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L’imbecille benintenzionato, flagello dell’umanità

Un flagello si aggira ovunque e imperversa, da sempre, in estate e d’inverno, in città e in campagna, negli uffici e nelle scuole, nei conventi e nelle caserme, di giorno e di notte, con il sole e con la grandine: l’imbecille pieno di zelo e di buone, anzi, di ottime intenzioni, traboccante di amore e di compassione, di solidarietà e di altruismo. A parte la bomba atomica, il tifo petecchiale e la caduta, di tanto in tanto, di un grosso meteorite sul pianeta in cui viviamo, egli rappresenta, senza paragone, la peggiore sciagura che possa infuriare nella società, nonché la più pericolosa tentazione per le anime, ispirando loro, perfino in quelle più miti e pacifiche, sentimenti di avversione molto vicini all’odio e al desiderio di omicidio. Le loro buone intenzioni rendono costoro saccenti, indiscreti, invadenti, petulanti, insopportabili nella loro feroce presunzione di aver capito tutto, valutato tutto, giudicato tutto, assai meglio degli altri, a cominciare proprio da quelli che, con le situazioni di cui s’interessano (a parole), sono impegnati da anni e ne hanno ampia esperienza; e inoltre la loro imbecillità li rende rozzi, grossolani, maldestri, seminatori di discordia, di sospetti, incomprensioni e inimicizie. È poco carino da dire, ma la verità è che il mondo starebbe assai meglio senza di loro. Senza di loro e senza la loro imbecillità ottimamente intenzionata.

Le persone sagge, responsabili, sensibili, stanno lì a soppesare, a spaccare il capello in quattro per interrogare la loro coscienza, chiedendosi se hanno fatto abbastanza, se non potevano fare di più e se non potevano fare meglio; l’imbecille bene intenzionato invece no, non conosce simili scrupoli, tanto più che non rivolge mai le sue prediche a se stesso, ma sempre ed esclusivamente agli altri; è agli altri che distribuisce i suoi consigli non richiesti, che s’impegna con tutta la sua (sciagurata) buona volontà, per illuminare loro il cammino, per guidarli e confortarli, non importa se aggravando il loro malessere esistenziale, moltiplicando i loro sensi di colpa, o rimproverandoli per cose delle quali si rimproverano già anche troppo, e, il più delle volte, completamente a torto. L’imbecille pieno di buone intenzioni non applica mai a se stesso le proprie perle di saggezza, i propri consigli trasudanti buonismo: li rivolge agli altri, gratuitamente, ritenendo di avere una sacra e ineludibile missione da svolgere: quella di dire la verità, e, nello steso tempo, di consigliare, indirizzare, mostrare agli altri ciò che essi, da soli, non riescono a scorgere. Non succederà mai che un individuo di questa fatta diventi troppo esigente con se stesso: è completamente assorbito a esserlo con gli altri, in nome di una "verità", di una "virtù" e di una "carità" puramente astratte, e per le quali egli si è auto-nominato giudice, consigliere, avvocato ed esecutore; preso nel turbine di così tanti impegni da assolvere, di così tanto bene da distribuire, non gli avanza tempo per martoriare se stesso. Si accontenta, perciò, di martirizzare gli altri; e vi trova ampie soddisfazioni morali, tali da gratificarlo a sufficienza perché il brav’uomo non demorda, ma persista imperterrito, un giorno dopo l’altro, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, senza stancarsi, fino alla fine dei suoi giorni. Poi, al momento delle esequie, i suoi conoscenti (superficiali) si profonderanno in lamenti per essere stati orbati di una presenza così "umana", così piena di sollecitudine, così attivamente interessata ai bisogni di tutti. E il sacerdote, nella omelia funebre, in mezzo ad un mare di ciglia umide e di gente che tira sul col naso per trattenere la propria esulcerata commozione, lo paragonerà ad un eroe quotidiano, a un benefattore della strada, e, forse, poco meno che ad un Angelo mandato da Dio per alleviare la fatica del vivere in questa valle d’esilio. Chi lo conosceva un po’ meglio, non condividerà tali sentimenti, ma farà bene a tenere per sé le proprie opinioni: esprimerle a voce alta, e sia pure con tutto il rispetto e la delicatezza di questo mondo, sia pure "a freddo", cioè a una adeguata distanza di tempo dal triste giorno dell’addio, equivarrebbe a sputare sulla tomba della propria madre. Una cosa semplicemente inaudita, una cosa assolutamente ignobile, della quale solo un barbaro o un demente sarebbero capaci di macchiarsi, non certo un essere umano degno di questo nome.

La tecnica di cui si serve il solerte imbecille è quella di sentirsi toccato dal destino altrui e di voler fare qualcosa per renderlo migliore; pertanto egli si investe del ruolo di benefattore del genere umano, di psicologo che ha visto e compreso le cause della sofferenza, di assistente sociale che vuole provvedervi, di moralista che riconduce le persone al loro dovere, affinché possano trovare la pace e la serenità. Se è un credente, si investe anche della parte di Messo del Signore per indicare al prossimo la volontà di Colui che lo ha mandato, il che lo autorizzerà a rimuovere ogni paletto di umano riguardo, ogni limite di umana considerazione, spingendosi sempre più in là, nei modi e nei contenuti, simile ad un profeta dell’Antico Testamento, del quale assumerà volentieri, se non proprio il linguaggio, il tono apodittico e più o meno apertamente minaccioso. Perciò egli è quanto mai prodigo di suggerimenti non richiesti e non si domanda mai, neppure se qualcuno vi conduce appositamente la sua attenzione, se essi siano opportuni, pertinenti, utili: se c’è un dubbio, infatti, che non lo sfiora mai, e che mai lo potrà sfiorare, per la sua rocciosa costituzione psichica, è quello di poter non essere utile, o, addirittura, di riuscire molesto e dannoso. Al contrario, egli ama vedersi come la personificazione della medicina apportatrice di guarigione, la quale, benché amara, forse (forse, intendiamoci: per puro amore d’ipotesi!), sul primo momento, nondimeno si rivela di vitale importanza, e il malato, dopo averla sorbita, confessa immancabilmente di dovere ad essa il fatto di essere ancora nel numero dei vivi. Vedrà che un giorno mi ringrazierà!, è la sua frase preferita, che egli distribuisce, gratuitamente e generosamente, a destra e a manca; e al suono di essa egli stesso si culla, si auto-ipnotizza, finisce per ritenersi realmente indispensabile, realmente benefico, realmente meritevole di ogni elogio, o meglio, superiore ad ogni elogio. Si gratifica da sé pregustando il momento in cui gli altri diranno, pensando a lui: Aveva proprio ragione! Che sia benedetto l’Angelo del Signore che lo ha messo sulla mia strada; e che sia benedetto il momento in cui ho avuto l’immensa fortuna d’incontrarlo, di ascoltare le sue parole e di metterle in pratica! L’ipotesi contraria, cioè quella di poter suscitare fastidio, irritazione, e, soprattutto, di non essere per niente di beneficio, ma di aggiungere un ulteriore fastidio a chi, magari, ne ha già fin troppi, non si affaccia mai, assolutamente mai, al suo cervello. Il suo cervello è fatto così: contempla in continuazione lo spettacolo degli errori altrui, ma si auto-esclude preventivamente dalle eventualità di poter essere, come tutti gli altri, soggetto all’errore, sia nel giudicare, quanto nell’agire. Ed è logico che sia così; altrimenti, non si spiegherebbe il suo zelo instancabile nel farsi avanti, nel voler distribuire al prossimo lezioni gratuite di morale e di vita vissuta, e nel sentirsi così pieno di amore per tutti, da non poterli privare del suo prezioso interessamento.

Sorge perciò la domanda: come difendersi da un simile flagello? In che modo mettersi al riparo, almeno parzialmente, dalle sue untuose zampate di simpatia e umana solidarietà, dai suoi belati nei quali proclama: Io ti voglio bene, è per questo che ti parlo? E cioè, come fare a difendersi senza picchiarlo, senza sparargli e senza mandarlo mille volte al diavolo, come meriterebbe ampiamente? Infatti, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa: e chi mai oserebbe macchiarsi le mani di un delitto così nefando? L’imbecille benintenzionato, per definizione, è doppiamente protetto: dal fatto di essere pieno di buone intenzioni verso di voi e anche dal fatto di essere un imbecille, e, come tale, palesemente irresponsabile. Reagire male alle sue profferte d’interessamento, quantunque saccenti, sarebbe, dunque, perfino più grave che sparare sulla normale Croce Rossa: sarebbe, più o meno, come sparare contro un’autoambulanza della Croce Rossa su cui prestassero servizio, in qualità di volontari, degli handicappati. Il problema, in fondo, è proprio questo: si tratta di persone che dicono di voler fare il bene del prossimo, ma, in realtà è il proprio bene che perseguono incessantemente: quando distribuiscono le loro ineffabili verità, quando suscitano scrupoli, quando instillano sensi di colpa, non lo fanno perché siano davvero interessati al benessere altrui, ma perché ciò li fa stare bene, in una misura inversamente proporzionale allo stare male degli altri. In effetti, essi non mirano a essere d’aiuto al prossimo, ma a se medesimi; e, per sentirsi bene con se stessi, hanno bisogno di mettersi in alto, in cima ai loro saggi consigli, mentre gi altri devono stare in basso, talmente in basso che, da soli, non saprebbero mai fare la cosa giusta, se non che, per fortuna, passano loro di lì per caso, o meglio per decreto della divina Provvidenza, e intervengono con tutto l’ardore e con tutta la sollecitudine di un cuore magnanimo e di un animo liberale.

È dunque perfettamente inutile mettersi a discutere con loro, tentar di ragionare, provare a convincerli con argomenti razionali: nessun ragionamento li potrebbe, non diciamo smuovere, ma neppure minimamente scalfire; loro sono talmente in alto, e noi tutti siamo talmente in basso, che nulla di quanto potremmo dire, nemmeno se fosse la più lampante verità (anzi, specialmente se fosse la più lampante verità!), li potrebbe mai toccare, né poco, né tanto: sono dei soggetti malati, patologicamente incapaci di autocritica e spinti a parlare, a intromettersi, a debordare in maniera compulsiva, incontenibile. Così come il piromane non può attraversare un bosco senza provare l’impulso struggente di appiccare il fuoco agli alberi, e come il cleptomane non può entrare in un negozio di argenteria senza essere straziato dall’ardente brama di mettersi in tasca almeno qualche oggetto prezioso, allo stesso modo l’imbecille benintenzionato è assolutamente incapace di passare vicino al prossimo senza essere afferrato dal demone del suo buonismo e della sua cubitale imbecillità, e senza sentirsi spronato, addirittura morso e frustato a sangue, dall’incoercibile bisogno di darsi da fare, con la lingua (mai con i fatti, si badi), per alleviare i problemi altrui, per sistemare le faccende intricate, per porre rimedio alla cecità del prossimo, lui che ci vede così bene, con la sua vista d’aquila, alla quale non sfugge nemmeno il battito d’ali di un passerotto a dieci chilometri di distanza.

Che fare, allora, visto che discutere è inutile, e che non esistono isole abbastanza lontane e abbastanza deserte, che uno di questi flagelli viventi non possa, un bel giorno — cioè, un bruttissimo giorno — arrivare fino a noi, in un modo o nell’altro, a turbarci, a irritarci, a esasperarci, versando il sale della sua colossale stupidità sulle piaghe che già ci procurano lancinanti dolori? Infatti, se pure appendessimo un cartello sulla porta di casa nostra, con l’ammonimento: Qui non sono graditi gli appestati, i delinquenti e gli imbecilli bene intenzionati, sicuramente l’imbecille bene intenzionato, a differenza dell’appestato e del delinquente, non penserebbe, nemmeno per un istante, di poter appartenere a una siffatta categoria, e, quindi, non dubiterebbe affatto, bussando alla porta o suonando il campanello, di fare un cosa sgradita, di contravvenire a un nostro dichiarato desiderio, nonché di calpestare un nostro legittimo e sacrosanto diritto: quello di ammettere in casa nostra solo le persone che noi decidiamo di far entrare. No: il buonista bene intenzionato sarebbe capace di buttare giù la porta, o d’infrangere il vetro per introdurre la mano fino alla maniglia, o magari di arrampicarsi sopra il tetto, e penetrare in casa attraverso la canna fumaria, se ritenesse, a suo insindacabile giudizio, che noi abbiamo bisogno di lui, e che esiste una situazione di necessità, di disagio, di sofferenza o di pericolo, per la quale lui, e solamente lui, è capace di fare qualcosa, di potare una soluzione, o, come minimo, di recare un apprezzabile sollievo. Se proprio non riuscisse ad entrare, sarebbe capacissimo di chiamare i pompieri, la protezione civile, i carabinieri o magari l’esercito, asserendo che gli inquilini sono in grave pericolo; dopo di che, una volta fatta irruzione e giunto fino a voi, egli si giustificherà (ma giustificarsi è un verbo troppo impegnativo, nel senso che suggerisce una ammissione di responsabilità che è lontanissima dalla sua coscienza) asserendo, in perfetta buona fede, che nessuno può esimersi dal dovere di aiutare il prossimo, anche se non ne è stato richiesto.

C’è una sola difesa possibile, di fronte a questi invadenti e dannosissimi personaggi che ci vogliono opprimere, soverchiare, schiacciare sotto quintali di falsa bontà e di vera imbecillità: non prestare loro la benché minima attenzione. Non si può fuggire; non si può schivarli; non si può farli ragionare; e, purtroppo, non li si può nemmeno prendere a schioppettate, o almeno a legnate, come meriterebbero ampiamente: se non altro perché sono talmente numerosi, che, dopo aver assestato una buona lezione al primo, subito si farebbe avanti, ovviamente non richiesto, né chiamato, un secondo, e poi un terzo, un quarto, un quinto, eccetera, in una processione letteralmente senza fine. Perciò non resta che ignorarli. L’unica difesa è quella di lasciare che le loro parole ci entrino da un orecchio, e – come si dice – ci escano fuori dall’altro, senza lasciare dentro di noi la benché minima traccia. Se incominciassimo a rimuginare sulle loro parole, sarebbe finita; e quanto più noi fossimo, per caso, delle persone scrupolose, sensibili, coscienziose, tanto più il loro pungiglione penetrerebbe in profondità. No: la sola risposta possibile, davanti a costoro, è andare avanti come se non ci fossero. Lasciamoli pure che parlino, visto che ci tengono tanto; ma come se parlassero al vento…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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