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No, Flaubert non era amato. E perché avrebbe dovuto esserlo?

Gustave Flaubert è il padre del romanzo moderno; non solo per ragioni tecniche, come la scomparsa del narratore onnisciente, che racconta in terza persona, o come l’abbandono delle tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione; ma soprattutto per la prospettiva, per il tipo di atteggiamento intellettuale e spirituale, per il modo d’intendere il fatto letterario, la sua funzione, il suo scopo, la sua utilità nella dialettica con la vita vera. Con lui, la letteratura francese ed europea si congeda definitivamente dal Romanticismo e imbocca decisamente la strada del Naturalismo. Flaubert vuole far sì che le cose parlino da sole; non vuole sovrapporre una sua verità alla verità dei fatti, ma lasciare che questi raccontino da sé la loro storia. Inoltre, vuole eliminare qualsiasi tipo di giudizio morale e limitarsi a rappresentare lo spettacolo della vita, quale esso si dispiega davanti ai nostri occhi: né buono né cattivo, né bello né brutto, né intelligente né stupido, ma semplicemente reale. Compito dello scrittore è cogliere questa realtà, che è una realtà naturale, ad esclusione di tutto il resto. Il resto è l’anima, il senso morale, i valori, gli ideali, la realtà quale dovrebbe essere; e, naturalmente, Dio. Allo scrittore interessa solo la realtà quale essa è; non lo interessa in alcun modo il quesito filosofico se possano esservi altre realtà possibili, o se avrebbero potuto esservi; meno ancora il quesito morale: se la realtà, così come essa si dispiega, sia giusta e buona, oppure no. Lo scrittore è un artigiano scrupoloso che assembla tutte le tessere del mosaico e le pone al posto esatto: è un tecnico, un uomo pratico, non un teorico; non gl’interessa la metafisica, ma solo la rappresentazione dell’esistente.

Ora, poiché queste idee e questo approccio sono diventati quelli della maggior parte degli scrittori successivi, è inevitabile vedere in Flaubert colui che, più di altri, ha contribuito alla fondazione del nuovo paradigma in letteratura: materialista, riduzionista, pragmatista, irreligioso e amorale. L’uomo, il protagonista di questa nuova narrativa — e la donna, naturalmente — è un individuo che si muove in una dimensione puramente immanente, fatta di istinti, passioni, ambizioni, desideri, brame: e che tende alla loro soddisfazione, così, naturalmente, come l’animale affamato o assetato tende al cibo e all’acqua; o al sonno, quando è stanco. Madame Bovary, per esempio, non si fa scrupoli, se non quelli che derivano dalla consuetudine e dalla paura della società, a cercare l’appagamento dei suoi sogni di felicità e di pienezza, nel tradimento cosciente del marito, che pure la ama di un amore sincero. Nel mondo di Flaubert, così come in quello dei suoi imitatori ed epigoni, fino ai nostri giorni, non vi è, nei personaggi, una vera problematica morale: essi agiscono come se il bene consistesse semplicemente nell’afferrare quel che si desidera, e il male, nell’esserne privati. Non vi è alcuna luce interiore in questa umanità desiderante, e, tutto sommato, terribilmente stupida, anche se spesso ambiziosa (come in Bouvard e Péchuchet); l’atmosfera che si respira, in loro e attorno a loro, è chiusa, pesante, asfittica. Pur non essendo cattivi in senso positivo, sono personaggi incapaci di bontà: non sanno cosa voglia dire amare, meno ancora che cosa significhi sacrificarsi. Sono cose che stanno al di fuori del loro universo concettuale, semplicemente, e delle quali non hanno alcuna nozione, come delle isole o dei continenti sconosciuti, che non figurano sulle tavole di alcun atlante.

Tutto ciò farebbe pensare a una naturalismo e a uno storicismo radicali, e, quindi, a un relativismo assoluto. Tuttavia, per parlare di "naturalismo", bisogna credere che esista anche qualcosa che non sia natura; per parlare di storicismo, bisogna supporre che la storia non sia tutto; e per parlare di relativismo, bisogna avere una certa qual nozione di ciò che è assoluto, anche se si sceglie di rifiutarne l’ipotesi, o meglio, di rifiutarne le conseguenze pratiche: proprio come chi parla della notte, deve possedere la nozione del giorno, e viceversa. Ne deriva un curioso sbilanciamento dell’intelligenza, che si rinchiude nell’ambito del finito, e della volontà, che tende istintivamente verso qualcosa che trascenda il finito, che realizzi quell’armonia che appartiene solo al regno di ciò che dovrebbe essere. Il dramma di Emma Bovary, cioè il dramma della donna moderna (e anche dell’uomo moderno) nasce da questo corto circuito fra l’intelligenza e la volontà; o, come direbbe Schopenhauer, fra la volontà e la rappresentazione. È come se si avesse la nozione di qualcosa che dovrebbe esserci, ma che non si trova: un po’ come accade al povero don Chisciotte quando va alla ricerca dei suoi amati libri di cavalleria, ma non li trova, perché non trova neppure la biblioteca, né la porta che introduce alla biblioteca (l’hanno murata, infatti, i suoi amici, beninteso credendo di fare ciò che è giusto e necessario per la sua salute). Si sa che quella stanza esiste, ma se ne è persa non solo la chiave, perfino la nozione di dove la stanza si trovi: inevitabile conclusione di una impostazione della propria vita che violenta e sopprime ciò che vi è di più profondo, originario ed essenziale nella sua natura: il bisogno d’infinto. Quello vero, non quello fasullo dei romanzi sentimentali divorati da Emma Bovary nella sua adolescenza. Filtrare la realtà vera con la realtà letteraria è una tipica patologia dell’io moderno, e Flaubert è stato sia il testimone, sia il (cattivo) maestro di tale tendenza, perché, dopo di lui, non solo generazioni di scrittori, ma anche una quantità di persone comuni, hanno seguito la stessa strada, suggestionati dalla Weltanschauung di Emma Bovary (la parola non sembri troppo pretenziosa, perché, in effetti, essa è tale, anche se non è particolarmente raffinata dal punto di vista filosofico). Ogni individuo e ogni società si consolano e cercano di gratificarsi con quello che hanno, o che ritengono di avere, a loro disposizione. Se un individuo o una intera società non pensano di avere altro che sogni romantici per consolarsi della noia di vivere, allora faranno ricorso a quelli, o al loro equivalente (che possono essere, per esempio, i giochi di ruolo infornatici, nella fase storica odierna). Il problema non è nella ricerca della consolazione, ma nella noia di vivere. Una società sana, proprio come un individuo sano, non trova affatto la vita noiosa: potrà trovarla stupenda oppure orribile, ma non mai noiosa. Se così accade, vuol dire che la malattia del disincanto, tipica malattia della modernità, è penetrata molto, ma molto a fondo, e ha infettato e inquinato ogni poro, ogni vena, ogni organo del corpo vivente. In tali condizioni, la guarigione è pressoché impossibile: ed Emma Bovary, infatti, coerentemente, sceglie di morire.

È significativo il fatto che Gustave Flaubert percepisse la vita come una cosa estremamente noiosa; e che il vero antidoto alla noia, per lui, oltre al sesso, che utilizzava più o meno come una valvola di sfogo di istinti puramente fisiologici, fosse la creazione letteraria. Non che quest’ultima fosse qualitativamente diversa dallo sfogo sessuale: una maniera di allentare la pressione eccessiva e di distogliere la mente da pensieri molesti, cioè, ancora e sempre, dallo spettacolo noioso della vita di tutti i giorni. Alla madre, Flaubert scriveva che nella vita c’è ben poco che lo soddisfi, tranne il fatto di scrivere.

Ecco il ritratto che ne traccia Gabriele Morandi, uno scrittore italiano non molto conosciuto dal grande pubblico, ma interessante, un outsider delle lettere nostrane che, fra tanto appiattimento e conformismo, spicca per la sua originalità (nella prefazione a Flaubert, Madame Bovary, Milano, Alberto Peruzzo Editore 1985, su licenza Rizzoli, pp. IX-XI):

… Flaubert era avvilito per la morte dell’amico Bouilhet. Era, anche, invecchiato precocemente a causa della sifilide contratta in Oriente; infine, era provato dalle difficoltà economiche. La nipote Caroline aveva sposato un commerciante di legname, Commanville, sull’orlo del fallimento, e per aiutarla Flaubert si rovinò. Privo di danaro, ammalato, si rituffò nel lavoro, riprendendo il "St. Antoine" per la terza volta (vi aveva lavorato per la seconda volta dal ’56 al ’57). Scriveva a un’amica: "In mezzo a mille dispiaceri, finisco il mio "Sant’Antonio". È l’opera di tutta la mia vita, giacché la prima idea l’ebbi nel 1845, a Genova, davanti a un quadro di Brueghel e da allora non ho mai smesso di pensarci e di fare delle letture sull’argomento. Quando uscì, nel ’74, il lavorio fu un fallimento completo. Flaubert si gettò allora con rabbia in una nuova impresa: quella di fare l’epopea della stupidità umana, con il romanzo "Bouvard et Péchuchet", cui dedicò gli ultimi sei anni di vita e che , rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo. Scriveva a proposito del libro: "Voglio dare una tale impressione di stanchezza e di noia che a leggere questo libro, la gente posa credere l’abbia scritto un cretino… Bisognerebbe che nel libro tutto intero non ci fosse neanche una parola delle mie, e che, una volta letto, nessuno abbia più il coraggio di parlare, per paura di dire una delle frasi che ci sono dentro". Rimasto solo, Flaubert poteva contare su un unico amico: il giovane Guy de Maupassant, figlio di quella Laure de Piottevin della sua infanzia e promettente scrittrice (voci infondate lo indicavano come suo figlio illegittimo). A lui offriva consigli, aiuti, appoggi, gli procurava critiche sui giornali, lo seguiva nella crescita letteraria. L’8 maggio del 1880, mentre stava per prendere il treno per Parigi, Flaubert cadde fulminato da un colpo apoplettico. Fu sepolto tre giorni dopo nel cimitero monumentale di Rouen. Gli abitanti della cittadina rimasero indifferenti; non avevano mai amato quell’omone che passeggiava in giardino avvolto in una vestaglia rossa. Lo pianse disperatamente, invece, il discepolo Maupasant che, a undici anni dalla sua scomparsa, ancora scriveva così: "Penso sempre al mio povero Flaubert, e vorrei essere morto se fossi sicuro che qualcuno pensasse a me come io penso a lui…". […]

Flaubert uomo non era simpatico. Grosso, pesante, con lunghi baffi spioventi, era un buon mangiatore, un ottimo bevitore e un accanito fumatore. Aveva un carattere tormentato che lo spingeva continuamente all’autoanalisi; passava da momenti di entusiasmo di abbattimento profondi, da crisi isteriche a stupori melanconici, da stati di trance a irrefrenabili attacchi d’ira.

Aveva una forte sessualità, ma non la capacità di amare veramente le donne. "Da che ti ho visto eccitato dalla governante, ne sono eccitato anch’io", scriveva all’amico Bohuilet a proposito di una certa Juliet Herbert, che mandava avanti la casa di Croisset. "A tavola, i miei occhi non si stancano della dolce curva dei suoi seni. Ho idea che lei se ne sia accorta…". E mesi dopo:"Mi eccita smisuratamente. Per le scale devo trattenermi per non metterle le mani sul culo…".

Così Sartre parlò di Flaubert in un’intervista: "Questo è Flaubert: un pesante signore normanno che cammina nel fango, che conduce una carrozza a cavalli, un personaggio provinciale e greve… Come uomo, non sarebbe stato piacevole frequentarlo: non era mai vero nei suoi rapporti con gli altri. Cercava la frase sferzante, era un gaffeur. Un analista direbbe che lo faceva apposta. Non si trattava di cattiveria premeditata, ma c’era qualcosa di voluto nelle sue gaffes… E la gente finiva regolarmente per essere imbarazzata quando si trovava a contatto con lui, senza sapere esattamente perché. Dappertutto in lui c’è sessualità. Aveva una sessualità molto brutta. I suoi rapporti con le puttane: era l’epoca. Spendeva molto per le donne, è una cosa che colpisce. Ha avuto qualche donna facile, poi Louse [Colet] con la quale si è costruito un amore che non ha mai sentito veramente ma che ha voluto far durare… Credo che non abbia mai amato nessuno; gli deve essere piaciuto fare l’amore con Louise, ma è tutto. Gli piaceva molto di più scrivere…".

Flaubert, del resto, aveva scritto alla madre: "Tranne la voluttuosa gioia che privo sempre quando mi siedo al mio rotondo tavolo di lavoro, che cosa c’è di veramente soddisfacente nella vita?". Questa "voluttuosa gioia" era il risultato del modo con cui Flaubert assorbiva la vita dei suoi personaggi. Scrisse infatti: "Ho passeggiato a cavallo in una foresta, per un pomeriggio d’autunno, sotto foglie gialle, ed ero i cavalli, le foglie, il vento, le parole che si dicevano e il sole rosso fuoco che faceva socchiudere le loro palpebre…".

A George Sand, durante la stesura di "Salambò", confidò: "Mi vedo in diverse età della storia: sono stato battelliere sul Nilo, lenone a Roma al tempo delle guerra puniche, sono morto durante le crociate, sono stato pirata e monaco, saltimbanco e cocchiere. Forse imperatore d’Oriente". Fino ad arrivare al famosissimo: "Madame Bovary c’est moi", dove l’identificazione dell’autore con il suo personaggio è totale.

Oltre al disincanto, alla noia esistenziale e al bovarismo, quale evasione letteraria della realtà, a Flaubert si devono ascrivere altri due elementi specifici: l’ipertrofia dell’ego e il sentimento casuale della vita. Sul primo, c’è poco da dire: i suoi sono personaggi che, come lui stesso, del resto, non sanno amare: lo aveva capito uno che di non saper amare nessuno se ne intendeva, Jean-Paul Sartre, e per questo era tanto bravi a riconoscerlo negli altri.

Del secondo aspetto, si può dire che, con Flaubert, la casualità della vita diventa l’orizzonte normale dell’uomo. Le cose accadono: non vi è un ordine, né una gerarchia, né un senso. Pirandello e altri faranno tesoro di questa indicazione. Ora, quando ci si pone in questa prospettiva, è certo che i nessi e le relazioni, anche se evidentissimi, sfuggono, scompaiono. Prima della modernità, gli uomini sapevano leggere i segni: dai profeti dell’Antico Testamento a Dante Alighieri, essi sapevano vedere e riconoscere la trama del destino scritta nelle vicende umane; poi, questa capacità è andata smarrita, o meglio, essa è stata abbandonata a partire da quando il nuovo paradigma, scientista e positivista, ha dichiarato tutto questo un semplice residuo della mentalità mitica, proprio di una umanità bambina, e destinato a sciogliersi come nebbia al sole con l’avvento della ragione. Un uomo come Dante, per esempio, avrebbe saputo vedere la relazione che corre fra il viaggio di andata dell’incrociatore Indianapolis, che, il 26 luglio del 1945, porta a Tininan il suo carico micidiale di uranio impoverito per l’assemblaggio della bomba atomica che, di lì a pochi giorni, annienterà Hiroshima, e il viaggio di ritorno, quando, il 30 luglio, la nave viene attaccata e affondata da un sommergibile giapponese, e gran parte del suo equipaggio finisce annegata o divorata viva dagli squali, mentre il capitano, parecchi anni dopo, si sparerà un colpo di pistola alla tempia. Sballottati sulle onde dell’oceano, per giorni e notti interminabili, i naufraghi soffrirono tutto quel che degli esseri umani possono soffrire in questa vita: molti impazzirono sotto i raggi infuocati del sole, si misero a bere l’acqua del mare e affogarono, oppure vennero dilaniati dalle mandibole dei predoni del mare. In breve, essi hanno sperimentato l’inferno mentre erano ancor vivi. Ma se, nella realtà, ogni cosa avviene a caso, anche il destino di quella nave fu opera del caso; anche se essa aveva già affrontato e superato le peggiori prove del fuoco, nel corso della guerra, ed era sempre sfuggita alla distruzione e alla morte.

Questo è un esempio di ciò che intendiamo, quando affermiamo che l’uomo moderno non sa più leggere i segni: perché, come risulta – in letteratura, specchio della vita vera, specialmente a partire da Flaubert, nessuno impara mai nulla dalle proprie esperienze o dai propri insuccessi, nel senso che ogni cosa avrebbe anche potuto andare diversamente, senza meriti né colpe da parte di alcuno. E questa, forse, è la cosa più triste di tutte. Se Emma Bovary fosse stata salvata, in extremis, dalla morte, avrebbe, quasi certamente, ripetuto esattamente gli stessi errori, e creato le premesse per andare incontro, ciecamente, allo stesso destino. Quanto a Frédéric Moreau, il protagonista de L’educazione sentimentale, mai un titolo fu meno appropriato di questo: né lui, né i suoi amici, né le donne da lui amate, nessuno, proprio nessuno, mostra di saper imparare mai nulla dalla vita. Il massimo che qualcuno giunge a fare è d’intravedere la verità, ma senza saperne trarre il benché minino frutto. Non c’è nessuna educazione, quindi, né dei sentimenti, né di qualunque altro genere; nemmeno politica: quando scoppia la rivoluzione, non si sa bene da che parte della barricata sia giusto schierarsi; anzi, non si sa nemmeno se sia meglio darsi alla rivoluzione o fare all’amore. L’educazione sentimentale è del 1869: i ragazzi del ’68 si ricorderanno, magari inconsciamente, del loro (cattivo) maestro di un secolo prima.

No, Flaubert non era amato dai suoi contemporanei. E perché avrebbero dovuto amarlo? Il pubblico, meno rozzo e ignorante di come lo dipingano gli intellettuali progressisti, forse aveva intuito, in lui, il portatore di questa nuova pestilenza della modernità, anzi, di tutta questa serie di pestilenze. Lui si vendicò delle incomprensioni, facendo, nell’ultimo romanzo — rimasto incompiuto — il monumento ironico e dissacrante della umana stupidità. Tutto sta a vedere se è più stupida una società che non apprezza Le tentazioni di Sant’Antonio, oppure una donna che, come Emma Bovary – alter ego del suo autore – trova disgustoso un marito onesto, sincero e innamorato, solo perché la sua conversazione è piatta come un marciapiede

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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