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22 Luglio 2017Se c’è un libro che può far sognare un adolescente, un ragazzo; che può trasmettergli l’incanto e il profumo della vita, così come quello stesso li aveva percepiti e vissuti da bambino, in fondo solo pochi anni prima, restituendogli come per magia la bellezza e la poesia che ammantavano di sé ogni cosa, trasfigurandola, illuminandola, proiettandola verso un Altrove misterioso e felice, fuori del tempo e dello spazio, ebbene, quel libro è Il grande Meaulnes, quasi un prodigio sbocciato pochi mesi prima che l’Europa sprofondasse nella catastrofe da cui non si sarebbe mai più ripresa, e da cui la sua civiltà spirituale sarebbe uscita definitivamente distrutta. Anzi, non un libro, ma due o tre capitoli d’un libro: quelli della festa in maschera al Castello senza nome, in un paese altrettanto sconosciuto, e, poi, dell’incontro del protagonista con la fanciulla che, simile a una fata uscita da una fiaba, segnerà per sempre la sua vita futura: una festa per soli fanciulli, senza alcun adulto, perché gli adulti, con la loro presenza, avrebbero spezzato l’incantesimo; e un castello smarrito nella campagna notturna, immersa nel gelo invernale, ma rischiarato da una sorta di splendore interiore, un prodigio inesplicabile che scaturisce dal mondo quotidiano con una naturalezza, con una apparente semplicità, quasi con una ingenuità, che non si saprebbero immaginare più perfette e meravigliose.
Le grand Meaulnes apparve, a puntate, sulla Nouvelle Revue Française, nei numeri da luglio a novembre del 1913, e poi in volume nello stesso 1913, presso l’editore Emile Paul, rivelando al pubblico un autore finora del tutto sconosciuto, anche perché si trattava del primo, ed unico, romanzo della sua vita, tanto da meritargli la partecipazione al prestigioso Premio Goncourt. Si trattava di Henri Alban Fournier, che si firmava con il none d’arte di Alain-Fournier (La Chapelle d’Angilon, Cher, 3 ottobre 1885-Les Éparges, Mosa, 22 settembre 1914), e che, meno di un anno dopo, sarebbe morto, a soli ventisette anni d’età, in uno dei primi combattimenti della Prima guerra mondiale, presso un anonimo villaggio della Lorena, non lontano da Verdun. Un particolare commovente è che il suo corpo, gettato in una fossa comune scavata dai tedeschi, sarebbe stato identificato solo moltissimi anni dopo, nel 1991, per essere poi tumulato nel cimitero militare di Saint-Remy-la-Calonne.
La sua breve esistenza si era svolta sotto il segno della vocazione letteraria, ma era stata costellata d’insuccessi, fin dai banchi di scuola: si direbbe che nessuno dei suoi professori di liceo (e lui stesso era figlio d’insegnanti) si sia reso conto del prodigio che stava maturando in quel ragazzo, idealista e sognatore; il minimo che si possa constatare è che, d’incoraggiamenti, la scuola è stata molto avara con lui. Dopo aver fallito per due volte l’esame per l’ammissione All’École Normale Supérieure, finì per ripiegare sul giornalismo, dove ebbe la ventura di conoscere André Gide e Paul Claudel; il futuro critico letterario e romanziere Jacques Riviére, che, sposando sua sorella, ne sarebbe divenuto cognato, oltre che profondo studioso e ammiratore, lo aveva già conosciuto negli anni del liceo. Riviére, Gide, Claudel: questi sono stati gli scrittori che hanno accompagnato e incoraggiato la sua vocazione letteraria. Ad essi bisogna aggiungere Robert Louis Stevenson, lo Stevenson de L’isola del tesoro (ma anche de La freccia nera, senza dubbio), che fu, per lui, una rivelazione, anzi, una folgorazione; e sullo sfondo, forse inconsciamente, come ha fatto notare Anna Banti, Charles Perrault, il padre della fiaba francese ed europea, per la capacità prodigiosa di evocare, con leggerezza, un mondo fantastico, ma, allo stesso tempo, profondamente morale, nel bel mezzo della realtà di ogni giorno. E qui, forse, abbiamo la chiave della sostanziale incomprensione dei suoi contemporanei — nel 1912 aveva lasciato anche il giornalismo, per fare il segretario di un uomo politico — salvo, naturalmente, il riconoscimento postumo: il suo rifiuto del naturalismo, del nuovo vangelo di Hippolyte Taine e di Émile Zola, e, con esso, del progressismo e dell’idea, tipica di quegli anni, che un intellettuale degno di questo nome deve essere engagé, impegnato.
La scrittrice Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti; Firenze, 27 giugno 1895-Ronchi di Massa, 2 settembre 1985), che è stata anche traduttrice e critica letteraria, d’arte e cinematografica, così delineava i caratteri poetici del mondo incantato di Alain-Fournier nella sua introduzione a Il gran Meaulnes, di cui aveva condotto anche la traduzione (Milano, Mondadori, 1933, 1967, pp. 11-13):
Nel primissimo saggio che servì d’introduzione a "Miracles", raccolta di poesie e prose giovanili di Fournier, Rivière cercò di dimostrare con una ricchissima copia di citazioni, da quali basi l’amico partisse per giungere all’opera che doveva unicamente rappresentarlo: riflessioni e progetti che parrebbero più di un poeta che di un romanziere. Eppure al romanzo egli aveva pensato ben presto, sempre fisso, come s’è detto, nel rifiuto dei classici del naturalismo. "Vorrei piuttosto" osservava "procedere da Lafargue scrivendo però un romanzo, Può sembrare un controsenso, ma non lo sarebbe più se della vita coi suoi personaggi non sfacessero che dei sogni che s’intersecano… Per sogni intendo: visioni del passato che risalgono incrociandosi con una visione che svanisce…". E altrove: "Il mio credo, in arte: l’infanzia. Arrivare a renderla senza alcuna puerilità, con la sua profondità che sfiora il mistero. Il mio libro futuro sarà forse un perpetuo va e vieni insensibile dal sogno alla realtà".
È, di già, la poetica del "Grand Meaulnes", dove da ogni oggetto concreto, da ogni gesto elementare vapora un alone che lo isola, oscillante, inafferrabile e tanto più persuasivo (ecco la ragione dei punti, al termine di tante frasi). "Vorrei che la vita s’illuminasse senza che ci si pensi". In altri termini il miracolo quotidiano, operato sulle cose semplici e ovvie per mezzo della parola "breve e leggera", la più sguarnita, magicamente trasfigurata da una scelta istintiva, che è il segreto dell’arte e non si può spiegare. Forse qualcosa del simbolismo sopravviveva in essa, ma setacciato da un crivello più suscettibile.
La parola-cosa (l’essenza di una cosa) fa il suo ingresso nella coscienza letteraria, un po’ a tentoni, ciecamente calandosi su una materia casuale che non sempre scatta al livello voluto e talvolta ricade come un razzo bagnato che sfrigola e non si accende. E l’ostacolo è sempre il medesimo, la carenza di una intuizione poetica in certo senso artigianale, nemica del mestiere di letterato che, malgrado il suo rifiuto delle convenzioni, neppure Fournier riesce del tutto a evitare.
Il miracolo quotidiano, per la verità l’aveva ottenuto, proprio in quegli anni, una scrittrice occasionale, Marguerite Audoux, una specie di pastorella-sartina che pareva uscita dalle complaintes popolari della vecchia Francia. Il suo "Marie-Claire", libro unico, sebbene seguito da altri, flebili echi del primo, colpì vivacemente Fournier che ne rese conto, nel novembre 1910, sulla "Nouvelle Revue Française". Vi si narra la umile vita di una ragazzina di campagna, con una sobrietà, una precisione tanto austere quanto delicate. Era l’uovo di Colombo ma era anche l’uovo dell’araba fenice e l’aveva scoperto una piccola dilettante. Non c’è dubbio che il suo volumetto contò per Fournier più di qualunque lettura precedente e quasi come una spinta familiare: non abbastanza forte, tuttavia, da distoglierlo dal progetto del "romanzo d’avventure" che l’incontro con Stevenson aveva consolidato.
Non è una novità che lo sviluppo dell’elemento avventuroso, nella seconda parte del "Grand Meaulnes", non fu un esperimento felice. In effetti l’avventura dello scolaro di Sainte-Agathe regge in continua tensione fino al capitolo del "Grande Gioco": di lì scade progressivamente con la figura e le imprese di Franz de Galais, antagonista di comodo. Eppure, anche nell’intrigo artificioso e un po’ melenso delle agnizioni e combinazioni, qualcosa miracolosamente si salva: una freschezza disarmata, una innocenza d’invenzione da rustico novellatore al canto del fuoco. D’altronde, giova sperare che, domani come ieri, basterà ai lettori adolescenti l’incanto della festa al Castello, con le lampade giapponesi appese alle finestre, il sussurro dei fanciulli travestiti, la fata-castellana bellissima e inaccessibile. Le abetaie, gli stagni, le grandi pianure deserte e gelate, i sottoboschi fruscianti son sempre presenti, veduti da occhi miracolosamente infantili. Nonostante gli andirivieni di troppe vicende affannosamente costruite (la stucchevole Valentine, il diario di Meaulnes) ogni episodio si trasforma in favola, come Puccettino o la Bella addormentata. Probabilmente, senza che l’autore se ne avvedesse, non fu Stevenson a dargli una mano ma il grande Perrault, con la sua parola perfetta. Nessuno sfugge alle proprie radici anche se è imprigionato nelle tagliole di un tempo di crisi e deciso a rompere coi propri genitori. Una delle grazie del "Grand Meaulnes" è di essere pieno di echi: forse, chi avesse interrogato Alain-Fourniersull’analogia tra François Seurel con Yvonne morta sul petto e De Grieux che seppellisce Manon, lo avrebbe trovato sorpreso e, chissà, ostile.
È vero: la seconda e la terza parte del romanzo non mantengono le promesse straordinarie della prima; il tono cambia insensibilmente, la poesia si disperde, emerge una certa artificiosità nei personaggi e nelle situazioni. In ciò, a noi pare che presenti delle analogie non superficiali, né occasionali, con un altro grande romanzo, italiano però, che si potrebbe definire, anch’esso, un capolavoro mancato: Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, altro enfant prodige della letteratura, anche lui morto molto giovane, indossando una divisa militare, e anche lui dominato dall’amore romantico, stupefatto, per una dolcissima figura di donna. Come Alain-Fournier, Nievo non ci ha lasciato che un romanzo di valore, mentre tutto il resto della sua produzione non regge minimamente al confronto; anche lui è partito con una evocazione scintillante, incantata, del mondo dell’infanzia — il castello di Fratta, laggiù nella profonda campagna veneto-friulana, con i suoi ritmi ancestrali, i suoi pittoreschi abitanti, e, soprattutto, l’amore infantile, ma decisivo, di Carlino per la Pisana — per poi smarrire quella cadenza felice nel corso dei successivi capitoli, rivelando la fatica e il mestiere dello scrittore, e non più la leggerezza straordinaria del precoce genio autodidatta. Per questo, per la promessa disattesa, per la caduta della felicissima tensione iniziale, Il grande Meaulnes non è un capolavoro, o, piuttosto, lo si potrebbe definire un capolavoro mancato: perché solo la prima parte possiede quello splendore, quella trasparenza, quella — si vorrebbe quasi dire — innocenza, che vanno dritti al cuore del lettore e lo trascinano, prendendolo per mano, in un paese lontano e meraviglioso, che tuttavia — prodigio! — non è chissà dove, ma si cela proprio qui, fra le pieghe della vita quotidiana.
Questo era sempre stato il sogno, questa era sempre stata l’ambizione di Alain-Fournier: riprodurre lo stupore, la meraviglia, l’incanto dell’infanzia, ma non lasciando vedere la riflessione, l’arte e la capacità analitica dello scrittore adulto, bensì con la magica semplicità e immediatezza della stessa adolescenza (Meaulnes, il protagonista del romanzo, è, all’inizio della vicenda, uno studente diciassettenne). Intento diversissimo, come si vede, da quello di Marcel Proust e di altri scrittori decadentisti, perché Alain-Fournier non vuole ricostruire, né, tanto meno, analizzare, il mondo incantato dell’infanzia e della prima adolescenza, ma rievocarlo, nel senso etimologico di ri-chiamarlo indietro, non solo nelle sue atmosfere, ma proprio nel suo sentire originario. Insomma, egli vuole vederlo con gli stessi occhi di allora, di quando il mondo era ancora tutto una rivelazione, pieno di echi e di allusioni, e la razionalità calcolante non ne aveva fatto svanire il fascino, stabilendone i limiti e le misure. Proprio qui, tuttavia, sorge il problema: si può forse volere una cosa del genere? La volontà, l’intenzionalità della coscienza che si propone di ri-evocare quel mondo, non è un atto che contraddice fatalmente la categoria della naturalezza? Come può essere spontanea una visione, quando essa è stata pensata in anticipo? Sono gli stessi interrogativi che ci si pine di fronte alla poesia del nostro Giovanni Pascoli, tanta parte della quale è rivolta verso il medesimo obiettivo, e che si scontra, difatti, con le stesse difficoltà ed aporie. Paragone quanto mai appropriato, dal momento che Alain-Fournier è un romanziere solo quanto alla forma della sua opera; nella sostanza ispiratrice, è un poeta, come lo è il Materlinck de L’uccellino azzurro e di Pelléas et Melisande. E si noti che anche Alain-Fournier, come Maeterlinck, coltivava ambizioni teatrali, oltre che narrative; ci ha lasciato, infatti, incompiuta, una piéce teatrale, La casa nella foresta, oltre che un secondo romanzo, Colombe Blanchet, entrambi abbozzati nel fatale 1914, e interrotti dalla partenza per il fronte, da cui non sarebbe più tornato. Ma avrebbe voluto, poi, ritornare? O non è forse vero che, come le eroine di Picnic a Hanging Rock, una volta intravista la porta magica per evadere dalla prigione dello spazio e del tempo, non avrebbe più desiderato di tornare indietro? Una cosa, almeno, è certa: Alain-Fournier, noi, non riusciamo ad immaginarcelo che così: giovane, con lo sguardo perso lontano, chi sa dove, e con tutti i suoi sogni ancora intatti…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels