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21 Giugno 2017Ci eravamo chiesti, a suo tempo — e la domanda, lo sappiamo, non è particolarmente originale — se Emilio Salgari fosse colonialista o anticolonialista; se il suo cuore battesse più forte per i popoli oppressi o per i popoli che rappresentavano la "civiltà" (cfr. il nostro articolo: Emilio Salgari è modernista o antimoderno, colonialista anticolonialista?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/09/2014, poi ripubblicato su Il Corriere delle Regioni). Non staremo qui a ripetere i concetti già espressi a suo tempo. Una cosa, però, è certa: in un certo senso, la sua prospettiva di romanziere e d’intellettuale supera quella strettamente politica e ideologica; è una prospettiva, la sua, ideale, o, se si preferisce, strettamente personale, che non cade mai nei trabocchetti del politicamente corretto (nei quali cadono in tanti, anche oggi!), ma segue, d’istinto, la causa più nobile, nel senso squisitamente donchisciottesco della parola. La causa "nobile", pertanto, può essere quella dei pirati della Malesia, che lottano contro l’onnipotente colonialismo britannico, e può essere quella degli Stati americani del Nord in lotta contro quelli del Sud, per difendere, com’egli crede, e come allora credevano quasi tutti, il principio della libertà contro lo schiavismo; ma è anche quella di una potenza occidentale più debole di fronte a una più forte, la quale dissimula i suoi veri intenti dietro la maschera ipocrita di ragioni "ideali" che sono, in realtà, del tutto strumentali.
E questo è quanto appare in occasione della guerra ispano-americana del 1898, che deve aver colpito molto la fantasia, e non solo la fantasia, del Nostro, sino ad apparirgli come la lotta di chi ha un ideale contro chi possiede solo la ricchezza e la forza: lo spirito contro la carne, o, addirittura (ma la citazione è politicamente troppo scorretta, essendo di matrice fascista) il sangue contro l’oro e il lavoro contro il capitale. Non solo: egli, in quella circostanza, sente e pensa da vero europeo, da europeo tutto d’un pezzo, che vede nella politica statunitense una mostruosa avidità, un egoismo sfacciato, e, soprattutto, una forza smisurata, ma senz’anima, la forza della macchina, che degenera nella brutalità pura e semplice, per mancanza di storia, di tradizioni, di civiltà; dando voce a un sentimento che, in quel momento, era assai forte sul nostro continente, ma che non si tradusse in alcun atto politico concreto, restando limitato alla sfera di una generica "simpatia" da parte della stampa e, quindi, dell’opinione pubblica, nei confronti della monarchia spagnola e contro la repubblica nordamericana. In effetti, qualcuno parlò di concretizzare quella simpatia in un’azione politica e militare effettiva, ma non se ne fece nulla, forse anche per la rapidità con cui si svolsero le cose: il 23 aprile la Spagna dichiarava guerra agli Stati Uniti, ma già il 12 agosto venne firmato l’armistizio, seguito, il 10 dicembre, dal trattato di pace di Parigi. Il cancelliere Bismarck osservò, in quella occasione: Gli Stati Uniti hanno la fortuna sfacciata che assiste gli incoscienti, i pazzi e gli ubriachi.
Non era scontato, comunque, che Salgari simpatizzasse per gli spagnoli e prendesse decisamente posizione contro gli americani. La Spagna era pur sempre una potenza coloniale, per giunta decrepita e inefficiente: dopo quattro secoli di dominio, non aveva saputo farsi amare dai cubani, né dai filippini, e lo scrittore veronese ben lo sapeva, dato che nel 1897 aveva pubblicato il romanzo Le stragi delle Filippine, in cui simpatizza per la causa della libertà di quell’arcipelago. E dunque, cosa l’ha indotto a cambiare idea appena due anni dopo, quando, sempre per l’editore genovese Donath, esce La capitana del "Yucatan", in cui narra le imprese d’una eroina spagnola, la nobile Dolores del Castillo, che arma una nave corsara per aiutare la sua patria nell’impari lotta contro la strapotente flotta americana? Per provare a rispondere a questa domanda, bisogna confrontarsi direttamente con il testo salariano e rileggersi specialmente il capitolo XXX di quest’ultimo romanzo, intitolato Attraverso la flotta americana (da: Emilio Salgari, La Capitana del "Yucatan", Edizioni Paoline, 1973, sul testo del torinese Andrea Viglongo & C., pp. 227-229):
Durante l’ardito viaggio intrapreso dal "Yucatan" per forzare il blocco degli americani, nulla di veramente deciso era stato ancora intrapreso dalle poderose flotte partite dai porti degli Stati dell’Unione, contro le colonie spagnuole del Golfo del Messico.
Da tre mesi la guerra era stata dichiarata fra le due potenze, ma, cosa davvero strana, all’infuori della distruzione della flotta spagnuola delle Filippine, una vittoria già prevista e della quale non dovrebbero certamente andare alteri gli americani, nessun successo era stato ottenuto né da una parte, né dall’altra.
Sampson, il famoso ammiraglio americano che si era proposto di ridurre tutti i porti di Cuba in un ammasso di fumanti rovine, se non si fossero prontamente resi, non aveva avuto alcuna fortuna fino ai primi di giugno. Aveva fatto grande spreco di munizioni, è vero, aveva cannoneggiato a destra ed a manca fortini e cittadelle impotenti a resistergli, aveva tentato qualche sbarco; gran rumore, molto fumo e risultati negativi. La sua formidabile armata, una delle più numerose, delle più potenti del mondo, contro la quale la povera Spagna nulla avrebbe potuto intraprendere senza venire schiacciata, non possedendo una flotta capace di misurarsi con la rivale, non aveva raccolto nulla, assolutamente nulla, con grande meraviglia di tutte le nazioni marinaresche.
Le sue imprese, gabellate per strepitose vittorie dalla ciarlatanesca stampa americana, si possono riassumere in poche righe.
Il 24 aprile apre la campagna, sparando colpi contro il forte Morro che difende l’Avana, la capitale dell’isola, tenendosi però alla prudente distanza di 4.000 metri, per non esporsi ai cannoni Krupp di quel forte; il 27, mentre le cannoniere spagnuole e americane scambiano cannonate a Marinaio, il valoroso ammiraglio se la prende coi fortini della cittadella di mattanza,. Assolutamente incapaci di tenergli testa e per quarantacinque minuti li bombarda senza riuscire a distruggerli: il 29, la nave ammiraglia il "New York" spreca le sue munizioni contro le coste di Pinal del Rio, abbattendo un gran numero di alberi, scambiati forse per giganti spagnuoli.
Il 2 maggio, il bombardati ore, geloso forse delle vittoria riportata da Dewey alle Filippine contro la vecchia malandata squadra spagnuola, corre a Key-West a rifornire la sua squadra di munizioni, poi manda gl’incrociatori a scambiare cannonate contro le cannoniere spagnuole di Cardenas, le quali, quantunque vecchie, mettono in fuga gli avversari.
L’11, manda 4 navi a Cinfuegos per tentare uno sbarco. Sparano seicento colpi, mettono in acqua le scialuppe e queste ritornano a bordo più che in fretta, respinte dal fuoco di moschetteria di poche compagnie di volontari spagnuoli.
Finalmente il 12, il terribile bombardatore decide di far stupire il mondo. Con nove delle più poderose corazzate, compare dinanzi a S. Juan, la capitale di Portorico ed apre un fuoco infernale lanciando granate da 12 pollici, ma i forti spagnuoli rispondono con pari vigore e l’obbligano a ritirarsi con qualche corazzata danneggiata; alla sera, la città che gli americani dicevano distrutta per metà, si illumina a festa per l’insuccesso degli assalitori.
Coda fare? Ritentare gli sbarchi. Ed il bravo ammiraglio manda infatti delle navi per mettere a terra truppe nella baia di Zoicotea e sulla spiaggia di Barres, senza frutto, mentre gl’incrociatori spagnuoli "Conte Venancio" e "Nueva España", quantunque non protetto da corazzate, escono dall’Avana e fugano i vapori armati da guerra incaricati di bloccare la capitale dell’isola.
Ma ecco che si sparge la notizia che una squadra spagnuola ha attraversato l’Atlantico, senza che nessuno se ne fosse accorto e che è comparsa presso le Piccole Antille. La guida Cervera, uno dei più valenti ammiragli ed uno dei più audaci. Tutti la credevano a Cadice, mentre si trovava già in America. Sono poche navi montate da pochi animosi, impotenti assolutamente a sostenere l’urto della formidabile flotta americana quattro colte più numerosa; ciò però non impedisce che l’ammiraglio spagnuolo corra in aiuto di Cuba. Suo obiettivo era di portarsi all’Avana per rinforzare la difesa di quella capitale.
Il bombardatore americano deve, con rincrescimento, sospendere le sue poco fortunate imprese e guardarsi da quel nemico che è comparso improvvisamente nelle acque antillane. D’accordo col suo collega Schley, comandante della squadra volante, si mette in cerca degli audaci spagnuoli, giurando di distruggerli tutti, prima che scorgano le coste cubane.
Disgraziatamente non era ancora all’Avana, meta del suo ardito viaggio. Un ritardo nel provvedersi di carbone lo costringe a fermarsi e la flotta americana lo blocca nel porto, cominciando il bombardamento dei forti.
Quando scriveva il suo romanzo, la guerra era già finita e gli americani si erano anche presi il lusso di inserirla nella loro ancor giovane mitologia nazionalista con l’appellativo di splendid little war, magnificando oltremodo le gesta dei Rough Riders e di Terry Roosevelt, minimizzando il valore mostrato dall’avversario a El Caney e San Juan Hill, e soprattutto le insormontabili difficoltà logistiche che avevano impedito alla Spagna una valida difesa dei suoi lontani possedimenti, pur senza distoglierlo dalla scelta di conservare l’onore senza la flotta, piuttosto che la flotta senza onore (una scelta opposta a quella che farà l’Italia, con la sua marina, l’8 settembre del 1943). Ma a Salgari non importa di apparire come l’ultimo paladino di una causa persa, anzi, rovescia l’ironia contro il vincitore quando paragona il bombardamento navale dell’ammiraglio Sampson a una strage d’alberi scambiati per giganti spagnoli. Ma di gigantesco c’è solo il coraggio dell’ammiraglio Cervera e dei suoi marinai; e, naturalmente, quello della señorita Dolores, la "sua" eroina.
Resta da spiegare la simpatia di Salgari per i "cattivi " colonialisti spagnoli e la sua esplicita antipatia per gli yankee, i quali, almeno in apparenza, vengono (come sempre!) a portare la libertà: sia ai cubani che ai filippini (anche se questo ultimi non la vogliono da loro; e infatti ci vorranno anni di guerriglia nelle foreste e migliaia di morti americani, soprattutto per le micidiali malattie tropicali, come la febbre gialla). Non aveva forse parteggiato per gl’insorti antipsagnoli, ne Le stragi delle Filippine? Certo: ma, in quel caso, i più deboli erano i filippini; in questo caso, invece, cioè nel caso di Cuba e Portorico, i più deboli sono gli spagnoli. Non solo. Per capire la sua posizione, bisogna tener conto della cinica campagna di stampa orchestrata dal gruppo giornalistico Hearst, per rendere la guerra inevitabile, quando ancora, teoricamente, non lo era; e soprattutto di quel fatale Ricordatevi del "Maine"!, la corazzata americana esplosa nel porto dell’Avana, senza che sia mai stata accertata una precisa responsabilità spagnola. Si rilegga la frase, carica di disprezzo: Le sue imprese — cioè dell’ammiraglio Sampson – gabellate per strepitose vittorie dalla ciarlatanesca stampa americana. No, decisamente a Salgari non vanno giù, quei boriosi yankee che fanno tanto i rodomonti contro un avversario palesemente più debole; non gli piacciono a livello politico, così come non gli piacciono nella sua fantasia di scrittore. Se la Tigre della Malesia, per ipotesi, fosse più forte dei sui nemici, si può star certi che le simpatie del Nostro andrebbero a questi ultimi, come qui vanno agli spagnoli. A Salgari piace stare coi valorosi, non coi vincitori.
E poi c’è un’altra cosa da tener presente. Salgari è essenzialmente un individualista e, per certi aspetti, un anarchico, anche se un anarchico pieno di senso della giustizia. Egli non ragiona mai da "politico", ma sempre e solo da uomo in mezzo ad altri uomini. In fondo, non è tanto alla Spagna che vanno, nella guerra del 1898, le sue simpatie, ma ai singoli uomini e donne valorosi: all’ammiraglio Cervera, alla "capitana" Dolores. In tutti i suoi romanzi, il criterio delle simpatie e delle antipatie dello scrittore è sempre un criterio individuale: quel che gl’interessa sono il coraggio, l’ardimento, la lealtà dei singoli individui; e da questi, talvolta, le sue simpatie si estendono anche alla patria che essi difendono (in Cartagine in fiamme, ad esempio, le sue simpatie vanno ai cartaginesi che lottano con valore disperato per difendere la loro città, non ai romani). In fondo, Salgari è più di un romanziere cavalleresco, che riconosce sempre il valore del singolo combattente (meglio se costui si batte per una causa nobile e giusta, ma anche, talvolta, se la sua causa non è del tutto nobile, né del tutto giusta); è egli stesso l’ultimo cavaliere solitario. Come non ammirare il ritratto fiero, virile, che egli fa di Minnehah, la tremenda "scotennatrice" sioux, nel ciclo delle Praterie, anche se è la "cattiva" di turno e finirà abbattuta come un animale feroce? Dopotutto, ella voleva vendicare sua madre, uccisa e scotennata da un bianco. E, per Salgari, la famiglia è sacra…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels