Il profumo della carità del beato Luigi Tezza
11 Agosto 2017
Suffragio universale o Menzogna universale?
13 Agosto 2017
Il profumo della carità del beato Luigi Tezza
11 Agosto 2017
Suffragio universale o Menzogna universale?
13 Agosto 2017
Mostra tutto

Nasce da un empio sghignazzo la cultura moderna

La cultura moderna, se proprio vogliamo fissarle una data e un luogo di nascita, vede la luce nel 1532 a Lione, con la pubblicazione, da parte dell’editore François Juste, del primo libro di un’opera in cinque parti, Gargantua e Pantagruel, i cui libri successivi sarebbero usciti nel corso del trentennio seguente. L’opera (a parte la quinta parte, per la quale esistono problemi di attribuzione) è stata scritta da Mastro Alcofribas Nasier, anagramma del vero nome dell’autore, François Rabelais, un ex francescano sospettato di eresia e uscito dall’ordine, salvo poi indossare disinvoltamente il saio benedettino e infine quello, a lui più consono (e più comodo) di prete secolare. Ma nonostante i trascorsi burrascosi e perfino la messa all’Indice del suo libro, nonché la solenne condanna da parte della facoltà di Teologia della Sorbona, nessuno s’immagini un povero Rabelais ferocemente perseguitato dalla Chiesa intollerante e bigotta, e costretto magari a nascondersi per evitare chissà quali terribili conseguenze della sua empietà. Beniamino di assai potenti personaggi ecclesiastici, come il vescovo d Maillezais in un primo tempo, poi dello stesso vescovo di Parigi, Jean du Bellay, Rabelais non solo non ebbe alcun problema con le autorità della Chiesa, ma fu a Roma col Du Bellay e viaggiò per l’Italia in lungo e in largo, esercitando sia nel nostro Paese, sia in Francia, la professione medica, per la quale si era abilitato.

Questo è un tratto caratteristico della cultura moderna, di cui Rabelais può essere considerato il padrino, e Garguantua e Pantagruel l’opera paradigmatica: la sconcertante disinvoltura, per non dire la faccia tosta, con cui un intellettuale che si gabba della religione e della Chiesa, entra ed esce a suo piacere dai conventi, mette e toglie la tonaca di frate come se nulla fosse, si crea una solidissima posizione professionale e si procaccia una invidiabile sicurezza economica proprio all’interno della istituzione da lui tradita e derisa, e proprio con la ferrea protezione dei suoi pastori. E cosa c’è di più comodo, più simpatico, di più piacevole, che dissacrare proprio quel mondo di cui ci si fa beffe, e sulla cui derisione e critica feroce, spietata, distruttiva, si costruisce la propria notorietà di scrittore? Prendiamone nota: la strada segnata da Rabelais sarà meravigliosamente seguita da legioni di uomini disinvolti, o cinici, comunque incoerenti e senza amor proprio, senza dignità, che non esitano a farsi spesare e mantenere da quelle istituzioni che disprezzano e che additano al ludibrio generale, sia pure dietro la maschera ipocrita di un riso buffonesco (e, appunto, gargantuelico). Perché il buffone, si sa, non porta pena: è un po’ matto, e sarebbe politicamente scorretto prendersela con lui, offendersi per le sue facezie: sarebbe un po’ come sparare sulla Croce Rossa, una cosa che non sta bene. Lui, l’intellettuale moderno, non ha di questi scrupoli: lui può sporcare, insozzare, deridere e svilire in ogni modo ciò che gli procura il pane quotidiano; che volete, lui è un uomo solo, e deve essere accorto, perché un uomo solo non può lottare contro una possente istituzione, in questo caso la Chiesa cattolica. Dunque, per lui è lecita la tanto deprecata doppia morale (quando a seguirla sono gli altri) e sputare allegramente nella mano che gli dà di che vivere o che lo agevola nella carriera e gli apre le porte dei salotti che contano. Le orme di Rabelais saranno seguite da un esercito infinito che continua ai nostri giorni e che, non che mostrare segni di esaurimento, s’ingrossa sempre più: per esempio, da quelle migliaia e migliaia di professori di liceo e di università che fomentano i loro studenti a un atteggiamento di disprezzo, di supponenza e di derisione nei confronti di tutti i valori sui quali si regge la società, e che, non paghi di tale opera di devastazione pedagogica (cioè, anti-pedagogica), se la prendono continuamente con la scuola e con l’università stesse, ne parlano male, malissimo, salvo poi riscuotere ogni mese il loro bravo stipendio, sicuro, sicurissimo, anche in tempi di crisi, e anche se l’insegnamento, per loro, non è poi quella gran passione che si potrebbe immaginare, visto che è per loro, in effetti, un secondo lavoro, esercitato a margine della loro vera attività d’ingegneri, o di architetti, o di medici, magari di primari d’ospedale. Figli, materiali o ideali, del ’68, pieni di furori rivoluzionari e corruttori di generazioni di giovani,: però con il conto in banca e la pensione assicurata, proprio da quello Stato borghese che essi odiano, proprio da quella istituzione scolastica che aborriscono, e che dipingono come arretrata, inetta, troglodita, inutile e parassitaria.

Ma torniamo a Rabelais. Chi è, dunque, Gargantua, il protagonista della sua irriverente, dissacrante epopea? È un gigante, figlio del gigante Gargantua: è un fratello ideale di Morgante e di Marugutte del nostro Luigi Pulci. Il titolo completo della prima parte recita così: Les horribles et espoventables faicitz et prouesses du très renommé Pantagruel Roy des Dipsodes, filz du Grand Géant Gargantua, che vuol dire: Gli orribili e spaventosi fatti e prodezze del molto rinomato Pantagruel re dei Dipsodi, figlio del gran gigante Gargantua. Lasciamo perdere l’aspetto linguistico del romanzo, che pure è importantissimo — qualcuno ha detto che il linguaggio è il vero protagonista dell’opera, e forse è vero — perché qui non ci interessa l’aspetto letterario, bensì quello ideologico. Vogliamo capire in che cosa quest’opera ha aperto decisamente la stagione della modernità, in che cosa Pantagruel è l’eroe moderno per eccellenza, anche se ancora nella sua prima giovinezza (poi ne verranno altro, più maturi e pensosi, da Robinson Crusoe a Faust, o anche più miseri e scalcagnati, come Leopold Bloom o l’Agrimensore K.). Pantagruel è un essere che gode in assoluta libertà di tutte le gioie dell’esistenza, più che altro in senso strettamente fisico e materiale, e che manifesta la sua gioia di vivere nel riso: un riso sfrenato, incontenibile, che vorrebbe essere esplosione di un istinto naturale e positivo, ma che ha, per un certo verso, qualcosa d’inquietante, come se, per lui, nulla vi fosse di serio, e tanto meno di sacro, nella vita umana e nella stessa condizione umana; come se tutto non meritasse altro che una risata, una sghignazzata, un cachinno. E questo è terribile, è spaventoso: è qualcosa d’inumano, che in nessun modo si può far passare per una lieta e serena gioia di vivere. I critici banali e conformisti della vulgata dominante, intellettualmente disonesti, come è logico fanno a gara nel parlare di allegria, di sana e spontanea allegria (e sia pure un po’ rozza, un po’ epicurea, come si addice a un clima di edonistico abbandono): ma è evidente che non è così; e basta chiedersi cosa penseremmo di un nostro congiunto, di un nostro amico, il quale, davanti ai casi della vita, lieti e no, non sapesse celebrarli meglio che con continue, incessanti, fragorose risate. Penseremmo che soffre di un gravissimo disturbo mentale, lo solleciteremmo a farsi visitare da uno psichiatra, soffriremmo e (se credenti) pregheremmo per lui, per la sua anima immortale, disturbata da qualche potenze malefica, se non proprio infernale, che imperversa liberamente dentro di lui, stravolgendo una creatura di Dio in un eterno dissacratore e derisore di tutto e di tutti. Con Umberto Eco, quello del Nome della rosa, i critici conformisti vedono nella risata una sana e gioiosa rivolta contro i formalismi, le costrizioni, le artificiosità della cultura scolastica e specialmente del tomismo, ma, più in generale, della visione medioevale e cristiana della vita. E forse hanno ragione, beninteso dal loro puto di vista: perché, per il cristiano, la vita una cosa seria, in quanto viene da Dio, e il riso non è affatto qualcosa d’indegno, ma non può essere di certo il normale atteggiamento esistenziale; mentre per loro la vita è una buffonata, perché viene dal caso e corre verso il nulla: perciò essi dissimulano la loro segreta angoscia e la loro disperazione dietro la maschera dello sberleffo e della satira a tutto campo. E se la vita è una buffonata, allora ha ragione Pantagruel: non val la pena di rovinarsi il fegato con pensieri seri, e con le degne azioni che ne sono il frutto; tutto quel che merita di fare è mangiare, bere e ridere a crepapelle.

Ecco cosa dice, in proposito uno di codesti critici politicamente corretti, che però non si firma, autore della Guida alla lettura inserita a corredo del Gargantua e Pantagruel nella traduzione di Gildo Passini (Novara, Edipem, 1974, vol. 1, pp. 6-7):

Uomo del Rinascimento e, insieme a Montaigne, deciso liquidatore dell’eredità del Medioevo, Rabelais non è soltanto il primo dei grandi scrittori moderni di lingua francese, ma anche uno dei primi esempi di un unico grande libro, a cui dedica tutta la vita, in esso riversando la propria multiforme esperienza di uomo pratico e di instancabile viaggiatore ed osservatore, nonché il ricchissimo patrimonio spirituale di uno studioso aperto ai più vari interessi. Enciclopedia giocosa e ribalda, "summa " violentemente antiteologica ed epopea buffonesca, il testo principe di Rabelais racchiude e rivela inequivocabilmente l’autobiografia più vera dell’autore, il tono stesso della sua voce di poeta, la storia delle sue mille avventure spirituali, oltre ad essere un compendio, esatto quanto fantasioso, della cultura dell’epoca. […]

Il giovane Pantagruel, dopo aver studiato a Poitiers (cap. V) fa il giro delle più importanti università francesi e finisce a Parigi, nel quartiere latino, dove incontra Panurge, un briccone di studente che diventerà il suo fedele compagno (cap. XV). Richiamato dal padre nel regno di Utopia, conquistato dai Dipsodi, dopo molte strabilianti imprese sconfigge i nemici. Su un canovaccio popolare e tradizionale, Rabelais, uomo di lettere, cui sono ben presenti i giganti del Pulci e del Folengo (Morgante e Fracasso) richiama sul tema una serie di prodigiose variazioni linguistiche, inventa una folla di personaggi secondari, riempie il quadro di infiniti particolari realistici (la vita degli studenti) e scocca i primi dardi avvelenati contro la cultura ecclesiastica ufficiale. Il catalogo della biblioteca dell’abbazia di Saint Victor (cap. CVII) è costituito da una lunga serie di titoli ridicoli che mettono alla berlina le opere dei teologi scolastici.

Troppo facile, troppo semplice, caro messer Rabelais: come è troppo facile e comodo, per la ragazzina superba della sua giovinezza, sghignazzare in faccia alla donna anziana che tenta di apparire ancora piacente, nonostante il carico degli anni. Anzi, peggio: perché qui la donna anziana, il Medioevo, è la madre della ragazzina: e dileggiare la propria madre è cosa non solo biasimevole, ma abietta. Il tanto vituperato Medioevo ha creato quelle università in cui Rabelais ha studiato; ha creato quella Chiesa che gli ha permesso di far carriera; ha creato quella spiritualità che ora lui può prendersi il lusso di sbeffeggiare, ma senza la quale né lui, né l’Europa sarebbero diventati quel che sono diventati. Com’è banale, come è infinitamente superficiale il progressismo: disprezzando le proprie radici, esso mostra di non aver capito nulla della storia, della civiltà, e perfino di se stesso. Ma Rabelais non è un progressista qualsiasi: egli appartiene a quel particolare tipo di progressista che non argomenta, ride; che non discute, sghignazza; che non dimostra: sfotte. È il Dario Fo del XVI secolo, in tutto e per tutto, persino nel linguaggio, che trasforma in un continuo fuoco d’artificio per divertire il suo pubblico: un pubblico di persone banali e superficiali come lui, che deridono ciò che non capiscono, e sghignazzano su coloro ai quali non son degni di allacciare i calzari. La satira alla Dario Fo presenta questo vantaggio: che senza fatica, senza un argomento, senza un ragionamento al mondo, consente a chi la brandisce come un coltello di seppellire sotto le risate del pubblico anche l’interlocutore più serio, anche l’antagonista più meritevole di rispetto. È facile, appunto: gli si ride in faccia; gli altri, stupidamente, ridono anch’essi, perché la risata è contagiosa, è travolgente, specie quando si ride di qualcuno, quando si gode di una sua inferiorità, di un suo imbarazzo: e il gioco è fatto (cfr. il nostro vecchio articolo: Sulla natura del riso, pubblicato sulla rivista Alla Bottega, Milano, 1988, n. 5, pp. 21-23).

Tornando alla dimensione storica cui Rabelais appartiene, vi sono, nella sua "modernità", due aspetti notevoli, che ne fanno davvero il precursore della cultura odierna: da un lato, egli è il massimo esponete dell’anti-rinascimento o anticlassicismo (come ha notato il critico e filosofo russo Michail Bachtin), proprio per il suo amore per la dismisura, il grottesco, il carnale; dall’altro, è un fedele discepolo del troppo lodato Erasmo da Rotterdam (cui manda una lettera, dichiarandosi suo figlio) e s’inscrive fra i massimi esponenti del cosiddetto umanesimo cristiano, che vuol coniugare la cultura pagana con quella cristiana. In altri termini, oggi Rabelais sarebbe un fiero esponente del cattolicesimo progressista e di sinistra: sarebbe un seguace dell’ermeneutica biblica della scuola liberale e protestante, parlerebbe di un Vangelo che deve calarsi nello spirito del tempo e svuoterebbe la fede cristiana di ogni trascendenza, trasformando Gesù in un profeta e il regno di Dio in una cosa puramente terrena. E non ci si venga a dire che queste sono speculazioni gratuite, perché tutto questo è insito nel suo pensiero e lo si può rilevare, punto per punto, leggendo in controluce i sui attacchi maligni e demolitori contro la scolastica e contro la teologia in quanto tale. Chi attacca e deride la teologia non ce l’ha col Medioevo: ce l’ha con Dio. Di qui le discussioni, fra gli storici della letteratura, fra i sostenitori e i negatori dell’ateismo di Rabelais: questione che a noi pare secondaria, perché, se pur egli non è intenzionalmente ateo (come pensa Étienne Gilson), certo il suo è un ateismo pratico. Ce n’é a sufficienza per salutarlo come il padre della cultura moderna…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.