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Enea, personaggio drammatico perché sdoppiato

Chiunque abbia letto l’Eneide, sia pure un po’ superficialmente, non potrà non essere rimasto colpito da una strana e, a prima vista, difficilmente precisabile caratteristica del personaggio di Enea: la sua elusività, la sua segretezza, il suo distacco; un certo qual senso di estraneità rispetto agli altri, che lo proietta in una dimensione tutta sua, fatta di silenzio e riflessione, assai diversa da quella che ci aspetteremmo in un eroe classico e molto più complessa, problematica e "moderna", appunto perché molto più interiorizzata. Si pensi, per fare un confronto, ad Achille, Agamennone, Diomede, Aiace; si pensi anche ad Ettore; e si pensi all’ingegnoso Ulisse, così curioso del mondo da trasformare anche una decennale peregrinazione marittima, impostagli dall’ira di Poseidone per ritardare il suo ritorno a casa, in una continua occasione di scoperte, di meraviglie, di esperienze uniche al mondo, che nessun altro ha fatto, come udire il canto delle Sirene senza con ciò essere votato alla morte: ciascuno di essi si muove entro una sfera assai ristretta, ben definita e piuttosto "primitiva". In fondo, oltre alla gloria e al bottino, e con la parziale eccezione di Enea, che difende la sua città, e di Ulisse, per le ragioni suddette, gli eroi antichi non s’interesano d’altro; e quel che accade loro, lo vivono a un livello alquanto superficiale, nel senso che, per quanto forte sia l’impatto emotivo e anche affettivo (si pensi al dolore lancinante di Achille per la morte di Patroclo) non si traduce mai in una occasione di ripensamento della propria visione del mondo, non modifica sostanzialmente il personaggio, gli scorre sopra e poi lascia che esso si ricomponga secondo le sue linee, precedenti l’evento. In un certo senso, nessuno impara mai nulla, nel significato più profondo della parola; nessuno è capace di rimettere in discussione le proprie certezze, e nemmeno è disposto a farlo. Inoltre, tutti subiscono la volontà degli dei e vi si adattano, assecondandola, o, talvolta, tentando di opporvisi, ma con l’intima persuasione che il destino umano è già scritto e che vano sarebbe sperare di poterlo cambiare. Gli uomini si succedono, una generazione dopo l’altra, e cadono come le foglie degli alberi in autunno: così Omero fa dire da Glauco a Diomede, nel sesto libro dell’Iliade. Sullo sfondo di questo pessimismo e di questo nichilismo cosmico, tutto ciò che possono fare gli eroi è di godersi il loro momento di gloria e inebriarsi al profumo della vita, prima di scendere nel buio, come è destino di ogni essere umano.

Enea non ha nulla a che fare con questo tipo di eroe, e non solo per la sua ben nota pietas, ma per una sorta di malinconia che crea come una barriera invisibile fra lui e tutti gli altri, compresi i compagni (amici, non diremmo che ne abbia: nemmeno il fido Acate; nemmeno il figlio Ascanio; nemmeno il buon re Evandro, o il figlio di lui, Pallante). È come se Enea portasse un peso sulle spalle, invisibile agli altri, ma estremamente reale e gravoso, che lui solo conosce, e che gli vieta di vivere come vivono gli altri, di godere, amare e perfino soffrire come gli altri; un fardello che ispira i suoi atti, che alimenta i suoi pensieri, che disciplina i suoi sentimenti, e ne fa molto più di un capo per la sua gente; ma che non deriva solo, o tanto, dal fatto di essere figlio lui stesso di una dea, ma dall’essere stato chiamato dal Fato a farsi il mezzo indispensabile per la realizzazione dei futuri destini di Roma. Questa è una cosa che viene detta a ogni studente, fin dai banchi della scuola media: Enea è quello che è, perché agisce come lo strumento del Fato; non è padrone della sua volontà, non può fare quello che vuole, non può nemmeno concedersi di amare, riamato, una donna dalle qualità eccezionali, come la regina Didone. Egli è stato chiamato a condurre i Troiani sulle coste del’Italia, alla foce del Tevere, per gettare il primo seme, fondendosi coi Latini, della grandezza futura di Roma, destinata a dominare il mondo e a dare le sue leggi a tutti i popoli, per farli vivere in pace e in sicurezza, sino agli estremi confini della terra. Ne deriva che la pietas è legata inscindibilmente alla sua chiamata; e ne deriva, anche, una singolare scissione. Fra tutti i personaggi del modo antico, quello a cui più somiglia è Abramo. Come al patriarca ebreo, una voce dell’alto ordina di fare ciò che al suo cuore ripugna: ed egli piega la testa e obbedisce. Ora ci resta da vedere e capire quali siano le ragioni profonde di questo sdoppiamento e quali le conseguenze. Certo, il personaggio di Enea è sdoppiato perché il Fato lo vuole strappare alla sua normale condizione di uomo fra gli uomini, cosa che lo pone talvolta in contrasto con se stesso, coi suoi desideri e sentimenti di uomo. Emblematico è il caso dell’amore fra lui e Didone, nel quarto libro. Tutti i critici, o quasi, si sono meravigliati del pochissimo pathos che egli mette nell’accomiatarsi dalla regina cartaginese, nello spiegarle le ragioni della sua prossima partenza; la sua incapacità di addolcire la pillola, di rendere un po’ meno amara la sofferenza del distacco, la cocente delusione di lei, con qualche espressione di dolcezza e con qualche parola di amore che egli, invece, non sa o non vuole pronunciare. Se la cava dicendo che, se dipendesse da lui, resterebbe a Cartagine; ma una volontà più forte della sua lo spinge a salpare verso l’Italia. Tutto qui. E intanto lei soffre, supplica, non sa darsi pace in alcun modo; finirà per suicidarsi, non senza aver prima lanciato contro di lui e contro i suoi discendenti una terribile maledizione. Il fatto è che il personaggio di Enea non può permettersi gesti o discorsi patetici, perché ciò lo renderebbe grottesco: chi ha ricevuto una chiamata dal destino, non può poi scendere a giustificarsi, e nemmeno lamentarsi o recriminare: nel momento in cui ha detto a quella chiamata, ha rinunciato alla propria individualità e si è annullato come io, per rendersi totalmente disponibile alla realizzazione di quel futuro di gloria per i suoi discendenti, che egli non arriverà mai a vedere e che dovrà accontentarsi di anti-vedere, durante il viaggio nell’Averno, sotto la guida della Sibila cumana. Ed è lì che vedrà Didone per l’ultima volta; è lì che la pregherà, ma invano, di fermarsi e ascoltarlo.

Eppure, non si tratta solo di questo; non è solo l’aver detto sì alla grande, misteriosa chiamata, che rende Enea un personaggio lacerato: è anche il fatto che egli si osserva mentre agisce, si valuta mente decide, si giudica mentre fa questa o quella cosa. In lui vi è un uomo esteriore che naviga, combatte, sacrifica agli dèi, interroga i responsi; e un uomo interiore che custodisce in cuore i presagi, le visioni, sa di non poter condividere con nessuno la propria responsabilità e si auto-esclude dalla vita degli altri, dalle loro gioie e dai loro dolori, e perfino dalle proprie gioie e dai propri dolori. Più sacerdote che guerriero, più mistico che uomo d’azione, più uomo della rinuncia che eroe nel senso comune della parola, Enea guida il suo popolo e segue il suo destino come un sonnambulo, o, se si preferisce, come un veggente: come colui che vede ciò che gli altri non vedono, il che lo condanna a un’amara solitudine. Questo, forse, è il tratto più notevole, e anche il più "moderno", di Enea: l’immersione in una solitudine profondissima, quasi inumana, anche quando si trova in mezzo agli altri, anche nei pochi momento sereni, come durante i giochi celebrati durante la stanza in Sicilia, in onore del defunto Anchise. Nessun eroe antico è così solo, come lo è Enea; per trovarne uno che, in qualche modo, gli si avvicini, bisogna andare avanti di secoli e secoli. No, non è don Chisciotte, il quale, sì, nello scudiero Sancio ha, in fondo, anche un amico; e nemmeno Robinson Crusoe, la cui solitudine, benché assoluta, almeno all’inizio, è dovuta a circostanze meramente esteriori, ed è tale solo in senso fisico; forse bisogna arrivare fino al protagonista delle Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij. L’accostamento può sembrare strano, incongruo; eppure, riflettendoci, si finirà per trovarlo meno stravagante di quanto a prima vista potesse apparire. Entrambi gli "eroi" vivono in un isolamento doloroso; entrambi sono scissi; entrambi sono difficili da rappresentare, anche come personaggi, dai rispettivi autori; ma di entrambi il loro autore si è servito per raffigurare un tipo antropologico particolare, che si distacca dalla massa perché sa, o ha visto, qualcosa che gli altri ignorano. Qui finiscono le analogie e incominciano le differenze. L’uno ha "visto" il futuro destino della sua stirpe e del mondo, e si è reso docile strumento di una provvidenza soprannaturale; l’altro ha visto, o intravisto, quel che si cela nel fondo melmoso di se stesso, tra vapori caliginosi e odori nauseabondi, e, soprattutto, ha avuto l’intuizione del nulla su cui si fonda la sua vita, e verso il quale è diretto. L’uno è divenuto estraneo alla vita degli altri per il desiderio di proteggerli, guidarli, condurli alla salvezza; l’altro, perché risucchiato in una spirale di egoismo sempre più cieca. Enea si sacrifica e viene spogliato dei legami con le persone che ama — la moglie Creusa, la stessa regina Didone, e molti compagni che cadono lungo il viaggio, come Palinuro, e poi sul campo di battaglia; l’altro è solo come un cane perché non sa amare, sa solo odiare e invidiare, e respinge da sé, nella maniera più ignobile e meschina, l’unica persona che aveva creduto in lui e che, forse, gli aveva voluto perfino un po’ di bene, la prostituta Liza.

A proposito dello sdoppiamento del personaggio di Enea, ha osservato il latinista Gian Biagio Conte (nato a La Spezia, classe 1941), nel suo Saggio di interpretazione dell’Eneide. Ideologia e forma del contenuto, in Virgilio, il genere e i suoi confini (Milano, Garzanti, 1984, p. 89 e sgg., passim; cit. in: Maria Belponer, Epica antica, Milano, Principato, 1993, pp. 441-443):

Enea che, evolvendosi, trapassa da una propria soggettività alla verità oggettiva, è però solo l’illusione di chi articola in successione cronologica le opposizioni logiche insite nel personaggio. Di fatto nel protagonista virgiliano sii incontrano due diverse funzioni contestuali: cioè egli risponde a un DOPPIO STATUTO LETTERARIO. Egli rappresenta, come ognuno dei personaggi dell”"Eneide", un punto di vista soggettivo che lo individua; ma rappresenta insieme la volontà del Fato di cui è portatore. La funzione soggettiva che abbiamo sopra attribuito ai personaggi convive in Enea con la funzione oggettiva della Verità cosmica e storica, con cui si scontrano e su cui si misurano le singole verità individuali. Enea è così personaggio e non-personaggio: la sua posizione semantica nel testo è (a seconda della sua funzione) per certi aspetti relativa, per altri assoluta. Ed è solo questa faccia di verità assoluta, o meglio oggettiva, che egli mostra ed oppone ai punti di vista relativi dei personaggi. […] Nella sua funzione di oggettività egli è dalla parte del Fato — e del poeta che del Fato narra la realizzazione. Ma identità di funzione non significa identità di conoscenza; se come protagonista epico Enea segue il poeta la rivelazione del Fato, come personaggio non ne possiede la medesima conoscenza. Nasce allora un dislivello tra funzione e coscienza personale: Enea potrà realizzare la sua tensione verso lo "status" di personaggio solo nelle intermittenze di quella sua funzione epica oggettiva: sarà personaggio là dove non può essere il protagonista, l’elemento dinamico della narrazione (situazione paradossale che imprime sul testo dell’"Eneide" la sua duplicità, e finisce anche per rendere conto delle tante oscillazioni della critica). Il poeta — testimone onnisciente — affida ai destini stessi di Roma, che il Fato vuole incrollabile e potente per sempre, il valore di queste morti immature. Egli stesso, dando la propria voce al senso positivo del Fato, si rivela coscienza oggettiva del poema. Il poeta àncora il suo intervento a questa oggettività: anzi la crea egli stesso fondandola sulla propria onniscienza, del tempo futuro (degli eventi che nasceranno da questa giovane morte: "Turno tempus erit…", 10, 503 ss.) e del senso ultimo delle cose. […]

Il doppio statuto letterario che governa la figura di Enea, e ne indirizza le reazioni, prevede anche la funzione opposta. Il depositario della volontà costruttiva del Fato può anche mostrare di colpo la sua faccia nascosta, quella personale, segnata dall’incertezza e dal dubbio (ma può mostrarla solo a se stesso). Il testo dà spazio a questa funzione soggettiva nella misura in cui la realizza come "punto di vista": ed Enea allora non è molto diverso dagli altri personaggi e risulta portatore di una visione soltanto relativa. Si è già visto come nel sistema di significazione del testo la relatività delle singole visioni entra necessariamente in conflitto con l’assoluta verità del fato (il quale, peraltro, sottraendosi al rischio della verifica, lascia cadere le loro istanze drammatiche). Ma se per le altre visioni relative l’affermazione di sé conduce ad un’estrinsecazione violenta e ad uno scontro portato all’estremo […], la contraddizione di Enea-personaggio col Fato non può che insediarsi al suo interno. Il conflitto che si genera è allora interno al soggetto; la possibilità di esplicazione drammatica — che già negli altri soggetti, si è visto, conosce solo la forma immobile di una "dialettica negativa" — qui risulta ancora maggiormente compressa e frammentata. Lo spazio chiuso in cui viene costretta è quello dell’io riflesso che non può portarsi al di fuori (altrimenti Enea tradirebbe definitivamente la sua missione: sarebbe sì personaggio, ma non protagonista epico). Ecco allora che anche la "forma drammatica superficiale", concessa all’estrinsecazione degli altri personaggi, subisce una riduzione: manca quasi sempre ad Enea il gesto apertamente patetico e si accentua invece l’isolamento riflessivo. Interiorizzato, il conflitto si fa esitazione e dubbio; più che una contraddizione si insedia nell’animo di Enea l’incertezza dinanzi a ciò che già è deciso, è più il bisogno di una conferma che il proporsi di una scelta problematica. Né d’altronde per lui esiste un reale spazio di alternativa e decisione: se è il Fato che guida le cose del futuro (ed Enea deve saperlo meglio di chiunque altro), resta solo lo spazio per incertezze momentanee e vincolate ai punti inerti dell’azione epica (ed essi segue infatti una epifania della divina volontà del Fato). Enea, in quanto personaggio — punto di vista relativo — può ritrovare la sua posizione soggettiva solo cercando per sé una posizione distinta da quella del Fato. E se la parte di sé che rappresenta l’assoluto guarda al futuro, l’altra, la dimensione soggettiva, deve ritirarsi e volgersi al passato. Se accettasse di cercare nel futuro strade diverse da quelle volute dal Fato, Enea tradirebbe la sua stessa elezione, vivrebbe soltanto una vita che assomiglia ai suoi ricordi, quale era possibile solo prima della chiamata dall’alto. La duplice funzione che la figura dell’eroe trova nel testo, corrisponde, se proiettata sull’organizzazione del tempo, al contrasto fra due dimensioni: l’avvenire, cui tende l’azione del Fato, e il passato, che è l’unico possesso proprio di Enea-personaggio. Ma l’eroe-agente per farsi protagonista […] deve spogliarsi della funzione soggettiva che lo rende personaggio; e la memoria del passato — sguardo privato volto all’indietro — contrasta col senso del Fato. Confinata ai margini dell’azione epica, non mai cancellata ma neppure accordata al disegno costruttivo del poema, la memoria resisterà come rimpianto. Essa è il segno del sacrificio che Enea-personaggio — non diversamente, in questo, da ognuno dei soggetti cui il poeta concede una voce e uno sguardo sul mondo — deve subire. Anche Enea paga il suo prezzo all’ideologia della norma epica romana: egli si carica del peso che essa gli impone quando da individuo eroico lo fa popolo, assegnandogli le proprie pretese di assolutezza e di totalità. La "pietas" di Enea potrebbe essere vista, se mi si concede, in termini di ossimoro come insensibile sensibilità, ossia una partecipazione al dolore di personaggi perduti o vinti durante il cammino, ma al tempo stesso un vietarsi ad essa in nome del valore della meta da raggiungere. L’apparenza "passiva" di Enea, che fa tutt’uno con la sua pensosità, nasce strutturalmente dall’alternarsi (in sistole e diastole) di pause di riflessione sul proprio itinerario e dalla decisione teorica e pratica di spingersi avanti: è l’abito costante che accompagna l’agire, ora che l’orizzonte della responsabilità dell’agire si è allargato a dismisura.

Abbiamo detto che Enea è sdoppiato fra colui che agisce e colui che osserva l’agire; aggiungiamo e precisiamo che Enea è scisso non solo in due, ma in tre: il terzo è quello che incessantemente interroga gli dei per avere i loro responsi, per sapere che fare, dove volger la prua delle navi, quale sia la meta del viaggio — che non gli viene rivelata subito, ma solo dopo una serie di tentativi e di errori – e se deve sposare la figlia di Latino, e combattere contro Turno, oppure no. Ma gli dei tacciono, o rispondono in modo evasivo, insufficiente. Ciò dipende dalla concezione religiosa degli antichi, che, fin dall’epoca di Omero, vedono il Fato come una forza superiore a quella degli stessi dei. Ma Virgilio, ormai sulle soglie dell’era cristiana, vi aggiunge, con la sua squisita sensibilità, un elemento nuovo: la sofferenza per il silenzio degli dei, soprattutto riguardo alla grande questione — che è anche la grande questione di Dostoevskij — della sofferenza degli innocenti. Perché tanto dolore è necessario per realizzare il fine voluto dal Fato? Perché tante giovani vite vengono recise come i fiori sotto la falce del mietitore? Perché è necessaria la morte di Eurialo, Niso, Pallante, Lauso e Camilla, tutti giovani nel fiore degli anni? E chi darà una risposta al grido d’angoscia della madre di Eurialo, quando le si palesa la terribile verità della morte del suo unico, amatissimo figlio Virgilio non ha una risposta a questi interrogativi, ed Enea meno ancora. Qui non c’è contrasto fra ciò che sa l’autore e ciò che sa il personaggio; sial’uno che l’altro ignorano il mistero del bene e del male. Sanno solo che la storia è fatta di lacrime — sunt lacrimae rerum — e che agli uomini sono date due sole possibilità: assecondare i voleri del Fato, contribuendo alla costrizione del destino, oppure rifiutarsi, ma sapendo che non servirà a nulla. I giovani moriranno lo stesso, le città verranno prese col tradimento e incendiate, le madri piangeranno straziate la perdita dei figli. Solo il cristianesimo giungerà a dare una risposta, sia pure indiretta, al terribile mistero del male e del prezzo che il bene richiede per affermarsi: mostrando il Sacrificio di Cristo sulla croce. Il pagano Virgilio è arrivato vicinissimo alla risposta: gli mancava il contenuto positivo della Rivelazione, ma si è spinto più avanti di chiunque, intuendo, in qualche modo inesplicabile, il mistero della divina Provvidenza…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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