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Vitaliano Brancati o l’erotismo della disperazione

Tutta l’opera narrativa di Vitaliano Brancati sembra essersi svolta all’insegna di un sostanziale equivoco: la sua sensualità, il suo gallismo siciliano, cioè, la sensualità e il gallismo dei suoi personaggi, inseriti in un contesto sociale che li carezza, li esalta, ma sui quali, nello stesso tempo, è pronto a ironizzare, a commentarli con malizia spietata, sono stati visti come lo sfogo di una esuberanza virile e insieme come strumento di critica sociale, per esplorare, scandagliare e mettere a nudo i vizi di una società borghese pigra, ipocrita e sprofondata nella noia. Eppure, i tre romanzi più famosi: Don Giovanni in Sicilia, del 1941, Il bell’Antonio, del 1949, e Paolo il Caldo, pubblicato postumo nel 1955, un anno dopo la morte improvvisa dell’autore per una operazione mal riuscita, segnano le tappe di una lenta, ma progressiva e inesorabile discesa agli inferi La sensualità si trasforma in lussuria, in ossessione, in cupo desiderio di annientamento; lo sfondo corale si rarefa e il protagonista scivola in una crescente solitudine. La disperazione è divenuta la cifra dell’esistenza, e la frenesia sessuale ne è piuttosto l’effetto che la causa, in un vano tentativo di esorcizzare i fantasmi dell’angoscia e della follia, dei quali diverrà vittima Paolo Castorini, il protagonista dell’ultimo romanzo (del quale, peraltro, ci mancano gli ultimi due capitoli, che Brancati non aveva fatto in tempo a scrivere, pur avendo autorizzato, quasi in punto di morte, la pubblicazione del libro così com’era).

Ora, che il fondo della narrativa di Brancati sia serio, e sia pure di una particolare serietà rivestita di umorismo, che richiama Gogl’ e altri scrittori russi, sono in pochi a non averlo visto, o a metterlo in dubbio; e, in questo senso, la narrativa di Brancati è lontanissima da quella, per esempio, di Alberto Moravia, cui pure è stata accostata, per la semplice ragione che in quella vi è una profonda, benché seminascosta, tensione morale, in questa invece no, al contrario, vi è il giusto perverso della dissacrazione per mezzo della pornografia eretta (malamente) a categoria d’arte e a strumento di denuncia e demistificazione dei vizi della società. Mentre in Moravia la sessualità coincide con la lussuria, e questa con la perversione, benché vengano contrabbandate — come nel cinema di Pier Paolo Pasolini, del resto — per una forma "rivoluzionaria" di critica sociale, in Brancati la sessualità degenera in lussuria, scivola da istinto a peccato, cioè a ricerca consapevole del male e della violazione di un ordine superiore, voluto da Dio. Perciò il fondo dell’animo di Brancati è religioso, e sia pure di una religiosità sofferta, contorta, "esistenzialista" (qualcuno ha parlato di Kierkegaard e rievocato gli "stadi" sul cammino della vita, dal quello estetico a quello etico, infine a quello religioso; sebbene il passaggio avvenga, e solo nel Don Giovanni in Sicilia, dal primo al secondo, ad esclusione del terzo), che però lo avvicina più a Cechov che a Sartre, perché, ripetiamo, in lui è insita, sia pure allo stato latente, e assai confusa, la nozione che l’uomo è destinato a qualcosa di meglio che inseguire continuamente il miraggio del proprio piacere e sprofondarsi nel brago ogni volta che ne ha l’occasione: è destinato a levare lo sguardo vero l’alto, anche se il cielo che riesce a intravedere non è che un tenue squarcio fra le nubi scure e opprimenti.

Vi è una tremenda moralità in Brancati, risentita, umiliata e offesa: la sua parabola di scrittore si svolge su un terreno infinitamente più pulito e più autentico di quello di Moravia, anche se pure questi si atteggia a fustigatore dei vizi sociali, della falsità e dell’ipocrisia "borghesi" (per lui, il male è borghese per definizione, e questo lo pone al livello dei tanti, piccoli e banali intellettuali di sinistra che, fra gli anni ’40 e ’80, hanno declamato dai tetti, con saccenteria e conformismo, che l’infame mondo capitalista era giunto alla fine della sua corsa e che presto si sarebbe levato il sole dell’avvenire); la parabola umana e artistica di Brancati è all’insegna della ricerca della verità, e, pur non approdando ad alcuna metà certa, per lo meno essa non si compiace, come han fatto molti, di brancolare nel vuoto, né si acconcia a celebrare il nulla, ma giunge, e sia pure proprio alla fine, ad una lucida intuizione di quel che manca all’uomo moderno per trovare la pace con se stesso.

Dopo aver passato brevemente in rassegna i giudizi critici su Paolo il caldo, che lo interpretavano come un romanzo di crisi e di transizione, il critico Geno Pampaloni osservava a sua volta (in: Vitaliano Brancati, Paolo il caldo, Milano, Mondadori, 1955, 1972, pp. XI-XII):

… Ma crisi di che, trasformazione a che cosa? Vitaliano Bracati non è mai stato "romanziere" nel senso tradizionale, balzachiano, della parola. I suoi romanzi e i suoi racconti, hanno sempre il loro centro in un ritratto: egli è, come si è detto, moralista dell’esistenziale, il suo tema è il chiaroscuro della vita, la variazione dei riflessi cangianti dei fatti e delle sensazioni entro un singolare rapporto di complicità, morbido privilegiato ed esclusivo, che i suoi personaggi intrattengono con la vita. Nella sua narrativa ciò che conta non è l’architettura composta dai fatti, ma le assonanze di timbro, le rispondenze sottili di musicalità tra cronaca e psicologia, tra costume e coscienza, l’intreccio di provocazioni scambievoli tra l’uomo e il mondo. I suoi personaggi non sono protagonisti di azioni, ma di atteggiamenti e di parole: non agiscono, ma reagiscono e commentano. L’unico personaggio veramente autonomo è sempre stato, per lui, la vita. In questo senso, più o meno scopertamente, il suo razionalismo sfumava in una dimensione religiosa, o, per ripetere una recente e bella formula di Giancarlo Vigorelli, egli "rispondendosi da laico non cessava di interrogarsi da religioso." In "Paolo il Caldo" questo processo arriva a una vera e propria divaricazione: da un lato, cresce l’importanza del "diario", il momento autobiografico e di riflessione, la confessione privata e di memoria; dall’altro lato il grottesco e il comico prendono la via del tragico. La sua comicità, sin ad allora, era stata, come felicemente l’ha definita Mario Pomilio, una conicità "d”attrito", cioè fortemente carica di spirito critico e polemico indirizzato con precisione ai vizi di una società. Ora quella comicità si colora di terreo e di perverso, passa dal "costume" al male, dal vizio pittoresco al peccato. I personaggi interessano allo scrittore sempre meno come macchiette, tipi di categorie sociali, e sempre più come incarnazioni di una condizione del vivere, crudele e perduta. Essi si allontanano dalla loro "innocenza" di peccatori o di eroi di provincia bonariamente determinati (e perciò assolti) dalla incultura di una società mediocre, e si avvicinano al loro rischio finale, al loro destino. Lo scrittore è meno curioso di una volta dei colori dissonanti e vivaci del loro costume, e con sorta di nuova insofferenza è impaziente di arrivare al nucleo della loro verità. Non è più la delusione, come aveva detto il Moravia, il perno della sua arte; ma la desolazione esistenziale. Il fascismo, e più in generale la società e la storia, non gli bastano più come spiegazione morale del male; egli vuole andare più à a fondo, tra le radici verminose, gli incerti bagliori, le voci disperate ove l’uomo d’oggi rabbrividisce, perduto da una mancanza di fede, da una scettica illusione di autosufficienza di cui egli è insieme testimone, velleitario ribelle e vittima. Se riprendiamo la vecchia definizione del Pancrazi, "umorista serio", vediamo che le proporzioni tra le due parti dell’endiadi sino profondamente mutate: sull’umorismo prevale con voluttà acre, la serietà. Il "buffo", il grottesco, è divenuto, per l’ultimo Brancati, un ossesso. Questa è veramente una "crisi". "Paolo il caldo", almeno allo stato di elaborazione cui era arrivato, ci si presenta come un romanzo che reca al suo interno le tracce di un’esplosione. Ma se appare indubbia, come spero di avere indicato a sufficienza, la ricerca da parte dello scrittore di una nuova intensità drammatica, di un risvolto infernale nel giuoco dei sensi, non mi sentirei di porla sotto il segno della "involuzione"; e se mai, anzi, mi sembrerebbe più giusto considerare quella ricerca come un approfondimento, coerente se pur doloroso, coraggioso se pur imperfetto, dei motivi spirituali del suo mondo. Noi non possiamo sapere, in via definitiva, come l’autore avrebbe risolto le incertezze strutturali, che valore avrebbe dato agli accordi autobiografici, sfumati e diaristici, con cui si apre, quale rapporto finale avrebbe stabilito tra il suo protagonista Paolo Castorini e se stesso, quale significato, quale tipo di condanna avrebbe attribuito alla follia nella quale Paolo è destinato a ingorgarsi.

Di fronte al libro così com’è […], vorrei limitarmi a tre osservazioni:

1) La parte siciliana del romanzo è ancora una volta artisticamente la più felice: ardori e fantasie dei sensi, compiacimenti ed esibizioni virili, raffinate e solitarie opposizioni alla sicilianità volgare espresse attraverso una programmata inappetenza di vita (come nella figura, molto bella, del padre di Paolo, Michele, che appare consanguinea allo zio Ermenegildo del "Bell’Antonio", innocenze e edizioni carnali punite dalla crudeltà dell’egoismo maschile (come nel breve episodio, forte e poetico, dell’amore di Giovanna e Paolo) rivivono mirabilmente nella prosa inconfondibile del Brancati. Notiamo soltanto che l’ironia ha un segno più grave, la scrittura risuona più pensosa e pausata, cose e figure sembrano staccarsi con un che di dolente da un loro margine d’ombra, e quasi rabbrividire per una loro piaga segreta.

2) Il ruolo di Paolo appare diverso da quello dei protagonisti degli altri libri brancatiani: mentre quelli agivano su uno scenario pubblico, aperto al giudizio, animato dagli scrosci di risa di invisibili spettatori, la storia di Paolo si consuma in una crescente solitudine torva, è sempre meno spettacolare e sempre più destino. Qualcuno ha parlato, per quest’ultimo Brancati, di ambizione al romanzo "totale". Bisogna riconoscere che l’elemento ideologico, di riflessione sull’idea della vita, è qui molto più urgente e severo che nei libri precedenti. Lo scrittore si volge ad imporre ai personaggi della sua fantasia, e quindi a se stesso, una resa dei conti.

3) "Paolo il caldo" rappresenta un momento essenziale nello sviluppo del tema della sensualità, che, ripetiamolo, è uno dei temi centrali dello scrittore. Nel periodo che fa capo a "Don Giovanni in Sicilia", la sensualità era vista come giuoco fantastico, ossessione torbida e tutto sommato indolore; la sua forma era la satira grottesca, spettacolo comico con un fondo di amaro. Nel "Bell’Antonio" la sensualità si trasformava, per una sorta di contrappasso alla sua stessa ossessività, in impotenza: e lo scrittore ne traeva un’intonazione lirica, una nostalgia d’innocenza. In "Paolo il caldo" siamo a uno stadio estremo: la sensualità si fa lussuria, fosca e murata prigione, bramosità dell’impossibile, addio all’innocenza e alla ragione. Neppure più vizio, ma già condanna. Di qui il fondo acre, fumigante, del racconto, i colori luttuosi e cupi, il balbettio di un de profundis prima del silenzio finale. Così, come in un cerchio, si chiude l’avventura della sensualità, della pigra e irresponsabile festa dei sogni alla vertigine assolata e nera ove sparisce il rilievo del mondo e il suono della parola umana.

Ci pare, tuttavia, che, oltre a numerose intuizioni importanti e a puntualizzazioni chiarificatrici, Brancati non abbia sufficientemente valorizzato quell’embrione di verità trascendente intravista da Paolo Castorni proprio alla fine del romanzo, e sia pure per via negativa, cioè come intuizione della futilità e della amoralità della cultura dominante, a cominciare dalla psicanalisi freudiana, che, riconoscendo il fondo naturale delle pulsioni, consiglia all’uomo di accettarle e assecondarle, come può e meglio che può, senza ribellarsi e senza cercare un impossibile rovesciamento dei propri istinti, se non nella misura in cui ciò è necessario per non infrangere il patto sociale e incorrere, così, nei rigori della legge. La visione della vita che emerge da Paolo il Caldo è tragica e sconsolata, senza più le sfumature ironiche e le divagazioni umoristiche dei precedenti romanzi. Non c’è più niente di cui ridere, nemmeno dell’impotenza del "gallo" siciliano che tutti credevano dotatissimo sotto il profilo virile, come nel Bell’Antonio. E la genialità di Brancati è stata quella d’aver intuito, in anni non sospetti, e dietro la maschera (almeno iniziale) di un localismo folcloristico, come se la cosa riguardasse la sola Sicilia, mentre riguarda tutto l’Occidente, che la lussuria avrebbe rappresentato il maggior fattore di dissoluzione sociale e morale della società moderna, e che, per tal via, tutti i legami, i doveri, i patti, le solidarietà, gli impegni, gli stessi affetti, si sarebbero sfaldati, liquefatti, dissolti e che il mondo moderno si sarebbe suicidato. In questo senso, un romanzo come Paolo il Caldo può essere letto in chiave di struggente, dolorosa attualità, che non parla dei miti "gallisti" della Sicilia dei primi anni Cinquanta del ‘900 (e quanta acqua è passata sotto i ponti, del resto, da allora; quante cose sono radicalmente cambiate), bensì della nostra situazione odierna, italiana e occidentale: una situazione che può esser descritta come la progressiva erosione del tessuto sociale ad opera di una mitologia pansessuale maligna, che, sotto le apparenze della più totale libertà, sta correndo a grandi passi verso l’autodistruzione. Poco importa se la sfrenatezza sessuale si declinava, allora, come adulterio sistematico e come "caccia", da parte del maschio, di tutte le femmine disponibili sul mercato, e anche di quelle indisponibili, mentre oggi passa per l’istituzionalizzazione del rovesciamento dei generi, per il cambio di sesso e per i matrimoni gay. L’elemento comune, per cui la situazione attuale non è che il logico e naturale sviluppo delle premesse gettate negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, è il pansessualismo radicale, la sessualizzazione sistematica, di ogni aspetto della vita, dalla pubblicità allo sport, dalla televisione alla stampa, dalla letteratura al cinema, dalla musica leggera alla scuola (con tanto di sedicenti esperti che vengono a insegnare ai bambini come infilarsi un preservativo e come decidere "liberamente", volta per volta, se avere dei comportamenti sessuali maschili o femminili, e dando praticamente per scontato che sia impossibile imbattersi in un ragazzino o una ragazzina di 12 anni che non abbiano già avuto dei rapporti sessuali completi e ne sappiano abbastanza per poter parlare loro di tali cose nella maniera più esplicita e disinvolta..

Sì: Vitaliano Brancati aveva visto non solo la deriva della lussuria trasformata in comportamento di massa e in bisogno compulsivo, simile a una droga, artificialmente stimolato e alimentato da tutto l’insieme della macchina sociale; aveva visto anche le responsabilità della cultura e della "scienza" ufficiale, a cominciare dalla psicanalisi, e, soprattutto, la causa fondamentale di tutto il fenomeno: il rifiuto dell’idea di peccato e il rinnegamento di Gesù Cristo. Perché Brancati, anche se i critici politicamente corretti, quasi tutti di matrice marxista e anticristiana, si guardano bene dal dirlo, è giunto, se non altro alla fine del suo romanzo incompiuto, a questa lucida consapevolezza: l’uomo moderno si è letteralmente imbestialito, è regredito al livello degli animali, per aver voluto scacciare Dio dal proprio orizzonte esistenziale; e la cultura progressista ha una responsabilità ben precisa in tutto questo, perché è stata uno dei principali fattori sia di tale distacco, sia della deriva libertina della società nel suo complesso. E anche se Brancati non ha saputo, o non ha avuto il tempo, di sviluppare adeguatamente questa consapevolezza, resta il fatto che lui l’avuta, e tutti gli altri no; tutti gli altri, i Vittorini, i Moravia, i Pasolini, col sesso hanno saputo solo avventare sempre nuove picconate contro le basi morali e spirituali della nostra società, contribuendo potentemente a trasformarla in una grande cloaca ribollente delle peggiori sozzure che sia dato immaginare; dove l’incesto, la pedofilia, la sodomia, il lesbismo, il masochismo, il sadismo, perfino il bestialismo e la necrofilia, sono stati presentati come espressioni normali, e comunque legittime, perché autentiche, di una sessualità emancipata, cioè come elementi di liberazione e di progresso e non per ciò che realmente sono, e per come li vide Brancati: elementi di auto-avvilimento, di obnubilamento intellettuale e di dissoluzione morale.

A un tale Pinsuto, cui Paolo Castorini ha confidato il suo disagio per la propria dipendenza dal sesso, e la sua convinzione che ciò lo stia conducendo a un incolmabile vuoto interiore e alla pazzia, e che gli ha consigliato, a sua volta, di farsi esaminare da un medico, perché non i suoi disordini sessuali, ma i suoi scrupoli morali sono una forma di nevrosi, risponde (cit., p. 277):

Da chi? I medici moderni hanno una stupida fiducia nella funzione sessuale. Non credono al diavolo. Questa smania che mi distrugge, per loro è la meravigliosa forza della vita. Non ci sono più peccati sessuali, per questa genia di nanerottoli! Il diavolo per loro non esiste. E invece esiste! Lo so bene io che ce l’ho a cavallo sulle spalle…

E sempre nel corso della stessa conversazione, dopo aver rivendicato l’esistenza del diavolo e aver affermato che egli si serve della lussuria per spingere gli uomini al peccato (ecco dunque la parola impronunciabile! Intellettuali progressisti: come la spiegate, voi? consigliereste a Paolo Castorini una bella visita dallo psichiatra, vero?), aggiunge con forza crescente e con autentico sdegno:

… I suoi medici psicanalisti hanno sempre cercato di sapere se avessi scacciato dalla coscienza qualche impulso sessuale. Oh, no, li rassicuri! Io non ho scacciato nessun impulso del genere! Sa che cosa ho rimosso io, invece, che cosa ho scacciato fuori dalla coscienza, e buttato nelle fogne di me stesso? Il pudore, la carità, un Comandamento del Vangelo! Sa che cosa ho calpestato e ridotto al silenzio? Gesù Cristo in persona!

Ci sembra abbastanza chiaro. Brancati non è fatto della pasta di Moravia o Pasolini. Grazie a Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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