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Il mastino dei Baskerville, o le due anime di Arthur Conan Doyle

Nel racconto L’ultima avventura, compreso ne Le memorie di Sherlock Holmes, del 1893, lo scrittore scozzese sir Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859-Crowborough, East Sussex, 7 luglio 1930) faceva morire il suo celebre personaggio, comparso per la prima volta nel racconto Uno studio in rosso del 1887, e vagamente ispirato all’ispettore Auguste Dupin creato da Edgar Allan Poe per I delitti della Rue Morgue, del 1841. Per la verità, i lettori non lo avevamo visto proprio morire; lo avevano "solo" visto precipitare in un crepaccio, nelle tenebre, fatalmente avvinghiato al suo mortale nemico, il losco Moriarty; e avevano udito il suo epitaffio, o qualcosa di molto simile a un epitaffio, dalla voce commossa del suo fedele assistente e collaboratore, il dottor Watson. Lettori i quali, però, non avevano preso affatto bene la "morte" di quello che era diventato il loro beniamino, tanto da non rassegnarsi alla sua prematura dipartita e da richiedere insistentemente all’autore di farlo, in qualche modo, noto solo agli scrittori e ai negromanti, resuscitare. Ed ecco che fra l’agosto del 1901 e l’aprile del 1902, sulla rivista The Strand Magazine, a puntate, apparve un romanzo dal titolo estremamente suggestivo, che segnava il trionfale ritorno in scena del celebre investigatore privato: Il mastino dei Baskerville (The Hound of the Baskervilles), riunito poi in volume nello stesso 1902. È un romanzo un po’ anomalo nell’insieme della produzione letteraria di Conan Doyle, o meglio, nell’insieme del ciclo di Sherlock Holmes (che si sarebbe concluso definitivamente, e questa volta per davvero, con La valle della paura, del 1915); perché, se nei numerosissimi romanzi estranei a questo ciclo, l’autore aveva potuto dare libero sfogo alla sua vena di scrittore del mistero e del terrore (Il guardiano del Louvre, 1890; La mummia, 1892; Il terrore della grotta di Blue John, 1892; Il demone dell’isola, 1897; Il mondo perduto, 1912; Racconti del terrore e del mistero, 1925), in esso aveva creato una ambientazione tipicamente positivista, almeno per quel che riguarda le indagini del protagonista, quasi costrettovi dalla natura del personaggio di Sherlock Holmes, in cui è evidente l’influsso dello scientismo di Thomas Henry Huxley, allora noto come "il mastino di Charles Darwin", per abbracciare il quale, con le sue implicazioni scettiche in ambito religioso e morale, Conan Doyle si era distaccato dal cattolicesimo in cui era stato cresciuto ed educato dalla sua famiglia. Ne Il mastino dei Baskerville egli congiunse e fuse i due generi verso i quali si sentiva particolarmente attratto, in misura quasi eguale, ossia il giallo e il mistero; e diciamo "maggiormente" perché gli interessi di questo scrittore furono amplissimi, visto che — pur se il grosso pubblico lo ignora – egli scrisse anche numerosi romanzi storici e avventurosi, e, in particolare, il cosiddetto "ciclo di Gérard", epopea di un ufficiale francese dell’esercito napoleonico, nonché parecchi romanzi di ambientazione medica.

La vicenda ruota intorno alla tetra e desolata brughiera di Dartmoor, nel Devon, infestata da un cane mostruoso che sembra accanirsi, di notte, contro i membri maschi dell’antica casata dei Baskerville, causandone la more per spavento, da quando una simile fine venne attribuita al malvagio Hugo Baskerville, due secoli prima. L’ultima vittima è stato l’anziano Charles, trovato morto presso il cancello del cortile della sua dimora secolare, Baskerville House: morte che la voce pubblica subito attribuisce alla maledizione della famiglia, tanto più che, al calar del buio, i latrati spaventosi di una bestia furiosa echeggiano a lungo nella valle, riempiendo di spavento anche i cuori più intrepidi. A ereditare la casa e i beni giunge sul posto l’ultimo rampollo, il giovane e gentile baronetto sir Henry, che sembra trovare anche l’amore nella persona di una avvenente ragazza, Miss Stapleton, sorella di un vicino di Baskerville House, la quale, però, si rivelerà una collaboratrice, forse forzata, della mente criminale di tutto l’intrigo, che la fa passare per sua sorella, mentre è una sua complice e anche, in qualche misura, una vittima. Fin dall’arrivo di sir Henry, infatti, appare evidente che la sua vita versa in grave pericolo; tanto che il suo amico, dottor Mortimer, non esita a chiedere l’aiuto di Sherlock Holmes, il quale accetta di prendere sotto la sua protezione, insieme all’inseparabile dottor Watson, il baronetto, pur rifiutandosi di credere alla storia della maledizione. Anche lui, però, quando — lasciata la sua confortevole casa londinese e recatosi in quella contea solitaria – si trova al buio, nella brughiera avvolta dalla nebbia, e ode con i suoi propri orecchi i latrati spaventevoli di un animale feroce e sconosciuto, per un attimo sembra sul punto di vacillare nella sua incrollabile fede razionalista; tuttavia si riprende e, convinto che la spiegazione della vicenda debba trovarsi, non in qualche evento sopranaturale, ma nel piano diabolico di un essere umano ancora non identificato, svolge alacremente le sue indagini e infine, afferrato il bandolo della matassa, tende una trappola al misterioso nemico. Così, una notte, dopo un lungo appostamento nelle tenebre, carico di tensione e d’inquietudine, l’esecutore materiale delle uccisioni viene abbattuto a colpi di pistola: è un grosso mastino che, però, non ha niente di soprannaturale, a parte la taglia notevole e l’indole feroce, peraltro accresciuta dal fatto di essere stato tenuto a digiuno nei giorni precedenti le sue apparizioni; però "truccato" con della polvere di fosforo, sparsa sul pelo e intorno agli occhi, in modo tale da fargli assumere l’aspetto luminescente di un agghiacciante fantasma notturno e, forse, infernale. Quanto al suo padrone, nonché abile regista dell’intero piano criminale, che si faceva passare per l’innocuo signor Stapleton, mentre era il crudele Rodeger Baskerville — il quale, naturalmente, voleva eliminare l’ultimo membro della famiglia allo scopo d’impadronirsi della intera eredità — riesce momentaneamente a sfuggire alla cattura, ma si inoltra nella palude da cui nessuno è mai uscito vivo, specialmente se al buio, disseminata, com’è, di profonde e insidiose sabbie mobili.

Ci sembrano illuminanti le riflessioni di Fabio Giovannini, genovese, classe 1958, giornalista e saggista specializzato nella letteratura del terrore, nel suo saggio introduttivo a Il mastino dei Baskerville (Roma, Newton & Compton, 1995, pp. 6-8):

Lo spunto del romanzo venne suggerito a Conan Doyle da un suo conoscente. Aveva infatti parlato del progetto di un nuovo romanzo a un amico giornalista, Fletcher Robinson. E fu proprio Robinson a raccontare a Conan Doyle alcune leggende terrificanti su un grande cane al centro di una maledizione spaventosa. Ecco trovato il cuore del prossimo libro su Sherlock Holmes. Inoltre, il cocchiere della famiglia Robinson si chiamava Harry Baskerville, e con grande intuizione lo scrittore scelse quel cognome d’effetto per la nobile famiglia che doveva comparire nel racconto.

Il racconto macabro di Robinson fece sicuramente una facile breccia nella fantasia di Conan Doyle, che aveva da sempre dimostrato la sua passione per il gotico e si era affidato più volte agli insegnamenti della letteratura del terrore. Questo gusto per il gotico e l’inquietante lo colloca in sintonia con molti autori inglesi del fantastico, anche tra i più recenti. David Punter, per esempio, lo mette accanto al nome di James G. Ballard, considerato un riferimento essenziale per la fantascienza contemporanea più dinamica, fino allo stesso cyberpunk.

Già nelle prime stile giovanile, Conan Doyle si era abbandonato al soprannaturale, senza preoccuparsi di dare per veritiera l’esistenza di fantasmi e mostri incredibili. Aveva scritto il suo primo racconto del terrore nel 1879, quando era ancora studente: la storia di alcuni diamanti straordinari, "The Mystery of Sarassa Valley"apparso sul "Chamber’s Journal". Ma continuò ad appassionarsi al mistero e all’inquietante per tutta la vita. Anzi, in vecchiaia finì dileggiato per i suoi articoli in cui sosteneva di credere alle fate, con il supporto di una documentazione fotografica che presto si rivelò solo un facile fotomontaggio. Però quando scriveva le avventure di Sherlock Holmes tutto doveva essere spiegato razionalmente: non ci sono mastini mostruosi, nelle paludi inglesi, ma solo cani truccati per opera di perfidi criminali.

Arthur Conan Doyle sapeva come "fare paura" scrivendo. Lo aveva dimostrato nei suoi racconti del terrore, e con lo stesso stile si dedicò a Sherlock Holmes, per creare tensione, ansia, angoscia. "Il mastino dei Baskerville", del resto, è "anche" un romanzo dell’orrore. Forse la modernità del "Mastino", che ha permesso a questo libro di mantenere intatta la sua carica e la sua capacità di suscitare brividi, sta proprio nell’essere situato in un’intersezione fra reale e fantastico, allo stesso modo di tante opere letterarie o visive di oggi, dalla fantascienza cibernetica al neo-noir. Quasi tutto il romanzo si dipana in una atmosfera di cupo terrore, con l’impressione costante di aver a che fare con una maledizione ancestrale e con un pericolo inspiegabile annidato nel buio della brughiera. Invece, alla fine, siamo riportati alla realtà concreta. È una rivelazione attesa, perché sappiamo che Holmes non può accettare l’incredibile, deve a tutti i costi spiegare razionalmente i crimini con cui si confronta. Ma la forza del romanzo sta soprattutto in quel’atmosfera sospesa tra superstizione estrema e realismo: si resta affascinati dalla storia dei Baskerville proprio perché non si conosce la vera dimensione in cui si svolgono quelle morti, e si palpita per il sospetto che davvero, dalle paludi della Gran Bretagna, possa all’improvviso apparire un mostro a quattro zampe, con le fauci pronte a mordere e intento a lanciare ululati spaventosi.

L’intreccio giallo, che di solito chiede un’indagine per scoprire le motivazioni di un assassino, e quindi rivelarne l’identità e consegnarlo alla giustizia, si arena in questo caso di fronte a un omicida disumano, che colpisce alla cieca, che può sbranare chiunque si avventuri alla leggera nei vapori nebbiosi. Il mastino, allora, assomiglia ai serial killer di questa nostra fine di secolo bestie feroci che possono apparire ovunque. E del resto, nel romanzo di Conan Doyle il mastino infernale è solo un semplice cane, assolutamente normale senza le truccature che lo rendono terrorizzante.

Holmes non può scoprire i moventi dell’assassino, perché in questa occasione l’assassino non è umano e non risponde ai meccanismi in fondo semplici e automatici che permettono alla scienza investigativa di identificare il colpevole. Non bisogna fermarsi di fronte all’assassino più evidente (il cane mostruoso), ma andare oltre e risalire agli esseri umani che di quell’assassino bestiale si servono per i loro scopi.

C’è un particolare che può sfuggire al lettore non inglese di questo romanzo, che è bene conoscere, cioè che le campagne inglesi e scozzesi sono letteralmente brulicanti di spettri, non sol umani, ma proprio di animali misteriosi e specialmente di grossi cani e altri animali, simili a grandi felini, dal pelo nero, sulla cui reale natura si disputa da sempre, ma che, in ogni caso, paiono avere una consistenza ben maggiore di pure e semplici leggende, come avviene, nel resto d’Europa, per la maggior parte delle storie folcloristiche nelle quali figurano creature analoghe. Una storia della criptozoologia è sempre corredata da un capitolo dedicato agli strani abitanti delle campagne inglesi; così, ad esempio, nel libro di Christian Filagrossi, Animali fantastici? (Milano, Gruppo Editoriale Armenia, 2003) e in quello, ormai classico, e particolarmente accurato e attendibile, di Jean-Jacques Barloy, Animali misteriosi (Roma, Lucarini Editore, 1987) non manca la storia della "bestia di Exmoor" e quella del "puma del Surrey", animali elusivi e incredibili che sembrano avere qualcosa di più delle "semplici" apparizioni, ma anche qualcosa di meno delle creature di carne e sangue, come lo sono tutte quelle di questo nostro mondo fisico. E qui chiudiamo la parentesi, facendo però notare che il contesto culturale e folcloristico in cui si colloca un romanzo come Il mastino dei Baskerville implica anche un clima psicologico del tutto particolare, che solo un inglese (o uno scozzese) può comprendere a pieno, e che contribuisce a spiegare, forse, il suo straordinario successo di pubblico, ben presto dilagato nella nascente "decima Musa" e tale da generare parecchie versioni cinematografiche, e, poi, anche televisive, come se i lettori e gli spettatori non ne fossero mai completamente e definitivamente sazi. Quasi che si tratti di un capitolo destinato a rimanere aperto, in ossequio a un copione non scritto e, tuttavia, chiaramente sottinteso.

Senza dubbio, Il mastino dei Baskerville è un classico. Non è, tuttavia, un capolavoro; Conan Doyle è un onesto romanziere di genere, ma non ha certo la statura del genio: gli mancano completamente la profondità, la sottigliezza e, diremmo, l’inquietudine interiore che caratterizzano la personalità e l’opera dei grandi scrittori, e che traspaiono anche nelle loro opere minori e meno riuscite (come Le notti bianche o Il giocatore di Dostoevskij, tanto per fare un esempio). Non solo Conan Doyle non ha la statura dello scrittore di genio, ma il personaggio di Sherlock Holmes è di natura siffatta, che, da esso, non potrà mai scaturire qualcosa di veramente grande. La sua visione del mondo, infatti, per quanto acuta sia la sua intelligenza, è incredibilmente ristretta, confinata, com’è, nei rigidi limiti di uno scientismo a tutta prova, e che ha tutta l’aria del surrogato razionalista d’una perduta fede religiosa. Peccato, perché l’animo di Conan Doyle, come abbiamo accennato, è più vario e più ricco di quello del suo troppo famoso investigatore: il suo è uno di quei casi — non rarissimi, in verità — nei quali lo scrittore finisce intrappolato nella rete del suo stesso peonaggio, la cui personalità si rivela più forte della sua, e che lo costringe a muoversi entro un orizzonte prestabilito, divenendo, in qualche modo, ripetitivo e prevedibile. Si ha quasi l’impressione che, nell’animo dello scrittore, vi sia stata una lotta fra la sua componente fantastica e immaginativa, in senso lato "religiosa" (se religioso è colui che crede nel mistero e nel limite umano) e le sue successive, ferree convinzioni positiviste e darwiniane, escludenti in ogni caso tale componente, per la pretesa di tutto poter comprendere, e, più ancora, di tutto poter spiegare, con il solo ausilio della ragione investigativa, ossia del Logos strumentale e calcolante. E lo scioglimento del mistero che si cela nella brughiera di Dartmoor, in chiave puramente logica e scientifica, rappresenta la vittoria di questo super-io dell’autore, sopra la sua componente extra-logica ed extra-razionale (ma non già, si badi, illogica e irrazionale): una vittoria di stretta misura, peraltro, come se perdurassero il rimpianto e la nostalgia di quel mistero che si è dissolto sotto la fredda luce della ragione di Sherlock Holmes. Il quale, da parte sua, non si può certo dire un uomo felice, nel senso di "risolto" e pacificato, se è vero — come è vero – che, per tirare avanti nei suoi ricorrenti periodi di depressione, deve fare ricorso alla morfina e alla cocaina. Eppure è un uomo di successo, non ha preoccupazione economiche, e, inoltre, gode di ottima salute, è un eccellente schermitore, e coltiva interessi intellettuali e culturali molto vasti, senza però saper rompere il cerchio stregato di una sorta di sottile e subdola angoscia esistenziale. In altre parole, egli è un eroe che libera gli altri, ma non sa liberare se stesso; è, perciò, un anti-eroe, molto più vicino agli inetti sveviani, o, quanto meno, agli uomini senza qualità di Musil, di quanto non si pensi (e si tenga ben presente che Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità, è, anch’egli, una persona d’intelligenza assai superiore alla media, versato in algebra e in fisica matematica), dato che ha in comune con essi la cosa più importante: la mancanza di senso della propria vita. L’angoscia esistenziale di Sherlock Holmes deriva da qui: e così come stordisce la depressione con le droghe, allo stesso modo stordisce il vuoto che lo divora con le inchieste poliziesche, le quali, per lui, sono qualcosa di paragonabile alla soluzione d’un cruciverba per un lettore de La settimana enigmistica. In tali giochi della mente egli dispiega la sua intelligenza logica, la sua energia fisica e, forse, un certo amore per la giustizia; ma non si lascia mai coinvolgere nel senso profondo del termine. Non è neanche paragonabile al commissario Maigret, da questo punto di vista; e, quanto a padre Brown, ne è quasi l’esatto opposto. Abbiamo già esplorato entrambe queste linee di ricerca (cfr. i nostri precedenti articoli: Quel commissario così solidamente borghese che finiamo per amarlo anche nostro malgrado, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 24/03/2010; e Le ragioni dell’anima di Padre Brown nel rispetto del mistero umano, su Il Corriere delle Regioni), per cui non staremo qui a ripetere cose già dette. Tuttavia, ci preme ribadire un concetto: per servire la causa della giustizia, bisogna avere l’anima pacificata; diversamente, ci si carica di un compito superiore alle proprie forze e non si va mai al cuore del problema. Sherlock Holmes – e con lui Conan Doyle – non arriva mai al cuore del problema, che è, poi, in sostanza, il problema del male. Analizza molto bene il fenomeno, ma gli rimane estraneo il noumeno, la cosa in sé. Il fatto che, ne Il mastino dei Baskerville, questa dicotomia dell’autore sia velata con discreta maestria, non deve ingannare sulla sostanza del problema. Così come lo stile di Petrarca, armonioso e classicheggiante, maschera, non risolve, il dissidio interiore del poeta, così anche nel caso di Conan Doyle una trama avvincente, un’ambientazione superba, una intrigante dose di mistero, non bastano a nascondere del tutto il fatto che, all’autore, un po’ come al suo eroe, gli abiti del detective*-scienziato vanno alquanto stretti, perché sacrificano una parte notevole della sua personalità; forse, quella realmente vitale. In un certo senso, Conan Doyle — e, con lui, Sherlock Holmes — si auto-mortifica, in omaggio al credo rigidamente scientista di confessione huxleiana. Ma è un sacrificio esagerato e, in fondo, inutile. Solo negli ultimi anni della sua vita, "liberatosi" di un ormai ingombrante Sherlock Holmes, Conan Doyle poté dar pienamente voce all’altro polo della sua personalità, cominciando dalla credenza nelle fate, cui si abbandonò con un candore infantile…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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