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Franco Caprioli, il poeta che fa sognare i ragazzi

Nato a Mompeo, in provincia di Rieti, il 5 aprile 1912 e morto a Roma l’8 febbraio 1974, mentre stava lavorando alla sua ultima fatica, I figli del Capitano Grant, Franco Caprioli è stato un grande: un grande disegnatore, un grande poeta, un grande educatore. La qualifica di "fumettista" è troppo smilza per la sua figura dalle proporzioni eccezionali. Un grande disegnatore, perché del disegnatore aveva non solo la sicurezza del tratto grafico, ma anche la felice intuizione dello spazio, delle figure e della atmosfera che voleva rappresentare; un grande poeta, perché non si limitava a disegnare, ma spalancava una finestra su orizzonti sconfinati, che avevano il profumo delle foreste tropicali e l’odore pungente di salmastro delle grandi distese marine, ampliando enormemente la percezione delle cose e conferendo alle sue storie una qualità e una profondità insolite nel mondo dei fumetti (non però del tutto insolite, allora, a differenza di oggi); un grande educatore, e l’espressione non sembri esagerata, perché, attraverso le sue appassionanti storie a fumetti, pubblicate su Il Vittorioso e su Il Corriere dei Piccoli, egli ha letteralmente ducato una o due generazioni di bambini italiani: li ha educati a sognare, a vedere la vita con serietà e con incanto, a lottare per le cose in cui si crede: non però al primo capriccio soggettivo, bensì a ciò che è giusto, davanti alla propria coscienza, davanti agli uomini e davanti a Dio. Insomma, è stato un maestro di dignità e di fermezza, in questa società sempre più dominata dal relativismo dei cattivi maestri e dall’edonismo sbracato e cialtrone della american way of life.

Chi ha oggi almeno sessant’anni, sa bene di che cosa stiamo parlando: stiamo parlando di un mondo incantato che Caprioli sapeva evocare con la sua penna svelta, elegante, dal segno nitido e "pulito", ben curato nei particolari; una atmosfera che traspare vividamente da ciascuna delle vignette dei giornalini da lui illustrati, perché essa prendeva vita come per una forza interna, per un soffio di magia che irrompeva da chissà dove, facendo entrare l’avventura nella vita quotidiana dei bambini e degli adolescenti, afferrandoli nel suo vortice luminoso e trasportandoli, come per incanto, sulle spiagge coralline della Polinesia, o sui cavalloni spumeggianti del Pacifico, o sotto la volta della foresta a galleria in qualche angolo sperduto delle regioni equatoriali. In un certo senso, e ci rivolgiamo a chi abbia presente la poesia I mari del Sud della raccolta di Cesare Pavese Lavorare stanca, Franco Caprioli è stato l’anti-Pavese: laddove lo scrittore langarolo ha cantato il disincanto, la disillusione, la perdita della poesia che si verifica allorché i sogni vengono bruscamente a contatto con la realtà, e svaporano di fronte alle cose grigie di tutti i giorni, il disegnatore reatino ha celebrato l’inesauribilità del’epos, l’indistruttibilità dei sogni, la persistenza del mondo incanto, facendo appello a Stevenson, a Poe, a Verne, a Twain, a Salgari e a cento e cento altri scrittori dei mari lontani e delle isole perdute, nonché alla sua stessa fantasia e al suo stesso estro poetico, magari imbastendo una storia sulla giovinezza di Giuseppe Garibaldi al tempo della sua guerriglia nel Rio Grande del Sud, e, naturalmente, trasfigurandola con i colori incandescenti della poesia. Perché sia chiaro che Caprioli non si limitava a trasporre, sotto forma di storie disegnate, i grandi romanzi e racconti di soggetto esotico; no: lui li reinterpretava, li ri-creava, li faceva rivivere, li trasformava in una cosa sua, che, pur non nascondendo il proprio debito letterario, viveva di vita propria, e non temeva di presentarsi ai giovani lettori con tutta la freschezza e quasi la sfrontatezza di un ragazzaccio aspro e vorace, affamato di vita e di avventura, come avrebbe detto Umberto Saba.

A chi è più giovane, o a chi, caso strano, pur non avendo più vent’anni, non si è mai perso fra le pagine del Giornalino, smarrendo il senso del tempo e dello spazio per inseguire i sogni di Franco Caprioli, consiglieremmo, per cominciare, dalla lettura di quello che è stato, probabilmente, il suo lavoro più significativo, L’isola Giovedì, apparso nell’ormai lontano 1940 (e ripubblicato da Camillo Conti Edizioni nel 1974), e che don Tommaso Mastrandrea, già direttore de Il Giornalino e autore, a sua volta, di svariate sceneggiature religiose, ha così definito: È l’isola della salvezza, lungamente sognata, dove avrebbe voluto condurre i ragazzi, gli amici. Come per salvarli da un uragano. O se vogliamo, dalle tempeste irrefrenabili degli egoismi umani. Infatti è impossibile separare l’artista Caprioli dalla sua vocazione, dalla sua vocazione di disegnatore "religioso" nel senso più alto del termine: lui, cattolico, non ha mai fatto del cattolicesimo una entità da sovrapporre alle sue storie d’avventura, ma il lievito, la sostanza più intima di esse, nel senso di trasmettere ai giovani lettori, fra le righe del testo e fra le pieghe delle immagini, un qualche cosa d’altro, qualche cosa di più, che non esaurisce la storia nella dimensione puramente immanente: una lezione morale, diciamolo pure a voce alta, dove il bene viene, alla fine premiato, anzitutto dalla voce della coscienza dei protagonisti, e dove il male riceve il suo inevitabile castigo, per una dinamica che gli è propria ed interna e non per una punizione esteriore, piovuta non si sa da dove. Oppure, se non si dispone de L’isola iovedì, si può avvicinare questo artista con uno degli album nei quali, in un secondo tempo, sono state raccolte alcune delle sue storie più belle: per esempio, il volume Racconti di mare, edito dalla Edizioni Paoline nel 1975, e preceduto da una introduzione dello scrittore Vittorio G. Rossi, il quale, di cose marine, se ne intendeva più di chiunque altro, nel nostro Paese. Si tenga comunque presente che il Nostro, pur eccellendo nell’illustrazione delle grandi storie di mare, non era affatto limitato a tale ambito; sapeva illustrare, ad esempio, i paesaggi nevosi della Siberia, nella sua versione di Michele Strogoff, con pari bravura, e sapeva trasportare il lettore nelle atmosfere del Grande Nord con uguale capacità evocativa.

Ecco cosa scrive Vittorio G. Rossi (Santa Margherita Ligure, 8 gennaio 1898-Roma, 4 gennaio 1978) nella citata introduzione, intitolata Il mare di Caprioli (p. 7):

… L’avventura dell’uomo sul mare è stata la più grande e meravigliosa e tremenda e impetuosa avventura dell’uomo. La civiltà dell’uomo si è diffusa nei continenti e arcipelaghi portata dal coraggio, dallo spirito di sacrificio, dalla sovrumana resistenza dell’uomo di mare.

Nei tempi passati la vita dell’uomo di mare era terribilmente dura; non era possibile conservare a bordo per qualche tempo viveri freschi; la navigazione alla vela era lenta e faticosa, piena di privazioni e di rischi.

In terra ci sono i ricordi delle grandi imprese dell’uomo, delle sue grandi battaglie; il mare non conserva la memoria di niente; l’onda passa, e cancella tutto; e di una ave affondata, non resta sul mare che qualche rottame, con qualche corpo di naufrago, e anch’essi scompaiono prestissimo.

Quando noi guardiamo il mare nelle calme giornate dell’estate, dobbiamo ricordarci che quello è un mare provvisorio; poi ci sono i lunghi mesi delle burrasche, c’è la terribile furia del mare; quella che mette sulle facce dei marinai i suoi duri segni: le grandi burrasche, le terribili notti in cui anche una grande nave è piena di schianti e di urli, al cui paragone quelli dei lupi sono un giochetto per bambini.

Le storie di mare che sono raccontate qui, sono grandi storie di mare; esse hanno messo il soffio veemente del mare nello spirito di milioni e milioni di ragazzi. Ed esse sono raccontate qui più coi disegni, che con le parole. La parola è il vero segno di riconoscimento dell’uomo; l’uomo è anche lui un animale; l’uomo mangia, dorme, fa tutte le altre cose che fanno gli animali; ma l’uomo è l’animale che parla. Cioè l’uomo porta in sé il soffio diretto di Dio; infatti l’uomo inventa, crea cose inanimate, cambia l’aspetto della natura; e soprattutto l’uomo ha la parola. La parola fa l’uomo.

I disegni di Franco Caprioli sostituiscono ampiamente la parola; ma anch’essi sono la parola, cioè la parola senza parola; e così l’uomo conserva la sua differenza e il suo primato su tutti gli atri animali.

Caprioli è un grande disegnatore; il suo disegno è vivente, limpido, luminoso; niente resta mai difficile da capire, intrigato e oscuro; solo un grande e poetico artista può fare questo.

Il mare raccontato dai disegni di Caprioli, è il mare; e gli uomini di mare che lui fa con la sua penna e i suoi colori, sono gli uomini di mare come li fa la grande avventura sul mare; cioè con la loro prodezza, il loro sacrificio e la loro paura. Perché anche la paura è un prodotto dell’uomo; e un uomo che non h paura, e se la ricaccia dentro, e la tiene ferma col suo cuore come se la tenesse con le sue mani forti, quello non è un uomo; è un’invenzione o un pazzo.

Capita raramente di vedere il mare i suoi uomini rappresentati con tanta fedeltà e amore.

Forse, il contributo più grande che ha dato Franco Caprioli alla maturazione dei suoi giovani lettori è stato proprio quello visto da Vittorio G. Rossi: la sua capacità di evocare il mistero, il respiro immenso degli orizzonti lontani, e, nello stesso tempo, quella di mostrare ogni cosa con chiarezza e con amore, cioè con spirito didattico, ma non pignolo, non libresco: con quella evidenza del disegno per cui le cose ci si mostrano per quello che sono, senza ambiguità, senza oscurità inutili o minacciose, come invece è venuto di gran moda nel mondo del fumetto, ai nostri giorni, e specialmente del fumetto dell’orrore, grazie ai vari Dylan Dog e Martin Mystére, dove il disegno non chiarisce, ma confonde, e non rasserena, ma inquieta, angoscia e rattrista il lettore. Perché, parafrasando san Paolo (nella Prima lettera ai Tessalonicesi) si potrebbe dire che le opere della luce amano la chiarezza; mentre le opere delle tenebre hanno bisogno dell’oscurità, per meglio nascondere le loro intenzioni. In questo senso, Franco Caprioli è stato anche un vero educatore: perché non aveva nulla da nascondere, non aveva secondi fini, né intendeva l’arte del disegno come uno strumento per vendere tante copie e per fare tanti soldi: no, per lui era una missione, una missione di elevazione intellettuale e spirituale, alla quale si era votato interamente, anima e corpo. Non c’è morte più bella, per un uomo, di quella che lo trova tutto intento nel seguire la sua vocazione: e come alcuni uomini di mare (per restare in tema), al tempo della navigazione a vela, morivano con le mani strette sulla ruota del timore, tutti intenti a portare al sicuro la loro nave con l’equipaggio, magari legati ad essa per resistere alle raffiche del vento nel cuore della tempesta; così Caprioli ha chiuso gli occhi alla vita terrena con la penna in mano, per così dire, mentre stava illustrando uno dei capolavori della letteratura di mare, I figli del Capitano Grant di Jules Verne (la storia sarebbe stata poi condotta a termine da un altro disegnatore "classico" dei fumetti, anche se caratterizzato da uno stile molto più moderno, Gino D’Antonio). Ed è una chiusura della vita che certamente appare coerente con tutti gli anni che l’hanno preceduta, e che non sarà dispiaciuta al Nostro, avendo in sé qualcosa di epico, e sia pure di quella epicità che è ancora possibile nella società massificata e anonima dei nostri giorni.

Ma ancora più nel segno di sembra ch abbia colto don Mastrandrea, quando dice che Caprioli avrebbe voluto condurre i ragazzi e gli amici sull’isola della salvezza, per proteggerli dall’uragano degli egoismi umani. A Caprioli, infatti, piaceva illustrare storie edificanti, nelle quali trionfano l’amicizia, l’amore, il sentimento disinteressato, mentre l’egoismo viene sconfitto dalle sue stesse armi, l’invidia, la maldicenza e la cattiveria. Nella storia Lame incrociate, ad esempio (sempre nel citato volume Racconti di mare), il giovane e cavalleresco corsaro francese Roland viene gettato fuori bordo a tradimento, durante una tempesta, dal suo invidioso e brutale compagno inglese, Stowe,; gettato dal mare sulla spiaggia di un’isola dei Caraibi, viene soccorso da una giovane e graziosa fanciulla, Adaya, la figlia del cacicco del luogo, la quale, per salvarlo dalla condanna a morte che incombe sugli stranieri, cerca l’aiuto dello stregone e non esita a manipolare i serpenti velenosi, come questi le ordina di fare, ottenendo ciò che desidera, senza nulla chiedere in cambio e chiedendo solo al giovane, alla vigilia del commiato: Se puoi, torna. Intanto il malvagio Stowe è giunto a sua volta nell’isola, ma solo per ricevere il meritato castigo: affrontato da Roland in un duello regolare, cadrà sotto la lama del suo fioretto.

Oppure, nella storia Un pugno di perle, ambientata nei mari della Polinesia verso la fine del XVIII secolo, un marinaio scozzese cialtrone e attaccabrighe, Duff, viene abbandonato su un’isola in seguito al fallimento dell’ammutinamento che aveva sobillato; il giovane Eddy, per amicizia, sceglie di dividere il suo stesso destino. In seguito, scoprono che l’isola è abitata da indigeni amichevoli, ma ben presto si vede di quale diversa stoffa i due sono fatti: Duff, ingrato e fellone, cerca di rubare le perle e viene condannato a essere gettato in pasto allo squalo, ma Eddy, per salvarlo, non esita a gettarsi in acqua e ad affrontare la bestia; nemmeno questo serve a far ravvedere il gaglioffo, che schiuma di rabbia perché gli indigeni mostrano stima verso il suo amico e gli regalano le perle che voleva per sé; e arriva al punto d’ingratitudine di minacciarlo con la spada per prendergliele. Alla fine i due si separano, ma senza rancore: Duff tornerà in Europa con le perle mal guadagnate, che Eddy gli ha comunque voluto regalare; questi rimarrà sull’isola, avendo compreso quali sono le cose che contano nella vita: non le ricchezze materiali, ma un cuore puro e una coscienza onesta. Ecco una lezione morale, semplice e chiara, che non può non fare del bene ai giovani lettori, e che trasforma un semplice giornalino a fumetti in una validissima agenzia educativa.

Ne avessimo ancora, di disegnatori come Franco Caprioli, specie di questi tempi: tempi di internet, di giochi elettronici dove vige la legge della violenza e dell’omicidio, e dove i bambini e i ragazzi imparano a indurire il loro giovane cuore, invece d’ingentilirlo, attraverso la scoperta dei sentimenti che rendono la vita più bella: perché la lezione della vita è che, dopotutto, si viene al mondo per amare, e non per odiare.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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