
Perché esistono le cose invece del niente?
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13 Luglio 2017Se l’Italia fosse un Paese normale, conscia di se stessa e fiera dei suoi uomini migliori, un film d’animazione come La rosa di Bagdad, uscito nelle sale nel 1949, ma incominciato nel 1941, dalla IMA Film appositamente costituita, e interrotto poi a causa delle drammatiche vicende belliche della Seconda guerra mondiale, sarebbe conosciuta, apprezzata, amata e citata da qualsiasi italiano di media cultura; tutti i bambini italiani l’avrebbero vista, tutti gli insegnanti la conoscerebbero, e la videocassetta sarebbe regalata dai genitori, dagli zii o dai padrini della cresima a tutti i piccoli e le piccole, invece di insulsi film stranieri o, peggio, dell’onnipresente e dannosissimo smartphone, che sta incretinendo un’intera generazione di ragazzini.
Se l’Italia fosse un Paese normale, come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna, e non un Paese che disprezza se stesso e adora tutto ciò che è straniero, il nome del suo regista, Anton Gino Domeneghini (Darfo Boario Terme, in Valcamonica, provincia di Brescia, 30 aprile 1897-Milano, 6 novembre 1966) sarebbe oggi conosciuto, stimato e decantato quanto, o più, di quello di Walt Disney, tanto più che a lui spetta il vanto di aver realizzato il primo film italiano in Technicolor (insieme a I fratelli Dinamite di Nino Pagot) e il secondo lungometraggio d’animazione europeo (dopo il tedesco Il principe Achmed di Lotte Reiniger, del 1926).
Infine, se l’Italia fosse un Paese normale, La rosa di Bagdad, i cui splendidi disegni animati sono opera del pittore e illustratore Libico Maraja (Bellinzona, 15 aprile 1912-Montorfano, Como, 30 dicembre 1983), aiutato da Guido Zamperoni e alcuni altri, e la cui lavorazione, faticosissima, aveva richiesto, a guerra finita, l’invio della pellicola a Londra, per l’elaborazione in Technicolor, e un nuovo montaggio a Roma, per mano di Lucio De Caro, il pubblico l’avrebbe apprezzato al suo giusto valore e sarebbe stato orgoglioso che un regista italiano avesse realizzato un film di tale qualità; invece, nonostante l’assegnazione del primo premio al Festival del Cinema per ragazzi di Venezia, e nonostante che la casa editrice Mondadori ne avesse ricavato un album a fumetti, per la matita di Piero Zamperoni, nel 1950 (Albo d’Oro n. 242 del 30 dicembre), i meritatissimi riconoscimenti di pubblico non ci furono e l’affluenza nelle sale cinematografiche fu modesta. Tanto che Domeneghini, qualche anno dopo, deluso, abbandonò la strada del cinema e ritornò al suo precedente lavoro di grafico pubblicitario.
Così finiscono, da noi, presto o tardi, più spesso presto che tardi, le cose belle; il talento va sprecato, non viene riconosciuto, non viene valorizzato; vanno avanti i raccomandati, i furbi, i senza scrupoli; vanno avanti gli stranieri, in tutti i campi, solo per l’inguaribile esterofilia degli italiani; non c’è verso di fare in modo che tutta la bravura, l’entusiasmo, la tenacia, la passione di tanti artisti, scrittori, musicisti, registi, ricercatori, trovino la loro giusta collocazione, e che possano contribuire alla crescita, al prestigio, alla ricchezza del nostro Paese. Storia di ieri, storia di oggi, con decine di migliaia di giovani laureati, sovente a pieni voti, che si vedono costretti a lasciare l’Italia per cercare all’estero quella sistemazione e quel riconoscimento che, in casa loro, paiono impossibili; e questo mentre una legione di conformisti, di leccapiedi, di mediocri, e soprattutto, come sempre, di raccomandati, occupa beatamente tutte le posizioni di prestigio, tutte le cattedre, tutte le redazioni dei giornali, tutte le case produttrici cinematografiche, tutte le case editrici e la stampa periodica: con il bel risultato che, pur avendo sia i talenti, sia la tecnologia per fare praticamente qualsiasi cosa, dal mandare una navicella spaziale nelle profondità del Sistema Solare, a brevettare una nuova invenzione utile e redditizia, a costruire i ponti, le dighe e scavare i trafori più imponenti del mondo, di fatto non siamo capaci di tenere in piedi e di amministrare dignitosamente neppure il nostro patrimonio storico, artistico e archeologico, e tanto meno di salvaguardare la bellezza dei nostri stupendi paesaggi naturali, che turisti innamorati dell’Italia vengono (o piuttosto venivano) da ogni angolo del globo, per ammirarli con vera devozione.
La storia de La rosa di Bagdad è come una fiaba de Le Mille e una notte, ma percorsa da una fede nel Bene e da una confidenza nell’aiuto di Dio che le dà una caratteristica intonazione morale; e, benché ambientata in un Paese islamico, come la Mesopotamia dei Califfi, in un’epoca imprecisata del passato, risulta perfettamente in linea con la dottrina cristiana: cosa importante, se si considera che l’Italia degli anni ’40 era un Paese ancora molto legato alla religione, e, d’altra parte, in controtendenza rispetto al filone emergente del neorealismo, il quale, pur nato nel periodo fascista (cosa che veniva deliberatamente ignorata), voleva interpretare una nuova coscienza civile, figlia della Resistenza e perciò, in qualche modo, laica. La voce fuori campo del narratore inizia così
In un tempo lontano, sulla terra d’Oriente, in quella Bagdad fiorita che aveva mille minareti e mille giardini, viveva un popolo felice e laborioso. Regnava Oman III, il califfo più buono e più ingenuo che mai fosse esistito sulla terra. Il popolo, all’inizio della nostra storia, si preparava a una grande festa. Al volgere del terzo sole, la principessa Zeila, nipote del califfo Oman, avrebbe scelto il suo sposo fra i principi delle tre città sul fiume. Sembrava che nessuna nube avrebbe mai offusca l’azzurro di quel cielo sereno. Ma nelle contrade oltre il Tigri, là dove spadroneggiava lo sceicco Jafar con mago Burk, suo perfido consigliere, il tradimento era in agguato…
Jafar, assistito dal malvagio Burk, ha escogitato un piano per sposare la tredicenne Zeila e inglobare il regno di Omar nei propri domini: fare in modo che nessun altro pretendente raggiunga la capitale, e così, presentandosi da solo, ottenere la mano della principessa, cosa tanto più facile dato il carattere debole e irresoluto del califfo. Un messo viene spedito da Oman, su una barca, lungo il Tigri, per invitare i principi della zona; ma Burk spicca il volo con il suo mantello magico, che lo rende simile a un grande, sinistro pipistrello, e lo trasforma, con tutta l’imbarcazione, in uno scoglio emergente dai flutti. Intanto la leggiadra Zeila, ignara, si esercita nel suo giardino nell’arte del canto, accompagnata dal suo giovane maestro di musica, Amin, che, cresciuto con lei come un fratello, ne è segretamente innamorato. Jafar si presenta ad Oman e gli chiede la mano di Zeila; questi, imbarazzato, cerca di prendere tempo, sostenuto dai suoi tre fidati e onesti consiglieri, però terribilmente pasticcioni: Tonko, Zirko e Zizzibé — i personaggi comici della vicenda –, ma Jafar ottiene da Burk un anello fatato che, messo al dito di Zeila, la farà innamorare, contro sua voglia, dello sgradito pretendente. Amin, sospettando qualche intrigo, ha seguito Jafar ed è venuto a conoscenza della storia dell’anello; la sua gazza ammaestrata Kalinà ruba l’anello e sventa così il diabolico piano. Amin, però, viene scoperto e rapito da Burk, che lo conduce prigioniero nel suo castello e, per punirlo di aver osato ostacolare i piani di Jafar, lo trasforma in un negretto, così che nemmeno sua madre, la vedova Zobeide, potrebbe più riconoscerlo. Anche l’anello viene recuperato da Burk; Kalinà si lancia eroicamente contro di lui, per difendere il suo padroncino, ma viene afferrata e scagliata contro un disco di rame appeso al muro, dove resterà, morta, come un tragico trofeo di caccia.
Ora Jafar può tornare alla corte di Omar e regalare ad Zeila l’anello, raccomandandole di tenerlo sempre al dito: e subito la magia l’afferra, e l’ignara fanciulla si crede follemente innamorata del principe. Le nozze vengono fissate di lì a pochi giorni e Amin, disperato, prigioniero, è impotente a fare qualsiasi cosa. Tenta allora di fuggire, e sembra quasi riuscirci: mentre Burk sonnecchia davanti alla fiamma, riesce a tagliare un lembo del suo mantello magico e, con quello, si slancia giù dall’altissima montagna, su cui sorge il castello; ma il mago se ne accorge quasi subito, lo insegue e, dopo un drammatica lotta nel vuoto, gli strappa il suo piccolo mantello e lo fa precipitare, dall’alto, nelle acque del Tigri, ove scompare. Intanto la sua misteriosa assenza è stata notata e, per ordine del preoccupato Omar, iniziano le ricerche. I tre ministri del califfo, indossate le loro buffe armature e montati in groppa ad un unico cammello, partono personalmente alla ricerca del giovinetto; ma, giunti in un giardino incantato che fa parte del dominio di Burk, sono invitati dalla negra Maimana, assistente del mago, a bere alla fonte della giovinezza, e ne bevono tanto che ridiventano tre poppanti di poche settimane. A questo punto Maimana se li prende in braccio e li porta nelle rispettive culle.
Tutto sembra perduto, dunque; ma ecco che, nel momento più tragico della storia, intervengono, in aiuto dei buoni, le forze del Bene. La mendicante Fatima, che Amin ha sempre beneficata, e che è, in realtà, una maga potente, si presenta al ragazzo e gli dona la lampada di Aladino, con tanto di Genio, incitandolo a usarla per sconfiggere i suoi nemici. Aladino evoca il Genio e questi lo trasporta nel castello di Burk, che viene sfidato in un duello di magia, alla fine del quale il crudele stregone perisce tra le fiamme. In quel preciso istante, tutte le malvagie azioni di Burk vengono annullate: la pelle di Amin riacquista il suo colore bianco; il messaggero, che era stato mandato sul fiume, da pietra ridiventa uomo, e riprende a remare; i tre ministri ridiventano adulti; e l’anello magico scompare dal dito di Zeila, che, subito, rifiuta sdegnosamente le profferte di Jafar. Infuriato, questi chiama la sua gigantesca guardia del corpo, che soleva frustare tutti quanti al passaggio del padrone, per catturare la fanciulla; ma ecco che Amin, dietro suggerimento del Genio, incomincia a suonare il flauto, e la musica trascina irresistibilmente sia il gigante, sia il perfido Jafar, in una danza indiavolata, che li condurrà, un passo dopo l’altro, a precipitare a capofitto nel fiume, scomparendovi per sempre. Da ultimo, sorpresa infinitamente gradita per Amin, anche la sua amata Kalinà ritorna, svolazzando, presso di lui: pure quella malvagia azione di Burk, dunque, è stata annullata, e la madre del ragazzo, Zobedie, consolata, può riabbracciare suo figlio. Per completare la felicità generale, il vecchio Oman decide di far fidanzare Amin con Zobeide, dopo che i due giovinetti si sono confessasi i reciproci sentimenti: le nozze, però, sono dilazionate di qualche anno, data la giovane età dello sposo. Nella grandiosa scena finale, la città di Bagdad, di notte, viene illuminata da mille fuochi d’artificio per celebrare il lieto evento di quelle nozze da favola, con Amin che diventa il nuovo califfo e con Zobeide che rifiuta il titolo e il rango di regina, perché, dice con semplicità, una mamma è sempre una regina.
La storia, ideata da Domeneghini e sceneggiata da Enrico D’Angelo e Lucio De Caro, con le musiche di Riccardo Pick Mangiagalli e le scenografie, come si è detto, realizzate principalmente da Libico Maraja, prende lo spettatore, è avvincente, fantasiosa, piena di poesia e di delicatezza, con la voce pastosa e intrigante dell’attore e doppiatore livornese Stefano Sibaldi (già primo attore di Sem Benelli). Il ritmo è indovinato, né troppo rapido, né troppo diluito (la durata complessiva è di 76 minuti); gli intermezzi comici o descrittivi sono di valore un po’ diseguale, talvolta troppo scopertamente disneyani, nel senso leggermente lezioso del termine, come nella danza dei tre serpenti ammaestrati, altre volte, invece, simpaticissimi, come nella scena di Kalinà che, punita per l’ennesimo furto (del sonaglio di un tamburello che Amin stava costruendo) viene spedita in castigo nella gabbietta-prigione, e vi si aggira a grandi passi, mortificata e furente, per poi rassegnarsi ed acquattarsi con aria sdegnosa, coprendosi la testa con la piccola ala. La sequenza in cui il mago Burk insegue Amin e cerca di acchiapparlo al volo, per strappargli il mantello magico, e più volte sembra riuscirci, ma poi quello gli sfugge all’ultimo istante, è un semplice, ma schietto pezzo di bravura: molto ben realizzata, risulta altamente emozionante e tale da tenere lo spettatore con il fiato sospeso. I paesaggi, poi, sono una delle cose più belle: l’antica foresta piena di ombre e vagamente paurosa; l’ameno giardino dove Zeila si esercita nel canto e quello, paradisiaco ma ingannevole, dove i tre ministri verranno trasformati in poppanti; i ruderi di una’antica città abbandonata, dalle pietre ciclopiche ed i bassorilievi misteriosi (che ricordano le città maya dipinte ad acquerello da Catherwood, nel XIX secolo); il monte dirupato su cui è appollaiato il castello del mago; il Tigri che scorre impetuoso e spumeggiante fra due rive scoscese, sullo sfondo di ardite montagne incombenti: ogni elemento è ben disegnato, con grande cura dei particolari, e i giochi di chiaroscuro rendono le scene en plen air ancora più suggestive.
Ci piacerebbe che questo piccolo capolavoro dimenticato, che una volta, quasi distrattamente, fu mandato in onda alla televisione (su Rete quattro), venisse riscoperto e ricevesse l’onore e l’ammirazione che si merita: sarebbe un risarcimento, e sia pure postumo, alla fede, all’inventiva e alla tenacia di Anton Gino Domeneghini, il quale, con mezzi rudimentali, anche durante la guerra, anche sotto i bombardamenti, non si scoraggiò, né smise mai di credere nella sua opera e riuscì, dopo quasi dieci anni di fatiche e sacrifici, a portarla nelle sale cinematografiche, per ricevere infine un’accoglienza così fredda e ingrata. Fu un grande artista; ne avessimo ancora, di registi come lui…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Dmitry Demidov from Pexels