andare oltre, mi fermo e gli rispondo, con tono significativo: Lo so. E lui, insistendo: Non di qua; di là; e io, di nuovo, in modo ancor più esplicito: Lo so. Ma il vecchio non demorde: vedendomi deciso a entrare dalla porta dell’uscita, ripete, per la terza volt: Non si entra di lì. Spazientito, gli dico: Ma se io vado per i fatti miei, lei perché non si fa gli affari suoi? Questo semplice argomento non è affatto sufficiente a quietare lo zelante custode improvvisato, il quale, imperterrito, insiste, come un disco rotto, ma con aria, se non proprio minacciosa, nondimeno assai petulante: E allora perché entra di lì? Finalmente ho capito che stavo perdendo tempo e sono entrato, ovviamente dalla porta "sbagliata". Poi, all’interno del negozio, ho notato che il vecchio, entrato a sua volta, mi teneva d’occhio; ed era di nuovo appostato all’uscita, col suo cane, anche se, stavolta, non ha detto più nulla. Credo che cercasse la lite. Mi sono così imbattuto, e non per la prima volta, né per la seconda, in una figura ormai caratteristica del nostro paesaggio umano, ma pressoché sconosciuta, oppure molto rara, sino a qualche tempo fa: il vecchio litigioso. Il vecchio che non ha imparato, dalla vita, la saggezza del tacere, del rispettare l’altro, di pensare un po’ ai casi suoi. Certo, formalmente lui aveva ragione, e io torto: nondimeno, io non stavo recando il minimo danno o disturbo ad alcuno, lui stava seccando una persona che poteva avere – e di fatto aveva – pensieri ben più gravi per la testa che fare le pulci al prossimo senza uno straccio di motivo, e desiderava solo una piccola pausa di tranquillità. Lui sembrava il difensore dell’ordine, ma era un molesto e un importuno; io passavo per l’elemento perturbatore, mentre non lo ero affatto. Difendere la causa dell’ordine in maniera inopportuna, inappropriata, eccessiva, invadente, è uno dei modi per sentirsi dalla parte giusta, mentre si sta cercando solo il pretesto per rompere le scatole al prossimo e per riversare su di lui le proprie frustrazioni e, forse, la propria solitudine. Di solito lo fanno le persone abbastanza  giovani o nella maturità; ora lo fanno, molto speso, i vecchi: e lo fanno con uno zelo, con una intransigenza, con una determinazione degne di migliori cause.

Bisogna dunque interrogarsi sul perché si stia diffondendo la figura del vecchio litigioso, del vecchio attaccabrighe, del vecchio che getta un bastone fra le gambe degli altri per farli inciampare, o per il puro gusto di ostacolarli, o, quanto meno, per la soddisfazione d’infastidirli, invece di mettere a disposizione degli altri il tesoro della sua lunga esperienza di vita. È da un po’ di tempo che stiamo osservando questo nuovo e triste fenomeno: il regresso intellettuale, morale, spirituale, della generazione dai capelli bianchi; la sua abdicazione a svolgere una qualsiasi funzione educante, a tener alta la bandiera dei solidi valori del buon tempo andato, che essa ha ricevuto di prima mano dai suoi genitori, insegnanti e sacerdoti, e che avrebbe dovuto difendere, per trasmetterli integri ai figli e ai nipotini. E i solidi valori del tempo andato erano sostanza, non forma: prima fra tutte, il rispetto del prossimo, non l’attaccamento a regole astratte al puro fine di molestare l’altro.

Forse è un errore idealizzare troppo l’età avanzata e pretendere che i vecchi, solo perché hanno vissuto più a lungo e visto più cose, abbiano anche accumulato, quasi automaticamente, una saggezza di vita superiore alla media. Può darsi che un tempo fosse così, specialmente nella civiltà contadina, quando il legame diretto con la terra e con gli animali, la vita secondo il ritmo delle stagioni, la sanità di un lavoro costantemente legato ai cicli della natura, conferiva un’aura di pace e di sacralità alla figura del vecchio patriarca del mondo rurale: si pensi alla figura di Padron ‘Ntoni ne I Malavoglia di Verga o a quella di Lazzaro Scacerni nel Mulino del Po di Bacchelli. Tuttavia la modernizzazione della nostra società, la meccanizzazione dell’agricoltura e la fine del mondo contadino, l’inurbamento e il lavoro di fabbrica, hanno radicalmente modificato questo quadretto idilliaco e, con esso, anche il corollario della saggezza, benevolenza e mitezza delle persone anziane, nonché quello del loro amore e timore di Dio. Sta di fatto che vediamo sempre più spesso delle persone anziane agire, parlare e comportarsi in maniera clamorosamente antieducativa, priva di equilibrio, eccessiva, sopra le righe; le vediamo dare esplicitamente consigli discutibili ai giovani, dissuaderli da proponimenti seri e di lungo termine, incitarli al cinismo, alla furberia, al vivere alla giornata, alla noncuranza, alla maleducazione e all’aggressività nei confronti del prossimo. Inoltre le vediamo talvolta, con sgomento, con costernazione, con tristezza, mostrarsi litigiose, scorbutiche, irritabili e intrattabili; le vediamo deridere le cose buone e giuste e dileggiare le persone oneste e lavoratrici; le vediamo saltar fuori con osservazioni sgradevoli, con commenti inopportuni, con giudizi ingiusti, avventati e gratuiti; infine, le udiamo esprimere dei punti di vista straordinariamente malevoli, superficiali, banali, astiosi; e tutto ciò abbastanza frequentemente. Inoltre, le vediamo avventurarsi in atteggiamenti e opinioni in netto, totale contrasto con i valori portanti della società in cui sono cresciute, come se fossero prese dalla frenesia di scrollarsi di dosso il loro passato; come se, mostrando disgusto e rifiuto del passato, guadagnassero una nuova giovinezza. Cosa sta succedendo ai nostri genitori, ai nostri nonni: stanno forse impazzendo? Hanno forse respirato i vapori miasmatici di qualche strano morbo, hanno incubato qualche sconosciuta malattia? Perché si comportano così, perché sono diventati così? Che cosa li spinge ad unirsi al marasma generale, a lasciarsi trascinare da una corrente che dovrebbero percepire come estranea, a navigare delle tendenze che dovrebbero apparir loro aberranti, indegne e pericolose? Vogliono far vedere di essere aperti, moderni, di larghe vedute: ma perché? Che cosa avrebbero da perdere, rimanendo fedeli a se stessi e ai valori che hanno ricevuto con la loro educazione? Quand’è che si sono accorti che quei valori erano sbagliati, che erano da buttare nel cestino della carta stracci? Per gran parte della loro vita, infatti, sono rimasti ad essi fedeli; è solo nella vecchiaia che hanno scoperto quando fossero sbagliati e hanno deciso di rifiutarli, calpestarli, additarli alla contestazione dei giovani. Sperano, così facendo, di fare un bagno di giovinezza, di assaporare di nuovo il sapore della gioventù? Oppure vogliono lodare ad alta voce quelle cose che non hanno conosciuto, le esperienze che non hanno fatto, e prendersi così una rivincita tardiva su quel modello educativo che adesso, a distanza di tanti anni, scoprono essere stato ottuso e repressivo?

Una cosa va detta anzitutto, nel cercar di rispondere a queste domande. Invecchiare, in una società come la nostra, dominata dal mito del Progresso e dal culto della velocità, non è facile. I vecchi rischiano di sentirsi inutili, mesi da parte, considerati esclusivamente come un peso. La loro saggezza non è più richiesta, la loro esperienza di vita vissuta non interessa più a nessuno. I nipotini preferiscono giocare coi telefonini e coi computer, invece di ascoltare le loro vecchie storie. Le modalità sempre più complicate della tecnologia, che pervade ormai ogni aspetto della nostra vita (anche ritirare la pensione diventa una procedura che richiede certe competenze d’informatica, per non parlare del ritiro d’un referto medico, o dell’acquisto di un biglietto del treno), li emargina ulteriormente, li riduce all’impotenza, li fa dipendere dagli altri, da quelli che sanno usare la tecnologia, facendoli sentire ancor più inutili, fragili e impotenti. Un vecchio che non sa usare il computer, ma che si trova a dipendere da esso, anche per l’assunzione di una badante, si sente annichilito; un vecchio il cui nipote trova noiosa la sua compagnia, e si vede sfuggito da tutti, perché non ha più nulla da offrire agli altri che possa riuscire gradito, nemmeno i suoi ricordi, cade nell’amarezza, nella malinconia, nella depressione. E se guarire dalla depressione è difficile per un giovane o per un uomo di mezza età, è praticamente impossibile per un vecchio. La vecchiaia consiste in un progressivo, inesorabile restringimento degli orizzonti, in un rimpiccolimento quotidiano degli spazi di futuro, di vita, di speranza. Un tempo abbastanza recente, c’era la fede religiosa a confortare la vecchiaia e l’idea stessa della morte: la fede aiuta a vedere l’approssimarsi della fine come un processo di benefico distacco dalle cose del mondo e come l’occasione per fare un bilancio di vita, dedicandosi sempre più alla preghiera, alle pratiche devozionali, alla beneficenza, al colloquio con le anime dei propri cari defunti, in vista di un non lontano ricongiungimento. Ma adesso? Adesso la vecchiaia è il caso più vistoso di un nuovo malessere dell’umanità moderna: lo shock del futuro. Il ritmo del cambiamento sociale, culturale, materiale, si è fatto talmente rapido, che tutti fanno fatica a tenere il passo; ma per i vecchi ciò è addirittura impossibile. Lasciati indietro dalla corrente, respinti ai margini, abbandonati dalla società, nella sua corsa frenetica, come le alghe e le conchiglie vengono abbandonate sulla sabbia dalle onde che si frangono a riva, rischiano letteralmente d’impazzire.

Da tutta questa situazione emerge, sempre più spesso, la figura del vecchio malvissuto: figura biasimevole, patetica, grottesca, imbarazzante, ma soprattutto socialmente e moralmente dannosa, perché tale da influenzare in maniera negativa i giovani: quelli stessi che non ascoltano gli anziani, che perfino li deridono, ma che, sotto, sotto, con la coda dell’occhio, li guardano, li osservano, cercando in essi il modello di adulto "forte" che non hanno mai trovato nei loro genitori, e sperando, contro ogni logica e ogni ragionevole aspettativa, che loro, proprio loro, possano dare, magari non in forma diretta ed esplicita, ma con la loro vita e con la loro morte, una risposta alle domande che vorrebbero fare, che hanno sulla punta della lingua, ma che non osano esprimere, perché non vedono, intorno a loro, degli adulti meritevoli di fiducia e presumibilmente capaci di chiarire i loro dubbi, di fugare le loro perplessità, di esorcizzare le loro paure. E ne hanno, di paure, i giovani, che, però, non osano esprimere, perché non vogliono farsi vedere deboli e preferiscono recitare la parte dei cinici, o degli arroganti, o degli incoscienti.

Una tipica figura di vecchio malvissuto è quella descritta da Alessandro Manzoni nel tredicesimo capitolo dei Promessi Sposi, quello dei tumulti di Milano per il pane e dell’assalto alla casa del vicario di provvisione:

Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.

Son bastate quattro righe a Manzoni per delineare un ritratto potente, efficacissimo,veritiero: quel vecchio feroce, dallo sguardo stralunato e dalla canizie vituperosa, ci s’imprime nella mente e non se ne andrà più: tutti noi ce lo siamo visto, con gli occhi della mente; e, forse, lo abbiamo istintivamente confrontato con qualche persona da noi realmente incontrata, e che presentava qualche analogia con quella descritta dall’autore dei Promessi Sposi. Ciò che rende orribile quel personaggio è proprio l’età: in lui vediamo ciò che un vecchio non dovrebbe mai essere.

Si pone la domanda del che fare. È ovvio che i vecchi, nella società odierna, si sentono sempre più a disagio, e ne hanno motivo; ed è ovvio che la società, a cominciare dai giovani, dovrebbe tornare ad avere verso di essi un atteggiamento più attento e rispettoso. La vita, però, non regala nulla a chi non lo merita (o, se lo fa, se lo riprende poi con gl’interessi), perciò attenzione e rispetto devono esser guadagnati e conquistati. Sospettiamo, peraltro, che i vecchi rancorosi e litigiosi non siano semplicemente delle persone sagge e miti, amareggiate dalle delusioni, ma siano degli ex giovani viziati e prepotenti, che non hanno imparato ad invecchiare perché non hanno mai saputo vivere. Costoro non meritano compassione, perché sono proprio quelli che hanno corrotto una generazione, dando il cattivo esempio della superficialità, dell’egoismo, della cialtroneria, e hanno scansato le loro responsabilità, facendo i permissivi coi propri figli. I quali, adesso, li ripagano con il disprezzo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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