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«Conversazione in Sicilia» è davvero un capolavoro?

Elio Vittorini, che ci è stato presentato dalla cultura dominante e politicamente corretta, fin dai banchi di scuola, come un antesignano e precursore dell’antifascismo militante, e sia pure (nessuno poteva negarlo) con un passato da intellettuale nel "fascismo di sinistra", ha visto accreditarsi tale fama soprattutto con il romanzo Conversazione in Sicilia, da molti giudicato una delle pietre miliari del nascente neorealismo, o, quanto meno, della nascente letteratura impegnata e antifascista (anche se l’antifascismo, lui, s’era scordato di dichiararlo o, comunque, l’aveva lasciato nella penna). Per dir meglio, una delle pietre miliari del nascente velleitarismo antifascista, che è cosa leggermente diversa: basti pensare agli "astratti furori" di Silvestro, il protagonista che torna, dopo un’assenza di quindici anni, nella natia Sicilia, o il dantesco e allusivo Gran Lombardo, alla ricerca di doveri più grandi, ma quali, non si sa e neanche il lettore ne viene in qualche modo edotto.

Ora si faccia attenzione alla date. Conversazione in Sicilia esce, a puntate, sulla prestigiosa rivista fiorentina Letteratura, diretta dallo scrittore Alessandro Bonsanti, nel biennio 1938-1939; solo nel 1941 uscirà in volume, per la casa editrice Bompiani, con il titolo definitivo, passando per un’altra edizione in volume, per la casa editrice Parenti, intitolata — assai meno efficacemente, e un po’ ermeticamente — Nome e lagrime (con la "g" al posto della "c", che fa tanto D’Annunzio). Pertanto, la notizia della morte "in guerra" del fratello del protagonista, Liborio, che gli viene comunicata per lettera nella quinta pare del romanzo, e che dà occasione a Silvestro di sproloquiare con sua madre circa il fatto che lei dovrebbe sentirsi orgogliosa d’aver sacrificato il figlio alla Patria, non può riferirsi alla Seconda guerra mondiale, ma alla guerra di Spagna o, forse, a quella d’Etiopia (fermo restando il carattere onirico e non naturalistico del racconto). Non solo. Ci si vuol far credere che, all’epoca di Conversazione, Vittorini fosse già intimamente antifascista, e sia pure "in potenza", cioè velleitariamente, appunto coi suoi "astratti furori" e con la sua aspirazione (non si può propriamente parlare di "ricerca") a una più alta moralità nella propria vita. Silvestro, inquieto, scontento, ansioso di azione e di nobili ideali per i quali impegnarsi, sarebbe il riflesso di Vittorini, scontento, inquieto lui pure, fascista sempre più impaziente del fascismo e ormai in cerca di una occasione per rompere l’ultimo diaframma e mettersi decisamente sulla strada del riscatto, personale e nazionale, ossia, come vuole la cultura politicamente corretta, sulla strada della rottura con il fascismo, per ragioni etiche e politiche non meno che artistiche e culturali (il fascismo rappresentando, per codesti antifascisti che non si erano ancora dichiarati tali, e anzi militavano bellamente nelle organizzazioni culturali e scrivevano sulle riviste del Fascio), ossia l’antifascismo. E nella Resistenza, infatti, ci vien detto che Vittorini è entrato nel 1942.

Ora, se il calendario non è una opinione, nell’ottobre 1942, precisamente dal 7 all’11, troviamo il nostro quasi antifascista, con o senza astratti furori antifascisti, quale partecipante al convegno degli scrittori e intellettuali nazisti, organizzato a Weimar, la città legata al ricordo di Schiller e Goethe, dal ministro della Propaganda tedesco, Joseph Goebbels, fatto assolutamente documentato e, del resto, mai smentito dal diretto interessato. Vittorini era, del resto, in buona compagnia, poiché a quel convegno di scrittori europei, il cui motivo dominante era come perseguire e sostenere l’Ordine Nuovo hitleriano sul continente, partecipava anche Giaime Pintor, altro intellettuale che sarebbe divenuto famoso per la sua adesione alla Resistenza, nella quale avrebbe trovato, giovanissimo, la morte. Ci ripromettiamo di tornare un’altra volta, in maniera specifica, sul tema di quell’imbarazzante convegno, del quale si è sempre parlato pochissimo e sul quale esiste una così smilza e distratta bibliografia, proprio perché "scomodo" alla luce del paradigma resistenziale creato subito dopo il 1945, con i brutti e i cattivi schierati tutti, per tempo, sul versante dell’Asse e con i buoni e i bravi ragazzi schierati tutti, per tempo, dietro le bandiere ideali della Libertà (rappresentate, nella fattispecie, dalla democrazia usuraia anglosassone e dal feroce totalitarismo staliniano). Vittorini si è sempre difeso dal sospetto nato da quella circostanza sostenendo che, prima di andare a Weimar, invitato direttamente dall’ambasciata tedesca e senza passare per il beneplacito del governo italiano (prassi inusuale e che solo con molta buona volontà può essere addotta, come pure è stato fatto, per alleggerire i sospetti sull’antifascismo di Vittorini), aveva chiesto il permesso del fronte antifascista clandestino, ottenendolo, ovviamente con la motivazione di andar a spiare chissà che cosa; e, inoltre, di essere stato mosso da interessi di tipo esclusivamente letterario. Sarà. Sta di fatto che il convegno di Weimar fu una grande iniziativa — l’ultima – della possente e geniale macchina della propaganda nazista per diffondere l’idea che l’Asse, e specie la Germania, era il vero baluardo della civiltà occidentale contro l’affarismo egoista delle potenze anglosassoni e la barbarie comunista dell’Unione Sovietica; e che a quel palcoscenico allestito dalla propaganda nazista Vittorini non ricusò di andare, anzi, vi andò di sua spontanea volontà, senza che alcuno gli facesse pressione. Eppure, nell’ottobre del 1942 la battaglia di Stalingrado era in pieno svolgimento e, sul fronte decisivo per il futuro dell’Italia, quello nordafricano, si era alla vigilia della seconda battaglia di El Alamein. Se, a quella data, Vittorini andava in Germania, su invito dei nazisti, per partecipare a una grande convegno, pensato e voluto da Goebbels, a noi pare che la circostanza sia quanto meno strana. Strana, beninteso, se dobbiamo accettare di credere che da ben quattro anni, cioè dalla pubblicazione iniziale di Conversazione in Sicilia, egli avesse maturato delle profonde convinzioni antifasciste e aspettasse solo il momento o l’occasione giusti per trarre il dado e fare una coerente scelta di campo, contro il regime e ciò che esso rappresentava.

Questa, la necessaria premessa. Possiamo ora passare alla domanda centrale: è un libro importante, Conversazione in Sicilia? È un libro che segna una tappa significativa nel processo della letteratura italiana, un libro che spicca, che si distingue per dei meriti intrinseci, di contenuto e di stile, a parte gli eventuali e, come abbiamo visto, non del tutto credibili meriti in quanto coscienza critica di una società e di un mondo intellettuale, che stavano prendendo coscienza della, chiamiamola così, ingiustizia del fascismo, e si accingevano ad agire di conseguenza, prendendo posizione contro di esso? Ideologia a parte, Conversazione in Sicilia è, se non un capolavoro, almeno un classico, un libro che una persona colta dovrebbe leggere in ogni caso – indipendentemente da una lettura in chiave politica – per quel che dice e per come lo dice? Ci sia concesso di avere delle forti perplessità al riguardo. Lo stile, sul quale non ci dilunghiamo, perché, a nostro avviso, meno importante rispetto alle domande che abbiamo posto, è quello, nudo, scabro e monotono, di una incessante serie di dialoghi alla Hemingway. Un po’ come quello di Pavese; il quale, però, era artista assai più grande, e, perciò, sapeva padroneggiare in maniera creativa la conoscenza diretta, come traduttore, e anche una certa imitazione dei modelli letterari americani. Il contenuto, allora? Bisogna chiedersi che cosa Vittorini abbia voluto dire, per vedere se è riuscito a dirlo in maniera adeguata, cioè artisticamente — e non ideologicamente – efficace e convincente. Il guaio è che non si capisce cosa Vittorini abbia realmente voluto dire. Un tono narrativo "onirico", è stato detto (e lo abbiamo riportato); benissimo: ma anche un sogno, come forma o come tonalità di un romanzo, o d’un capitolo di un romanzo, deve avere un preciso significato: si pensi al "sogno di Tat’jana" all’interno di Eugenio Onegin, il capolavoro romanzesco in versi di Aleksandr Puškin (cfr. il nostro precedente articolo: La Tat’jana di Puškin è il prototipo della donna leale con se stessa, pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 25/02/2010). Perfino in una prospettiva ironica, grottesca, surreale, il sogno, in un’opera letteraria, vuol sempre dire qualcosa di comprensibile ai lettori, come nel caso di Jaroslav Hašek e del sogno del cadetto Biegler prima di Budapest, nel romanzo Il buon Soldato Sc’veik. Ma nel caso della Conversazione in Sicilia, tutto è giocato sul filo del sogno, con alcune situazioni francamente assurde (il ritorno, alla conclusione del romanzo, di tutti i personaggi incontrati sul treno nel viaggio d’andata; il ritorno del padre di Silvestro alla casa della mamma, cosa impossibile, visto che l’ha lasciata per andare a vivere con un’altra donna, a Venezia), senza però che tali incongruenze trovino un significato successivo e senza che al lettore sia fornita una chiave d’interpretazione. In questo modo, l’autore si prende la libertà di condurre un gioco che conosce lui solo, e al quale si diverte lui solo; è difficile dire cosa ci guadagni, il lettore, a leggersi, uno dopo l’altro, tutti i quarantanove capitoli dell’opera, arrivando alla fine senza aver potuto comprendere il senso della la storia. Del resto, fin dalla prima pagina, fin dalla prima riga, Vittorini ha voluto mettere bene in chiaro che ci avrebbe detto solo una piccola parte della verità; in questo, è stato sincero: Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questi mi sono messo a raccontare. Interessante: solo che a noi sembra un po’ troppo comodo…

Ed ecco una recensione, apparsa anonima su Il Popolo d’Italia del 30 luglio 1942, e intitolata, senza tanti compimenti, Una sporca conversazione (citata in: E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, con introduzione e note di Giovanni Falaschi, Milano, Rizzoli, 1986, 1999, pp. 81-82):

Per ottenere ciò che voleva, cioè una società materialista imbecille atea pervertita, la giudeo-massoneria aveva bisogno di una letteratura mediocre, pornografica, erotica. Quella letteratura venne. Si chiamò Pitigrilli, Mariani, Guido da Verona e via dicendo. Aveva bisogno di libri come questo che, in ritardo ma gagliardamente, imita le opere di quelli. Non lo nominiamo solo per non favorirgli la clientela. Riassumiamo. Un giovane siracusano, dopo molti anni di assenza dal paese natio, vi ritorna a rivedere la propria madre quasi dimenticata. Lo inducono a questo due motivi principali: un biglietto a riduzione e la noia. Giunto al cospetto della madre, il giovane, per colmare la lacuna del lungo distacco, chiede a costei che cosa ha fatto durante la sua assenza e cioè se è stata "al vallone con qualcuno" perché — egli pensa — non sarà stata sempre in cucina. Per sua gioia, quella "vecchia…" di sua madre è stata proprio al vallone, e più volte e con più di qualcuno; con un pezzente, col compare… fra gli altri, s’intende, c’era stato posto anche per il marito. Colmata la lacuna della propria curiosità, il giovane accompagna la madre a visitare le conoscenti, le quali, tanto per fare cosa grata al ragazzo che le brama e alla donna che le prega, lietamente si offrono.

L’autore, siracusano, terminata la sua sporca "Conversazione", ha aggiunto — per pudore? — una nota al volume nella quale avverte che il nome di Sicilia è immaginario e da lui usato solo perché gli suonava meglio di Persia o Venezuela. La definizione di letteratura corruttrice, che noi diamo a tal genere di romanzo, non è invece per noi puramente immaginaria ovvero usata perché ci suoni meglio di letteratura morale o letteratura educativa. È forse con queste opere che dopo vent’anni di Fascismo, ci prestiamo a far grande l’Italia anche nel campo dello spirito?

Certo, il tono è molto duro e… fascista; non per nulla questa recensione viene utilizzata quasi a titolo di curiosità e per documentare come una cultura fascista non esistesse, visto che il solo argomento che i fascisti capissero era, alla fine, quello del manganello. Eppure, entrando nel merito, le cose che dice costui sono proprio sballate? Egli mette il dito su un aspetto che i critici politicamente corretti tralasciano totalmente: il disordine sessuale sotteso al romanzo, come cifra della confusione morale di una società sempre più sprofondata nel materialismo, nell’irreligiosità e nella stoltezza. Poi tira in ballo, cosa davvero imperdonabile, la massoneria e le trame delle lobby ebraiche; e accomuna, cosa ancor più grave, Vittorini a Pitigrilli o Guida da Verona. Afferma che sono scrittori che non hanno nulla da dire e che, per tenere avvinto il lettore, ricorrono al disordine dei sensi, né esitano a profanare il santuario della famiglia. Le madri confessano ai figli i loro adulteri, poi cercano di procacciar loro la compiacenza delle amiche. Nessun critico politicamente corretto ha mai parlato di questo aspetto del romanzo: non sarebbe permesso. Che il sesso a tutto campo sia la cosa più importante della vita umana e che si posa prendere il lettore per quel verso, solleticando i suoi bassi istinti e propinandogli, intanto, dei romanzi senza un centro, né un fine, né un senso, è cosa ormai talmente acquisita, che raramente qualcuno si domanda se sia lecita e giusta. Da La vita interiore di Moravia, a La pianista di Jelinek, si dà per scontato che la pornografia sia parte integrante del prodotto, anzi, che non sia nemmeno tale, ma ricerca profonda di chissà cosa. Verso il 1940, era la decadenza della modernità che avanzava, secondo il modello americano, con la benedizione della psicanalisi e l’incitamento del marxismo (Se vogliamo distruggere una nazione, dobbiamo distruggere la sua morale, diceva Lenin); e l’Italia stava lottando anche per difendersi da quella marea di fango. La quale ormai ci ha travolti e nella quale stiamo affondando, avendola scambiata per un vento di libertà. E che pena, vedere ogni Vittorini lodato come un vero maestro…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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