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Prudenzio, ovvero la nascita della poesia cristiana

Il problema — ché di un problema, e di un arduo problema, si trattava — che gli esponenti della nascente cultura cristiana dovettero affrontare, mano a mano che la loro religione guadagnava spazio nella società romana della tarda antichità — era se, e in quale misura, e in che modo, e in quale prospettiva, si potesse fare poesia, cioè poesia, appunto, cristiana, distinta da quella latina pagana, sulla quale anch’essi, come tutti, avevano studiato e si erano formati, giungendo a innamorarsi delle Muse e del loro canto.

Fare poesia, comporre dei versi: perché, a quale scopo? Non era forse una vana maniera di celebrare cose illusorie, beni caduchi, o peggio, peccaminosi, a cominciare dall’amore; o, nel migliore dei casi, una inutile distrazione, un dilungarsi lontano dal vero Dio, per inseguire vani fantasmi e apparenze di felicità e di bellezza? Oppure si poteva fare poesia anche in altro modo, volgendo lo sguardo alle cose celesti e lasciandosi dietro le spalle i richiami di questo mondo? Si poteva, con i versi, celebrare Gesù Cristo, il suo Vangelo, le cose da Lui insegnate, i nuovi valori sui quali si fondava la sua religione? D’altra parte, come fare poesia ignorando i grandi, insuperabili modelli classici, che erano, pur sempre, modelli pagani? Chi poteva presumere di comporre dei versi migliori di quelli di Virgilio; chi poteva anche solo immaginare di poter non già superare, ma anche solo eguagliare la smagliante bellezza, la levigata perfezione delle Bucoliche, o delle Georgiche, o dell’Eneide? E poi c’erano Lucrezio, Catullo, Orazio, Tibullo, Properzio, Lucano; per non parlare dei prosatori, Cesare, Cicerone, Sallustio, Livio, Seneca, Tacito, Quintiliano, Plinio il Giovane: su di essi aveva studiato ogni giovane di buona famiglia, e anche solo l’idea di poter competere con loro doveva apparire assurda, in una cultura, come quella romana, che viveva nel culto della classicità. Infatti, ancora nel IV secolo, cioè alla vigila della fine, i poeti pagani, Claudiano, Rutilio Namaziano, a quelle fonti continuavano ad abbeverarsi e in esse, e in esse soltanto, cercavano di rinvigorire la loro ispirazione poetica.

Problema nel problema: il rapporto tra forma e contenuto. Molti intellettuali cristiani ammiravano incondizionatamente la forma dei poeti e degli scrittori classici, cioè pagani: li ritenevano dei maestri insuperabili di bello stile. Tuttavia, era possibile prenderli a modello per fare una poesia cristiana, cioè per cantare la visione cristiana della vita? È possibile, in poesia, separare drasticamente la forma dal contenuto, prendere l’una e lasciare l’altro, come proponeva di fare Paolino da Nola, secondo il quale si può trarre dai poeti classici lo stile ornato, allo stesso modo in cui si traggono le spoglie del nemico vinto in battaglia? Oppure la forma è inseparabile dal contenuto, e un contenuto pagano è irrimediabilmente destinato a "contaminare" anche la forma, rendendola inutilizzabile in senso cristiano? Problema di assai ardua soluzione, anche questo. Si trattava, niente di meno, di creare, dal nulla, una nuova tradizione: ma innestandola sull’antica, o tagliando decisamente i legami con quest’ultima, e procedendo su un terreno del tutto vergine e inesplorato?

Colui che pose mano a tutti questi problemi e diede loro uno scioglimento esemplare, prima e meglio di chiunque altro, fu lo spagnolo Aurelio Prudenzio Clemente, nativo di Saragozza o di Tarragona, nel 348, alto funzionario imperiale durante il regno di Teodosio il Grande, poi ritiratosi a vita privata, per coltivare la religione e, appunto, la poesia, e morto, probabilmente, nel 405, visto che dopo quella data non se ne hanno più notizie. Non solo è stato un autentico poeta, in un’epoca di sempre più stanchi e banali imitatori di Virgilio; ma è stato anche colui che ha posto la prima pietra dell’edificio, ancora tutto da costruire, della nuova poesia cristiana, affrontando e risolvendo tutti quegli interrogativi, tutti quei nodi, ai quali abbiamo testé accennato. E lo ha saputo fare con tanta naturalezza, con tanta spontaneità, con tale sicuro intuito d’artista, da tracciare una strada e offrire una solida base per tutti quelli che sarebbero venuti dopo.

Ci rimettiamo, ancora una volta, al filologo classico Italo Lana (1921-2002, che fu docente di Letteratura latina all’Università di Torino, per delineare la prospettiva generale della poetica prudenziana (da: I. Lana. La letteratura latina. Disegno storico della civiltà letteraria di Roma e del mondo romano, Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 1970, pp. 473-475):

Per capire la poesia di Prudenzio occorre partire dalla sua "Praefatio": essa è concepita come un esame di coscienza, che il poeta, compiuti cinquantasei anni, sentendosi vecchio e quindi ormai vicino alla morte, fa pubblicamente al cospetto di Dio, allo scopo di mettere in chiaro che cosa di utile per la vita eterna egli abbia sinora fatto, in così lungo tratto di tempo. La "Praefatio", per ciò, si risolve in una confessione pubblica delle colpe del poeta, a ci tiene dietro, in conseguenza della riflessione che la vita vola via veloce e che quanto sinora ha fatto non gli gioverà per la vita eterna, il proposito di spogliarsi della "stoltezza" della vita passata e di cantare le lodi di Dio con la voce, se coi meriti non può ("saltem voce Deum concelebret, si meritis nequit").

Per quanto in particolare riguarda l’atteggiamento di Prudenzio di fronte alla poesia, dalla "Praefatio" appare chiaro che egli concepisce la poesia come il mezzo, di cui si è servito a cominciare dal momento in cui si è volto più fermamente ad una vita cristiana e di cui vuole continuare a servirsi sino alla fine della vita, per fare qualcosa di utile per la vita eterna: però la poesia viene considerata, non come un valore di eccezionale importanza e degno della massima considerazione, ma semplicemente come l’unico mezzo a disposizione di Prudenzio per fare qualcosa di accetto a Dio: egli, che non è capace di farsi "meriti", di compiere cioè azioni meritorie, può soltanto cantare le lodi di Dio. In altre parole, tutto ciò che egli è stato ed ha avuto durante i lunghi anni trascorsi lontani da Dio, immerso nel peccato e nella stoltezza, tutto abbandona e rinnega, salvo la sua capacità di scrivere poesie, che ora indirizza, però, esclusivamente a Dio. Lungi perciò dal contrapporre i valori poetici ai valori più propriamente religiosi e cristiani, la "voce" ai "meriti", egli considera la poesia come la maniera più umile e meno meritoria, ma pur sempre "utile", per rendersi accetti a Dio. L’umiltà profonda, che distingue Prudenzio dopo la conversione, distingue anche il concetto che egli ha della poesia.

Dall’"Epilogus", poi, apprendiamo che, per Prudenzio, la poesia ha diritto anch’essa a stare nella "casa del Padre", perché anch’essa è utile all’unico Signore; v’è una gradazione di valori, naturalmente, e la poesia, come s’è visto, non è certo da collocare al primo o ad uno dei primi posti: tuttavia, quello che conta rilevare è il fatto che per Prudenzio, essa è pienamente legittima nel mondo cristiano. A due condizioni, però, che ne chiariscono il senso e ne definiscono i limiti, riguardanti l’una il poeta: egli deve essere tale per vocazione divina; l’altra la poesia: essa deve cantare le lodi del Signore. È estremamente importante mettere in rilievo che, nel capovolgimento di tutti i valori compiuto dal Cristianesimo, secondo Prudenzio la poesia conserva una sua funzione, legittima al cospetto di Dio e si vede riconoscere una autonomia larghissima, di fronte ai valori terreni.

Anche per questa sua consapevolezza del problema dell’inserimento della poesia nella nuova visione cristiana della vita, solo a Prudenzio si può riconoscere, in questi primi secoli, il titolo di poeta cristiano, pienamente cristiano: perché solo Prudenzio riesce ad avere una concezione cristiana della poesia: e il Cristianesimo, il quale come per ogni altro campo della civiltà antica accetta quanto di buono, cioè quanto di non contrastante con il Cristianesimo, tale civiltà ha prodotto, così, secondo la concezione prudenziana, per quanto attiene alla poesia può liberamente appropriarsi di ciò che di meglio ha saputo creare quella civiltà: i fini che la poesia si pone: lodare Dio, istruire i fratelli, portare sulla soglia della salvezza eterna il poeta, autorizzano ampiamente un uso estremamente libero del patrimonio poetico classico. […]

Nel corpo vivo della poesia di Prudenzio si avvertono più volte, or più or meno segnate, le tracce dei poeti classici, Virgilio e Lucrezio in primo luogo, e se ne sentono gli echi, or più or meno distintamente. Ma Prudenzio è vero poeta, dotato di una sua vena lirica, che soprattutto negli "Inni della giornata" si effonde in preghiera commossa, e nel "Libro delle corone dei martiri" contempla gli eroi di Cristo con umile, trepidante fede. Talora un certo sentire retorico ed enfatico disturba la serenità della visione la compostezza della narrazione: nell’opera sua abbondano veramente, più di quanto per il nostro gusto sia accettabile, il gonfio, truculento, l’esasperato: ma ciò risponde, non ad un calcolo retorico, bensì ad un’esigenza dell’indole ispana di Prudenzio (che per questo riguardo ci ricorda i suoi compatrioti, Seneca e Lucano).

La sa poesia nasce dalla schietta adesione alla fede cristiana: il dissidio tra forma e contenuto è superato: sulle misere spoglie della giovinetta Eulalia — morta sul rogo per attestare la fede in Cristo — da tutti abbandonata, anche dai satelliti del carnefice, sulla deserta piazza, spenta in un silenzio atterrito e sospeso, scende, a simboleggiare la pace che ora in cielo gode la vergine, la neve:

"Ecco, il glaciale inverno fa scendere la neve, che tutta la piazza ricopre: e anche le membra di Eulalia, che sotto la gelida volta celeste giacciono, essa ricopre, a guida di candido mantelletto".

Non sono rari questi momenti di lirica contemplazione, in Prudenzio: e per essi egli merita di essere accolto fra i poeti che hanno qualcosa da dire agli uomini, ai fratelli.

Prudenzio è stato il più grande dei poeti latini cristiani, dice il Lana; ma forse è stato troppo ottimista: noi diremmo che è stato il solo. Certo, vi sono anche Sidonio Apollinare e Venanzio Fortnato, e qualche altro: pesci d’acque basse, in verità: più che altro, facitori di versi. E inoltre, certo, vi è stato il grande crollo della civiltà romana e del mondo antico, vi sono stati gli sconvolgimenti causati dalle migrazioni dei popoli, tutto un mondo che crollava, e nessuno sapeva se ne sarebbe sorto uno nuovo. Al problema di creare una poetica cristiana indipendente da quella pagana, si aggiunse il nuovo problema, di assicurare la sopravvivenza all’una e all’altra, nel naufragio generale della civiltà. Oggi, molti storici preferiscono evidenziare i caratteri di continuità, più che quelli di rottura, fra la civiltà classica e quella medievale, e hanno appositamente creato un concetto a ciò acconcio, quello del "tardo antico"; ma sta di fatto che gli uomini, gli uomini concreti, in quei secoli terribili — il V, il VI, il VII – ebbero l’impressione che il mondo intero, per quel che ne capivano, stesse sprofondando in una notte senza fine. Come osservava E. R. Dodds, il tardo antico coincide con un’epoca di autentica angoscia esistenziale, sia per i pagani che per i cristiani; e ci può essere qualcuno che ha ancora voglia di fare poesia, in simili condizioni? Sia come sia, la strada tracciata da Prudenzio si è ben presto interrotta, e, per ritrovarne le tracce, bisogna risalire lungo i secoli, uscendo dall’alveo della letteratura latina ed entrando in quelli delle letterature romanze. In pratica, per quel che riguarda l’Italia, per ritrovare una vera poesia cristiana, degna di questo nome, bisogna arrivare al Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi, che, secondo una tradizione, venne composto, o meglio dettato, dal santo, due anni prima della morte, dunque nel 1224: un bel salto, dal Liber Cathamerinon, dal Liber Peristephanon e dalla Psychomachia di Prudenzio, non c’è che dire; più di otto secoli, un’eternità.

Ad ogni modo, a Prudenzio spetta il vanto d’aver dimostrato che fare poesia cristiana aveva un senso, che era possibile, che era utile; mentre intellettuali cristiani come san Gerolamo, erano tormentati dallo scrupolo di essere dei "ciceroniani" e non dei veri seguaci di Cristo, cioè amanti delle belle lettere pagane più della verità del Vangelo. Prudenzio sciolse positivamente il nodo di quella doppia cittadinanza, cristiana e romana, mostrando che la poesia cristiana aveva una sua funzione, una sua dignità, una sua bellezza; e, più in generale, che essa non comportava alcun allontanamento dalla retta via, se messa al servizio delle verità eterne e della vita divina. A nostro avviso, tuttavia, l’importanza maggiore della poetica cristiana di Prudenzio sta nel fatto di aver relativizzato il valore della poesia, laddove noi moderni, specie dopo il romanticismo, siamo abituati a considerarla come un valore assoluto. E l’abbiamo assolutizzata al punto che stiamo ancora qui a discutere se, e in quale misura, la Provvidenza sia o non sia la vera protagonista de I promessi sposi di Alessandro Manzoni: come se, per un’opera cristiana, si possa immaginare un altro protagonista che Dio. Per noi è diventato problematico ciò che, nella linea di Prudenzio, dovrebbe essere ovvio e naturale: tutto ha un valore, arte compresa, se ricondotto a Dio e messo al servizio dell’anima che cera Dio; altrimenti, niente ha un valore. Ma noi non siamo più in quella prospettiva, perché non siamo più cristiani: viviamo in una società post-cristiana, ci abbeveriamo a una cultura non più cristiana, se non anticristiana. Era la prospettiva di Dante, ma non più quella di Petrarca: e noi siamo i nipotini di Petrarca, mentre la poesia di Dante resta muta per noi: ne cogliamo il suono esteriore, ma ci sfuggono le sue risonanze più profonde. Nn potrebbe essere diversamente: per udirle, bisogna avere una visione cristiana della vita; non solo: bisognerebbe vivere immersi in una società e in una cultura fondate su quella visione, mentre oggi le cose stanno in tutt’altro modo. Siamo usciti da un pezzo dal paradigma cristiano e siamo entrati nel paradigma moderno: il paradigma delle cose, cioè il paradigma del nulla. Le cose sono destinate al nulla, solo l’essere permane; ma noi non cogliamo più l’essere, siamo trascinati dal fluire delle cose, e, a nostra volta, le inseguiamo incessantemente, a dispetto di ogni nuova delusione: siamo divenuti creature desideranti, come aveva ben visto Ludovico Ariosto, e corriamo dietro all’ultimo oggetto del desiderio che ci abbia sedotti.

In questo senso, il cerchio si sta chiudendo. Siamo tornati al paganesimo e alla visione pagana della vita, perché in questo essa consiste: nell’assolutizzazione delle cose, di ciò che è relativo. Ma ciò porta inevitabilmente a un corto circuito: chi insegue l’assoluto in ciò che è relativo, troverà solo la pazzia. Il mondo pagano era impazzito: come ben vide san Paolo nella Lettera ai Romani, esso era precipitato in ogni sorta di vizi e di turpitudini perché aveva disconosciuto Dio, che è la Verità, per adorare false immagini di dei, cioè la menzogna. L’errore teologico conduce al disordine esistenziale e alla dissoluzione etica. Ebbene, noi siamo tornati a quel punto; e anzi, in molte cose, abbiamo persino sorpassato i vizi e le turpitudini dei romani della decadenza. Stiamo percorrendo una strada di morte, e infatti la nostra crisi demografica è la spia del fatto che abbiamo smesso di amare la vita, nel senso più vero dell’espressione, mentre amiamo solo ciò che, nella vita, risulta gratificante per il nostro narcisismo. Basta gettare uno sguardo all’arte, alla musica, alla poesia, al pensiero moderni: essi sono, al novanta per cento, una celebrazione del brutto, dell’angoscioso, dell’insensato, del folle, del malvagio, del crudele, del blasfemo, cioè un inno alla morte. Davanti all’evidenza di avere imboccato una strada senza uscita, troveremo sufficiente umiltà per distogliere lo sguardo dalle immagini di morte, che ci hanno stregati e quasi ipnotizzati, e tornare verso la vita? E la vita è lì, che ci chiama; la vita è Dio. Anche la strada è già tracciata: è quella di Prudenzio. Sì, la poesia ha un senso; sì, la bellezza delle cose umane può essere benefica, se diviene una scala verso il Cielo; e sì, anche la vita terrena è un bene, se non si rinchiude in se stessa, ma accompagna il cammino dell’anima verso il traguardo della vita eterna.

Tutto dipende dall’uso che si vuol fare dell’arte, delle cose belle, e quindi anche della poesia. Tutto è buono, ciò che avvicina l’anima a Dio; ma tutto diviene cattivo, se l’allontana; tanto più, che, contemporaneamente, l’allontana anche da se stessa, dalla verità che è dentro di lei, sin dall’inizio. In fondo, si tratta di una lezione molto semplice. Tanto semplice che gli uomini e le donne moderni, malati d’intellettualismo, non riescono a vederla, sebbene ce l’abbiamo davanti agli occhi, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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