L’uomo è un “impossibile” che deve realizzarsi
23 Maggio 2017
Dio non è cattolico; e il papa?
25 Maggio 2017
L’uomo è un “impossibile” che deve realizzarsi
23 Maggio 2017
Dio non è cattolico; e il papa?
25 Maggio 2017
Mostra tutto

Come i progressisti ci stanno portando alla rovina

Premettiamo alle presenti riflessioni sul progressismo e i progressisti la consapevolezza che si tratta di una questione solo apparentemente centrale, perché, in effetti, essa non è che il riflesso di una dinamica assai più ampia e complessa, che nasce da tutt’altre premesse pratiche e teoriche, la quale vede nel progressismo soltanto la maschera per veicolare progetti ulteriori, assai più ambiziosi e terrificanti, dei quali i progressisti, di solito, non hanno neppure la più vaga idea. In altre parole, essi non sono che gli utili idioti di un disegno planetario volto alla creazione del caos permanente, quale condizione necessaria per l’avvento definitivo di un Nuovo Ordine Mondiale, fondato sulla dittatura camuffata dei poteri finanziari invisibili. Pertanto, chi facesse del progressismo o del conservatorismo la sua battaglia e la sua scelta di campo, sbaglierebbe completamente la diagnosi e mancherebbe clamorosamente il bersaglio, qualunque sia lo scopo che si propone di perseguire: perché l’uno e l’altro non sono ciò che sembrano, ma solo il teatrino di cartapesta sul quale si affrontano eserciti inconsapevoli e insensati, dei quali nulla importa ai veri registi di tutta l’operazione, e che di essi si servono come di pedine in se stesse prive di valore, dunque sacrificabili in quantità illimitata, pur di raggiungere i loro fini.

Dunque, i progressisti. Non sono sempre esistiti: sono un prodotto della modernità. Così come li conosciamo ora, nascono con l’illuminismo, con i (sedicenti) philosophes e con i (sedicenti) savants: tutta roba che esce dal sacco dell’Encyclopédie. Certo, un partito progressista e un partito conservatore esistevano anche nell’antica Roma e perfino nelle poleis greche, ad Atene specialmente: però non avevano una prospettiva così ampia, un disegno così totale. Erano espressione dei mutamenti economici e sociali che, pur assumendo dimensioni sempre più ampie (nel caso della Roma repubblicana, i radicali mutamenti prima e dopo le guerre puniche), non avevano ancora un vero e proprio significato ideologico, per il semplice fatto che gli antichi non conoscevano l’ideologia, nel senso che noi diamo a questa parola; e tanto meno la conoscevamo i medievali. Le premesse per il suo avvento sono nell’umanesimo, dove il progresso si identifica con la riscoperta dei classici e con la polemica antimedievale, e si sviluppano con il rinascimento, in cui il movimento si fa più netto, la rottura più radicale e, soprattutto, immanentistica; indi con la rivoluzione scientifica del XVII secolo, nella quale si assiste, per la prima volta, ad un progetto globale mirante a (sono parole di Galilei) rifare e’ cervelli, cambiare le teste della gente, il modo di pensare dell’umanità. Niente di meno. L’illuminismo riprende e sviluppa questa idea e ne fa il proprio asse portante, investendola di significati etici e ideali: il Progresso è il bene, è la ragione, è la felicità, o, almeno, la condizione per il raggiungimento della felicità; dall’altra parte ci sono le forze morte dell’ancien régime, la resistenza passiva dei ceti privilegiati (si tratta essenzialmente di un suicidio, vista la quota di aristocratici nel movimento illuminista), insomma il passato è il male, e la conservazione è il nemico da abbattere, l’ostacolo da rimuovere e, possibilmente da cancellare e da far dimenticare. Ecco: accanto all’idea-cardine del Progresso illimitato come marcia vittoriosa e inesorabile della ragione, c’è, quale suo corrispettivo implicito o esplicito, l’idea della demolizione del passato ed il suo oblio: la tradizione non vale nulla, anzi, è il male essa stessa; per progredire, è necessario non solo spazzare via la tradizione, ma anche farne sparire persino il ricordo. Gli uomini saranno più felici se non sapranno neppure come fosse il mondo di prima.

Saltiamo le tappe nel corso del XIX secolo, specialmente il positivismo, e del XX, specialmente il marxismo; ed eccoci alla vigilia della grande svolta degli anni ’60 del Novecento, il Concilio Vaticano II nella storia della Chiesa e il 1968 nella storia della società profana, specialmente del mondo studentesco. Si tratta di bruciare le tappe, di recuperare un ritardo (per alcuni Paesi giunti per ultimi alla piena modernità, come l’Italia); si tratta di pianificare scientificamente la distruzione e la rimozione del passato, anche dal punto di vista visivo: urbanistico, architettonico, paesaggistico. Il passato deve scomparire in maniera tale che le nuove generazioni non arrivino neanche a immaginarlo. Tale è stato il senso della rivoluzione liturgica nella Chiesa, mediante la quale si è avviata anche una sotterranea, ma incessante rivoluzione dottrinale: i giovani cattolici devono ignorare cosa fosse la Messa in latino, cosa fosse il Catechismo di Pio X, cosa fosse l’Eucaristia prima del Concilio e come i fedeli le si accostassero, non certo in piedi, prendendola in mano, ma in ginocchio, ricevendola in bocca, con la massima compunzione; devono ignorare che, per quattro secoli, dal Concilio di Trento in poi, il cattolicesimo era tutta un’altra cosa: bisogna far credere loro che la versione attuale è la sola possibile, la sola giusta, la sola esistente e, al limite, la sola mai esistita. Per la società profana, è la stessa cosa: i giovani devono ignorare cosa fosse la scuola, la buona scuola di prima del ’68; cosa fosse l’università; cosa fosse la cultura; cosa fosse la televisione; cosa fosse lo spettacolo; cosa fosse il cinema; cosa fosse lo sport; cosa fosse la musica leggera. Non devono sapere come si viveva nelle famiglie, quali fossero i valori riconosciuti e condivisi, quali fossero realmente i rapporti tra padri e figli, in che cosa credessero e per che cosa lavorassero o studiassero i loro coetanei di due o tre generazioni fa. Soprattutto, bisognava rimuovere l’amor di patria, il senso della disciplina, il valore del sacrificio per la difesa dell’interesse nazionale: spariti o dimenticati i morti di El Alamein; ricordati ancora per un poco quelli del Piave, ma poi accantonati pure quelli: infatti, guai se i giovani d’oggi si chiedessero che senso ha avuto difendere strenuamente la patria sulla linea del Piave, nel 1918, per consegnarla, oggi, a orde d’invasori che la stanno occupando senza colpo ferire, anzi, addirittura invitati ed assistiti dalle istituzioni che dovrebbero proteggere i confini, e invocate dai maggiori esponenti del governo e del mondo politico, con l’assurda motivazione che noi abbiamo bisogno di questa auto-invasione, stante il nostro calo demografico.

Dal 1968 in poi il mito del Progresso si è offuscato alquanto, mano a mano che ne apparivano praticamente tutti i limiti che chiunque avrebbe dovuto vedere per tempo, anche in linea teorica, primo fra tutti l’impossibilità di conciliare un progresso illimitato con le risorse limitate di un pianeta già in gran parte sfruttato oltre i limiti della compatibilità ambientale e delle possibilità produttive, sia pure enormemente potenziate dalla tecnica (ancora progresso, dunque, per risolvere i problemi causati dal progresso, in una spirale che si avvolge senza fine su se stessa). Eppure, a tale offuscamento non ha fatto riscontro un vero ripensamento; al contrario, come tutte le ideologie morenti, il mito del Progresso è stato rivisitato, rispolverato, tirato nuovamente a lucido, dispensato generosamente in forme capillari attraverso il sistema mediatico, divulgato con rinnovato fervore apostolico, predicato come la nuova religione laica dell’umanità e come la sola speranza di salvezza e di ulteriore possibilità di crescita e di benessere, anche mediante forme grossolane di ricatto e terrorismo psicologico: Volete forse tornare alla candela? Volete forse riportare la povertà? Volete forse tornare ai valori altissimi della mortalità infantile, quando non esistevano tutti i progressi della medicina moderna? E così di seguito: argomenti fondati non sulla persuasione razionale, ma sull’impatto emotivo, sono stati scagliati come proiettili di catapulta contro chiunque osasse accennare, anche timidamente, ai limiti, ai rischi, alle contraddizioni di un progresso illimitato, destinato inesorabilmente a divorare se stesso, mano a mano che gli ultimi "polmoni" verdi del pianeta andavano sparendo e l’industrializzazione e la cementificazione selvaggia inghiottivano, un anno dopo l’altro, un mese dopo l’altro, fette sempre maggiori di paesaggio, di foreste, di spiagge, di campagna. E adesso, eccoci qui: talmente manipolati, plagiati, istupiditi da decenni di pubblicità martellante, implacabile, subdola, che accettiamo ormai qualsiasi cosa, pur di non essere privati delle ultime meraviglie del progresso: computer, telefonini multifunzionali e giochi elettronici, senza i quali, probabilmente, non sapremmo più vivere, per non dire che non sapremmo più mandare avanti l’economia, una banca, una impresa, perfino un’azienda agricola. Ormai troviamo normale che lo Stato ordini le vaccinazioni di massa, minacciando multe di migliaia di euro e la sottrazione della patria potestà a quei genitori che non intendono far vaccinare i loro bambini. Nessuno ci trova nulla di strano; gli intellettuali tacciono, di destra e di sinistra: il progresso ha vinto, non esiste altro dio fuori di lui. Lo Stato si fa strumento del Progresso così come, in passato, si faceva strumento dell’Inquisizione; i cittadini regrediscono a sudditi, ma tutto va bene.

Il progressista, peraltro, antropologicamente, non è quello che sembra. Ci si può chiedere, infatti, come mai i progressisti siano, o almeno diano l’impressione di essere, più numerosi, più agguerriti, più trascinanti dei loro avversari conservatori. È molto semplice: il progressista, quasi sempre, appartiene ad un tipo umano comunissimo, addirittura dozzinale: è un conservatore della peggiore specie, vale a dire un individuo ottuso, senza alcuna immaginazione, senza coraggio intellettuale, con pochissimo senso civico, con pochissimo rispetto per le generazioni future (che potrebbero soffrire delle sue decisioni insensate, prese in modo puramente egoistico), con pochissimo senso critico; inoltre, è un parassita intellettuale, uno che ama vivere di rendita, ma non sulla propria rendita, bensì su quella che gli viene offerta dal di fuori. In breve, si tratta di un signore (o di una signora) che si siede, col suo pesantissimo culto di piombo, sul tremo del Progresso, e non se ne schioda più, dovesse pure cadere il mondo: qualsiasi cosa possa capitare, mai e poi mai sarebbe disposto a rivedere le sue rocciose certezze, a meno che dall’alto, vale a dire dalla cultura scientifica dominante, quella universitaria, arrivasse un contrordine più o meno repentino, un brusco dietro-front, nel qual caso marcerebbe con tutti gli altri, allineato e coperto, nel più perfetto ordine. Regola numero uno del progressista: non rimanere mai indietro, e non fare mai un passo più avanti degli altri: egli è, malgrado le apparenze, un uomo d’ordine, nel senso più ottuso e meschino del termine. In realtà, non gl’importa del progresso; ciò che gl’importa è sedere sempre, col suo culo di piombo, sul treno giusto: quello che sta andando nella direzione da cui non si può tornare indietro.

In effetti, qui ci stiamo avvicinando al grande segreto (segreto di Pulcinella, a dire il vero) che sta al cuore dell’ideologia progressista: il fascino che esercita su tutti i suoi seguaci, o, per meglio dire, il senso di rassicurazione che deriva loro, dal sapere che indietro non si tornerà. In un certo senso, per loro sarebbe la stessa cosa se la direzione di marcia del treno s’invertisse, a patto che i macchinisti dicessero che non c’è altro da fare se non tornare indietro: in quel caso, come ironizzava Leopardi ne La ginestra (ma in un significato diverso da quello che qui intendiamo noi) chiamerebbero andare avanti l’arretrare, così come non si fanno alcuno scrupolo nel chiamare un tornare indietro l’ammonimento che viene da quanti fanno notare che la sola possibilità di andare "avanti", cioè verso la salvezza, consiste, ormai, in un ritorno, almeno parziale, sulle posizioni precedenti. Ora, il progresso è, per definizione, un procedere innanzi: pertanto, chi si prenota un posto a bordo, sarà sempre sicuro di non dover fare alcuna fatica personale, di non dover mai pensare con la propria testa, perché — come abbiamo visto — di fronte alla più piccola obiezione, non dovrà fare altro sforzo che quello di replicare: Ma non vedete che il treno sta andando in questa direzione? Perciò, se voi non siete d’accordo, siete semplicemente fuori della realtà. Insomma: indicano, per così dire in anticipo, la forza del fatto compiuto: siccome la marcia del treno è inarrestabile (secondo loro; ma, in effetti, è tutto da dimostrare), in pratica non esistono alternative. Di conseguenza, chi si oppone al progresso è un nemico pubblico, un individuo pericoloso, un sovversivo da eliminare, se non fisicamente, almeno idealmente. Ed è proprio quello che avviene. I biologi non evoluzionisti esistono, ma non hanno voce. Gli psicologi non freudiani esistono, ma non contano. I medici non totalmente devoti alla causa dei farmaci chimici ci sono, ma sono quasi invisibili, e, se aprono bocca, rischiamo l’espulsione dall’ordine. E così via. Ci sono gli architetti, gli urbanisti, gli storici, i poeti, i filosofi, i teologi, i registi, gli attori e i musicisti non completamente supini all’ideologia del progresso: ma è come se non ci fossero, perché, nella società del microfono, è stato tolto loro il microfono, e dunque, anche se gridano, nessuno ode la loro voce.

Resta da precisare che il progressista non è tale solo in quanto devoto della ragione e della scienza, ma anche del cambiamento politico. Per circa un secolo, il progressista, in politica, è stato un marxista: dobbiamo ringraziare lui per i disastri intellettuali (oltre che per quelli materiali) degli ultimi settant’anni; infatti, il marxismo è tutt’altro che morto. Si è accoppiato cin il modernismo religioso dei cattolici di sinistra, e ne è nato un virus particolarmente ostinato e maligno, che sta uccidendo la nostra società. Sta ormai diventando quasi impossibile parlare non solo di cultura, ma di qualsiasi altra cosa, al di fuori dei binari di quest’ultima versione. I leader politici occidentali, i pastori della Chiesa cattolica, col papa in testa, suonano la fanfara. Chi mai potrebbe fermare la marcia trionfante del loro treno imbandierato, lanciato a tutta velocità sulle rotaie del Progresso?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.