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È Dante o Petrarca il primo poeta della natura?

Chi è stato il primo italiano a scoprire la bellezza della natura? Intendiamo dire: la bellezza della natura in se stessa, come un valore autonomo; non come semplice adornamento di una frase o come riflesso di qualcos’altro, per esempio della sapienza e bontà divine. Questa precisazione ci porta automaticamente verso la fine del Medioevo e l’inizio dell’Umanesimo: perché la natura, nel Medioevo vero e proprio, non rappresenta mai un valore autonomo. Nessun artista, nessun pittore o scultore, e nemmeno alcun poeta, la vede e la rappresenta come tale. Anche nella pittura di Giotto, la più "realistica", essa è sempre là, sullo sfondo, a commento dell’azione umana: è il paesaggio scabro e desolato su cui pascolano le capre, per esempio, mentre Gioacchino, il futuro sposo di Anna, la madre di Maria Vergine, è immerso nel suo sogno soprannaturale (nel ciclo di affreschi della cappella degli Scrovegni a Padova, eseguito fra il 1303 e il 1305); con qualche stentato ciuffo d’erba che spunta fra le rocce, e un cielo blu uniforme che fa risaltare ancor di più la nudità dei luoghi, la siccità di una terra arsa dal sole. E nel tanto citato Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi, vi è la lode, questo sì, per la bellezza della natura, lode che è rivolta però al Signore; e le cose della natura sono colte nella loro magnificenza, ma slegate, per così dire, l’una dall’altra, e, pur con il sovrano tocco di poesia che le illumina potentemente e le rende vive e palpitanti, nondimeno esse conservano qualche cosa dell’elencazione scolastica: oltre al sole, alla luna e alle stelle, sono, dopo tutto, i quattro elementi costitutivi del mondo, propri della filosofia classica: la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco. Sì: vediamo, davanti agli occhi della mente, il fuoco che crepita allegramente (bello et iocundo et robustoso et forte), e l’acqua che scorre nella sua cristallina purezza: ma non vediamo l’insieme, non vediamo il paesaggio, non vediamo la natura in quanto tale. Vediamo bensì le parti, ma non il tutto.

Dunque, spostiamoci senz’altro verso la fine del Medioevo, quando la nuova civiltà urbana e comunale introduce l’elemento borghese nella visione delle cose, con la sua prospettiva mercantile e tipicamente utilitaristica. Questo tratto, del resto, si era già affermato a partire da Marco Polo, il cui sguardo sulle cose è sempre condizionato dalla mentalità del mercante; e dallo stesso san Francesco (figlio d’un ricco mercante), il quale, dell’acqua, rileva che essa è umile e casta, ma anche che è molto utile e preziosa. Il primo candidato alla scoperta della natura, dunque, è sicuramente Dante: non certo il Dante delle opere minori, non il Dante della Vita nuova o del Convito, nel quale la natura continua ad essere qualcosa di vago e indefinito, qualcosa d’indeterminato o di scolastico, ma il Dante della Commedia, dove la sua potenza descrittiva fa un enorme salto di qualità e la natura è colta, per la prima volta, come qualcosa di autonomo, di vivo e meraviglioso; qualcosa che riempie di stupore e che suscita domande, interrogativi, ai quali la mente razionale non sempre è capace di rispondere. Ma si tratta proprio di una intuizione della natura, o di singoli aspetti di essa? Nelle stupende similitudini tratte dalle cose della natura — la neve che si scioglie al sole, le foglie che cadono dall’albero in autunno, gli uccelli che migrano in lunga fila, le pecore che vanno l’una dietro all’altra, tenendo il muso basso e facendo quel che fanno le prime: sono lampi di poesia ricalcati dal modello di Omero, e — senza dubbio — anche da quello di Lucrezio, oppure vi è già, in essi, una coscienza unitaria, una percezione della natura come una sola realtà vivente, degna di ammirazione in se stessa e non solo per le similitudini che offre con la dimensione dell’anima umana? Insomma: Dante vede la natura come la vede un uomo moderno, o continua a vederla, in tutto e per tutto, da medievale?

Questi interrogativi rimandano alla controversia, ormai decantata, su Dante "primo umanista" o, quanto meno, "pre-umanista"; e il riferimento d’obbligo, ovviamente, è all’episodio del viaggio di Ulisse, nel XXVI canto dell’Inferno. Ci si è chiesti se Ulisse-Dante (perché Ulisse, quell‘Ulisse, è, senza dubbio, un riflesso di Dante stesso, e non certo una riproposizione dell’eroe omerico "originario"), con la sua sete di conoscenza, con la sua febbre a divenir del mondo esperto, sia già, almeno in parte, proiettato sul terreno della modernità: vale a dire, se sia già slegato, emancipato, reso autonomo, e sia pure in forma di vago presentimento, da una coscienza teocentrica, quale, in genere, traspare da ogni riga, da ogni verso della sua opera. E la risposta, almeno per la stragrande maggioranza dei critici, e anche la nostra, è: no; Dante è un uomo del Medioevo e non un pre-umanista, perché l’uomo, per lui, pur essendo creatura privilegiata e simile a Dio, non è mai il centro di tutto, non occupa mai il cuore dell’azione, ma è concepito sempre come creatura inseparabile dal suo Creatore, il quale è e rimane il vero protagonista, il vero centro dell’universo e di ogni pensiero, di ogni sentimento. Una conclusione, questa, che può lasciare un certo qual senso di delusione solo in chi non abbia compreso che il Medioevo, lungi dall’essere quell’età oscura e barbarica descritta dagli illuministi, è stato il periodo storico in cui l’uomo si è maggiormente avvicinato a se stesso, è stato maggiormente in armonia con se stesso (senza con ciò escludere dal quadro la paura dell’Inferno e la speranza del Paradiso; al contrario!), proprio perché è stato quello in cui si è tenuto maggiormente unito a Dio, in cui ha compreso che il bisogno di Dio è il suo naturale completamento; che la dimensione terrena non potrà mai realizzarlo interamente, ma che sempre egli sarà un misero mutilato se smarrirà il legame che lo unisce con Dio, se non unirà pienamente e fiduciosamente la sua volontà a quella di Dio, dal quale tutta la sua vita riceve il suo significato e che la trasfigura, nonostante, o proprio per, le sofferenze che v’incontra, proprio per la croce che egli soffre, proiettandola verso la sua vera e luminosa patria ultraterrena. Va da sé che questo atteggiamento dell’anima porta in se stesso il senso del limite umano: senso del limite che — ed è questa la radicale differenza con gli umanisti – non è sentito con dolore, come una lacerazione, come una sorta di umiliazione della condizione umana, ma come qualcosa di assolutamente giusto e naturale, allo stesso modo in cui è naturale, per l’uomo veramente innamorato, non pensare a nessun’altra donna che alla sua, e non sentire ciò come una limitazione, ma come il solo possibile modo di essere.

L’altro candidato alla primogenitura è, naturalmente, Francesco Petrarca, il poeta di chiare, fresche e dolci acque; il poeta, è stato detto, che vede per primo la natura con gli occhi di un uomo moderno. Petrarca è noto anche per essere stato il primo poeta a scalare una montagna per il semplice gusto di farlo e non per necessità, quasi un precursore del moderno alpinismo, per via della sua ascensione al Monte Ventoso (Mont Ventoux), in Provenza, compiuta con il fratello Gherardo dal 24 al 26 aprile 1336 e narrata in una delle sue più famose epistole (Familiares, IV, 1), indirizzata all’amico monaco Dionigi da Borgo San Sepolcro; ma che alcuni studiosi, fra i quali il critico e filologo padovano Giuseppe Billanovich (1913-2000), datano al 1352 o 1353: vale a dire ben sedici o diciassette anni dopo che l’impresa era stata effettivamente condotta a termine. Ma ci è salito, poi, al Monte Ventoso, il nostro bravo Petrarca? Secondo il professor Billanovich (Petrarca e il primo umanesimo, Padova, Antenore, 1996), uno dei massimi esperti dello scrittore fiorentino, i riferimenti contenuti nella famosa lettera rimandano a fatti della biografia petrarchesca che arrivano fino alla metà del secolo e oltre: assolutamente impossibile, quindi, che egli l’abbia scritta di getto, la sera stessa del ritorno, in una osteria situata ai piedi della montagna. Un procedimento non certo inusuale per Petrarca: si può dire che tutte le sue lettere sono state scritte, e sovente concepite, così: a distanza di tempo, modificando liberamente i dati reali per far emergere un’immagine idealizzata del loro autore, secondo i canoni del modello e del mito che egli voleva impersonificare, quello del petrarchismo. Un monumento narcisistico alla sua immensa, insaziabile vanità e alla sua sete di gloria, presente e postuma; un’opera che simula immediatezza, spontaneità, sincerità, mentre invece è pensata, voluta, studiata, programmata e curata, fino nei più piccoli dettagli, affinché tutto vi appaia perfetto, affinché tutto sia così come doveva essere: perfino il curioso particolare di Petrarca che, giunto esausto e spossato in cima al monte, invece di bere o mangiare qualcosa per rimettersi in forze, tira fuori dal sacco Le confessioni di Sant’Agostino — libro, dice, dal quale non si separa mai, tanto più che è un regalo dell’amico Dionigi — e, apertolo a caso, guarda un po’, gli capita proprio la pagina in cui si dice che l’uomo va a scalare le più alte montagne o a esplorare gli abissi del mare, e della sua anima non si prende cura.

Scriveva, a questo proposito, Jakob Burckhardt, nel suo celeberrimo La civiltà del Rinascimento in Italia (titolo originale: Die Kultur der Renaissance in Italien, 1867; traduzione dal tedesco di Domenico Valbusa, Roma, Newton & Compton, 1994, pp. 254-255):

È evidente che per gli Italiani [del XII secolo] è già da lungo tempo monda e purificata da ogni influsso di potenze soprannaturali. S. Francesco d’Assisi nel suo inno al sole loda il Signore non per altro, che per la creazione delle luci del cielo e dei quattro elementi.

Ma le prove più convincenti della profonda impressione esercitata dalla natura sull’animo dell’uomo cominciarono con Dante. Egli ci ritrae al vivo in poche linee non solo il sorgere dell’aurora e il tremolar della marina sotto la brezza mattinale o la tempesta che fa tremare le selve e i pastori, ma sale pure sulle cime dei monti con l’unico intento di godere grandiose prospettive, uno dei primi o il primo forse, dopo i poeti antichi, che abbia sentito la bellezza di tali spettacoli. [N. d. t.: Difficilmente s’indovinerebbe che cosa altrimenti fosse andato a fare sulla vetta del mote Bismantova nella provincia di Reggio; "Purgatorio", IV, 26. Anche la precisione, con la quale egli cerca di mettere in evidenza tutte le parti del suo mondo soprannaturale, mostra in lui un profondo sentimento del bello, che risulta dalla natura e dalle forme. Che poi sulla cima dei monti si sognasse l’esistenza di tesori nascosti e al tempo stesso vi si guardasse con una specie di superstizioso terrore, si rileva apertamente dal "Chron. Novaliciense", II, 5, in Pertz, "Script.", VII, e "Monumm. Hist. Patriae Script.", III.] Boccaccio lascia indovinare, più che non descriva egli stesso, quanta sia l’impressione che fanno su lui le sene della natura; tuttavia nei suoi romanzi pastorali non si può disconoscere qualche tratto di squisito e delicato paesaggio, che, se non altro, sarà esistito nella sua fantasia. Con coscienza poi ancora più compiuta Petrarca, uno dei primi uomini perfettamente moderni, mostra l’importanza delle grandi sene della natura per un’anima sensibile. Quel lucidissimo spirito, che per primo cercò in tutte le letterature le origini e i progressi del sentimento pittoresco della natura, e che ha dato lui stesso nei suoi "Tableaux de la nature" i quadri descrittivi più perfetti che esistano, Alessandro Humboldt, non s’è dimostrato de tutto giusto riguardo a Petrarca, ed è perciò che, anche dopo quanto egli ne scrisse, a noi pure rimane qualche cosa da aggiungere.

Petrarca non fu soltanto un valente geografo (si vuole che a lui si debba la primissima carta d’Italia) e nemmeno ripeté semplicemente quanto avevamo detto gli antichi, ma il vero aspetto della natura trovò nel suo spirito un’eco immediata. Il godimento degli spettacoli naturali gli risultava gradito in qualsiasi occupazione mentale: associando l’una cosa con l’altra, si intende assai facilmente quel desiderio di solitudine erudita, che lo incatena a Valchiusa e altrove, e le sue fughe periodiche dal suo secolo e dal mondo. Gli si farebbe un gran torto, se dalla sua ancor debole e scarsa potenza descrittiva della natura si volesse inferire in lui una erta mancanza di sentimento. La descrizione del meraviglioso golfo della Spezia e di Porto Venere, per esempio, che egli innesta sulla fine del sesto canto dell’"Africa", e che non fu mai fatta da nessuno né degli antichi né dei moderni, non è, a dir il vero, niente più che una semplice enumerazione. Ma egli conosce ormai la bellezza, che risulta dal contrasto delle rupi , e sa in generale separare l’importanza pittoresca di un luogo dalla sua utilità. In occasione della sua dimora nei boschi di Reggio, l’improvviso spettacolo di un grandioso paesaggio agisce talmente su lui, che egli continua una poesia da lunghissimo tempo interrotta. Dove però il suo entusiasmo raggiunge il colmo, è nell’ascesa che egli fece al monte Ventoux, non lontano da Avignone. Un vago desiderio di vedere un ampio orizzonte s’esalta in lui sino al puti di una vera passione alla lettura accidentale di quel passo di Livio, dove è narrata la ascensione al monte Emo di Filippo di Macedonia, l’eterno avversario di Roma. Egli pensa fra sé: come non sarà da scusare in un giovane di condizione privata ciò che non si biasima nemmeno n un vecchio re? Infatti il salire alle come di un monte senza uno scopo prestabilito pareva stranezza inaudita a quanti lo circondavano, né certo era il caso di pensare a trovare amici o conoscenti che lo accompagnassero…

Burckhardt, senza porre alcuna distanza critica fra i propri entusiasmi umanistici e l’oggetto del suo studio (come già aveva fatto, ma in senso negativo, nel precedente L’età di Costantino il Grande), leva fino alle stelle i meriti di Petrarca come primo scopritore del paesaggio e della natura in generale, pur riconoscendo anche i meriti di Dante e quelli di Boccaccio (questi ultimi, però, assai maggiori di quanto qui non appaia: basta leggere le descrizioni del giardino nella "cornice" del Decameron, e specialmente nell’introduzione di alcune delle dieci giornate, per rendersene conto). Da parte nostra, non abbiamo nulla da aggiungere a questo giudizio, se non che Petrarca merita il riconoscimento di primo poeta della natura nella sua autonoma bellezza, proprio perché egli è il primo poeta moderno: il primo, cioè, a vivere in una condizione di stabile e disarmonico sdoppiamento (quel doppio uomo che è in me, dirà proprio nella lettera dell’ascensione al Monte Ventoso), che gli permette di porsi in maniera autonoma e autosufficiente rispetto alla realtà esterna. Il poeta moderno, e l’uomo moderno in genere, è un personaggio che va alla deriva, avendo rotto gli argini che lo tenevamo unito all’Essere: e questo andare alla deriva, incapace e impotente a controllare la direzione del viaggio, viene scambiato per "libertà", ossia per una scelta coraggiosa di auto-determinazione, mentre non è che l’agonia dell’ente che ha reciso i suoi legami ontologici con ciò da cui deriva, e che guarda le cose senza più coglierne l’intimo e necessario legame con il tutto e con se stesso. Del resto, in questa prospettiva, ogni cosa viene riferita all’ego, ogni cosa diventa una finzione dell’ego: le cose esistono e sono significative nella misura in cui si prestano a evidenziare l’ego, la sua eccellenza, anche se, a parole, questo si confessa debole e diviso (ahi, me, lasso!, ripete Petrarca, come un disco rotto: spero trovar pietà, non che perdono), esibendo in maniera quasi indecente le sue miserie, ma non per un vero atto di umiltà, bensì per cercare, nell’auto-umiliazione, una sorta di patologica, delirante rivincita sulle sue sconfitte e sulle sue inconfessabili frustrazioni (perché quelle che confessa, e le ripete sino alla noia, non sono le peggiori, quelle che lo fanno più soffrire). Incredibile mistificazione di Petrarca come forma mentis inveterata: mente per abitudine, per principio, per voluttà, proprio lì dove confessa di voler essere maggiormente sincero, esibendo quale prova il fatto che parla di cose per lui mortificanti.

Ma chi ha l’anima soffocata dall’ego, non sa vedere le cose nella loro limpidezza: le vede come in un filtro, come in una finzione scenica. La natura, in Petrarca, a dispetto della modernità del suo sguardo, o forse proprio per quello, non è mai se stessa, non è mai quale dovrebbe essere: è sempre quale lui la vuole e la predispone come sfondo alla messa in scena, incessante, monotona, ossessiva, del proprio ego. Il paesaggio diventa, in lui, una funzione dell’ego; la natura, un serbatoio senza fondo, cui attingere per evidenziare, abbellire, incorniciare il mito del proprio ego. Non così Dante, non così l’uomo medievale: il quale, sì, vede nella natura i segni del proprio destino soprannaturale, e non già una serie di specchi nei quali riflettere, da mille diverse angolature, la commedia, o la tragedia, del proprio ego insaziabile. Eppure, proprio per questo, forse l’uomo medievale riusciva a vedere la natura meglio di quanto non la sappiamo vedere noi. Perché l’uomo medievale, impregnato di spirito cristiano e di mentalità cristiana, vedeva in ogni cosa il riflesso di Dio; mentre l’uomo moderno vede ovunque il riflesso del proprio io, scisso e infelice. E allora, dei due, chi vede le cose con maggiore verità: il primo o il secondo?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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